S. Messa nella III domenica del Tempo di Pasqua nella chiesa dei Ss. Giuseppe e Bonaventura
del Monastero di clausura delle Carmelitane Scalze di Venezia (26 aprile 2020)
Omelia del Patriarca Francesco Moraglia
Cari fratelli e sorelle,
ancora una volta diciamo il nostro grazie ad Antenna 3, a Rete Veneta e a Gente Veneta Facebook.
Ci incontriamo oggi da una chiesa diversa dalle altre. Non è la Cattedrale di San Marco, non è il Duomo di Mestre, non è il Santuario di Santa Lucia né la Basilica del Redentore o della Madonna della Salute, ma è una chiesa ugualmente significativa: è la chiesa del Carmelo dei Ss. Giuseppe e Bonaventura in Venezia.
Perché abbiamo fatto questa scelta? Perché questo è un luogo di preghiera e perché la preghiera è il segno distintivo – la “carta d’identità” – del cristiano che esprime così il battesimo. E il cristiano che compie anche l’atto più sociale – pensiamo a Giorgio La Pira, il sindaco di Firenze – è sempre un uomo (o nei vari casi una donna, un giovane, un anziano ecc.) che prega.
Abbiamo quindi fatto questa scelta, vivendo la S. Messa domenicale di oggi in uno dei cinque luoghi di contemplazione pura presenti nella Chiesa di Venezia, uno di quei luoghi in cui si prega Dio e lo si invoca anche per i fratelli che non pregano.
Siamo in una casa che si lega strettamente a santa Teresa d’Avila, dottore della Chiesa e grande riformatrice della Chiesa nel XVI secolo (un’epoca veramente difficile). Lei fu una “leonessa”, ma fu anche un agnello mite. Quale era il suo segreto? La preghiera. La Chiesa, dandole il titolo di dottore della Chiesa, le dice: “perché hai capito e ci hai insegnato tutti i meandri più nascosti dell’orazione, della preghiera”.
Ha saputo comprendere e descrivere – questo è il particolare di Teresa – come si svolge la grazia della preghiera in un’anima umana, in una comunità. Era una donna che aveva a cuore, in modo particolare, Dio e che, soprattutto, era amata da Dio. Questo infatti è il grande messaggio: ognuno di noi è amato particolarmente da Dio.
Teresa, per la verità, ci mise un po’ di tempo a capire questo amore particolare che Dio aveva nei suoi confronti. Ma poi ci dà quel messaggio – la preghiera – che è universale e non riguarda soltanto il XVI secolo ma anche il nostro secolo, che non riguarda solo le anime contemplative ma anche gli operai, i medici – a cui va anche oggi il nostro ricordo, insieme agli infermieri -, i bambini, i giovani, i malati… La preghiera è di tutti i cristiani.
La grande riforma di Teresa nasce dalla preghiera. Non avrebbe potuto riformare nulla se non avesse incominciato dalla preghiera e fu proprio mettendo al centro la preghiera che si accorse – ormai giunta a quarant’anni – che nel convento dove era monaca sino ad allora – il grande monastero dell’Incarnazione ad Avila – non si pregava come si sarebbe dovuto pregare. Ci si distraeva, si faceva dell’altro e la conseguenza era triste: Dio era messo da parte, o meglio, se c’era nella vita di quella comunità non era il Signore di quella comunità, ma era una delle tante cose che le monache facevano.
La questione fondamentale era, quindi, ritornare alla preghiera e Teresa ritornò alla preghiera perché bisogna costruire la vita di una monaca, di una comunità – e noi diciamo, oggi, della Chiesa – a partire dalla preghiera, anche quando la Chiesa, doverosamente, si sporca le mani nelle situazioni più tragiche e drammatiche dell’esistere quotidiano.
E qui penso ai poveri, alla carità, ai malati, alle persone che hanno perso il senso della vita.. Come Francesco d’Assisi viene associato alla povertà e Domenico viene associato alla predicazione, Teresa viene così associata alla preghiera.
Alcuni, addirittura, si convertirono leggendo la sua biografia. Faccio soltanto un nome: Edith Stein, ebrea, docente universitaria, atea e poi convertita al cattolicesimo proprio leggendo la biografia di santa Teresa, poi divenuta monaca carmelitana e infine martire, per la fede in Cristo e per la fedeltà alle sue origini e al suo sangue ebraico, nel campo di concentramento di Auschwitz.
Nella vita di santa Teresa leggiamo questa definizione della preghiera: “La preghiera non è altro che un intimo rapporto di amicizia nel quale ci si trattiene spesso, da solo a solo, con quel Dio da cui ci si sa amati”.
La preghiera è una risposta all’amore di Dio, la capacità di dare del “tu” a Dio: questa è la caratteristica dell’anima che prega tanto, come faceva Teresa anche quando era provata da una serie innumerevole di difficoltà e tutto gli remava contro – nella Chiesa e fuori della Chiesa, nell’Ordine Carmelitano e al di fuori di esso – e magari si aggiungeva anche qualche imprevisto, quelli che noi chiamiamo contrattempi…
Una volta, ad esempio, Teresa cadde e si fece male ad una gamba mentre era già in una situazione difficile. Commentò: “Buon Dio, anche questo!”. Il Signore le rispose: “Ma tu non sai che io i miei amici io li tratto in questo modo?”. E Teresa, abituata all’intimità con Dio e a dare del “tu” a Dio, subito replicò: “Capisco perché hai così pochi amici, allora!”. La preghiera ci aiuta anche a sorridere sulle cose del mondo e solo chi sa sorridere sulle cose del mondo è un cristiano libero. La preghiera ci libera.
Ecco perché abbiamo scelto oggi di celebrare qui l’Eucaristia e speriamo di poter aprire presto le nostre chiese per poterla celebrare insieme con il popolo; è questa un’esigenza sentita dai Vescovi del Triveneto e dai Vescovi italiani che ascoltano quello che la gente chiede e dice loro.
Teresa è una donna, ma è un esempio virile di femminilità; non rappresenta lo scontro uomo-donna, ma ci fa capire che il riconoscimento della reciprocità è la ricchezza dell’uomo, dell’umanità, della famiglia umana.
Mi soffermo ora sul testo della liturgia di oggi, il magnifico Vangelo di san Luca: l’episodio dei due discepoli di Emmaus. Anche qui troviamo un dialogo, cari amici. Già nelle domeniche precedenti abbiamo incontrato dei dialoghi: tra Gesù e la Samaritana, tra Gesù e il cieco nato e, domenica scorsa, tra Gesù e l’incredulo Tommaso. Oggi ecco il dialogo tra Gesù e due discepoli disillusi: uno non sappiamo come si chiamava, l’altro è Cleopa; sono due compagni di viaggio.
Anche questo brano del Vangelo secondo Luca, al capitolo 24, può essere inteso come una sorta di cammino faticoso in tutto simile a quello della preghiera. Quattro sono i momenti che il diacono, leggendo il testo, ha scandito e che ci fanno capire come si è svolto questo dialogo tra Gesù, Cleopa e il suo compagno.
La prima tappa: i versetti 13-18. Abbiamo due uomini tristi, sconsolati, prigionieri dei loro pensieri, certi che quello hanno avvertito e visto, che portano dentro di loro è la verità. Camminano, ma è come se non camminassero. Parlano, ma è come se non parlassero. Dialogano fra di loro ma, in realtà, è come se facessero un monologo. Si ascoltano, ma non ascoltano. È lo stato d’animo di chi, nella prova, sa che ha tutto e non ha bisogno di pregare, non sa aprirsi alle sorprese di Dio. Il nemico – il diavolo – mette dentro di noi tutto questo pessimismo umano e cristiano.
La seconda tappa: i versetti 19-24. I due discepoli spiegano al misterioso pellegrino che si è aggiunto a loro strada facendo – una cosa abbastanza comune a quel tempo – ciò che Dio ha fatto per salvare il mondo. E guardate che sono molto precisi (rileggete quei versetti!) poiché raccontano tutta la vicenda di Gesù, secondo la volontà del Padre, solo che… leggono la Pasqua a partire dalle loro certezze e dalle loro logiche. Colpisce che raccontino per filo e per segno ciò che è la salvezza – la morte e resurrezione di Gesù – ma la leggano come fossero dei ciechi. Rimangono chiusi nel loro “io” e niente li fa dubitare.
Terza tappa (abbiamo qui anche i momenti di crescita della preghiera): i versetti 25-27. Gesù prende la parola e quando Gesù prende la parola lascia il segno; lo ha fatto con la Samaritana, lo ha fatto con il cieco nato, lo ha fatto con Nicodemo e lo fa ora anche con Cleopa e il suo compagno di viaggio. Li rimprovera: “Stolti e lenti di cuore…”. E poi indica la strada per leggere la vicenda che lo riguarda al di là di quelle che sono le catene dell’ «io» umano.
Come l’incredulo Tommaso, passano dalla incredulità alla fede; come Tommaso, dopo quel colloquio, non pretenderà più di toccare fisicamente le piaghe di Gesù, così loro si lasciano toccare dalla Parola di Dio: “Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?”. Torna qui il messaggio della preghiera che, prima di tutto, è incontro con Dio che dobbiamo lasciar entrare nella nostra vita e a cui dobbiamo dare credito, a cui dobbiamo dare il rischio della nostra vita. Tutta la vita è un rischio: possibile che siamo disposti a rischiare con tutto e con tutti ma non rischiamo mai con Dio? Ecco, quindi, la preghiera.
Quarta ed ultima tappa, il punto di arrivo (versetti 28-35): il dialogo tra Gesù, Cleopa ed il suo compagno è giunto al termine. E come giunge al termine? Nell’Eucaristia, nel riconoscimento di Gesù nello spezzare il pane. Si, l’Eucaristia di cui in questi giorni siamo privati – speriamo ancora per poco – è qualcosa di cui il discepolo, la comunità, la Chiesa non possono fare a meno. Parlo di una Chiesa che si riunisce realmente. E la prova che la nostra Eucarestia è efficace, per noi e per le nostre comunità, consiste nel vedere e verificare se siamo discepoli e comunità che annunciano nella vita, durante la settimana, Gesù Risorto.
I due discepoli, dunque, riconoscono Gesù che, subito, sparisce… C’è un grande insegnamento in questo: si riconosce il Signore, si fa una tappa e lui ce ne propone subito un’altra. Lo riconoscono e lui sparisce subito dalla loro presenza perché la loro fede – la nostra fede – non è mai un fatto acquisito, ma è sempre qualcosa che crescerà fino all’ultimo giorno della nostra vita.
La nostra vita termina quando è terminata la nostra missione e questo lo sa solo il Signore, il buon Dio; non lo sappiamo noi. Forse i giorni più grigi e monotoni – o quelli che ci sembrano i più inutili della nostra vita – saranno magari quelli che, dal Paradiso, vedremo come i giorni più fecondi e più belli per l’eternità.
Il Vangelo, infine, dice: “Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme”. Tornano nella città che avevano lasciato tristi, gravati dalla loro incredulità e da cui erano usciti tremanti e paurosi. Adesso, però, hanno incontrato il Risorto e “senza indugio” procedono; noi troppe volte, invece, indugiamo di fronte alle chiamate del Signore, mgari non quella che ci dà un volta nella vita ma quelle che ci continua a dare continuamente, ogni giorno e anche più volte al giorno nella nostra vita.
Questo procedere “senza indugio” non riguarda solo le nostre sorelle monache e non è detto solo per i Vescovi ma anche per i papà e le mamme, per i giovani, gli anziani e i malati. “Senza indugio” tutti siamo chiamati ad annunciare ciò che abbiamo riconosciuto. E dobbiamo, con sant’Agostino, tornare a dire: “Temo il Signore che passa, potrei non accorgermene. Potrei dirgli di no”. Un po’ di “giovane ricco” è, infatti, nel cuore di ciascuno di noi.
Ma concludiamo il racconto: i due discepoli, che pensavano di arrivare loro a Gerusalemme ad annunciare ai fratelli che il Signore era risorto, trovano un’altra sorpresa; Gesù ricopre di sorprese coloro che rischiano per lui. Quale sorpresa? Trovano gli Undici e gli altri nel cenacolo e che stanno dicendo con gioia: “Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!”.
Ognuno di noi – qualsiasi cosa faccia o abbia fatto nella vita, qualsiasi età abbia – ha un appuntamento con Gesù risorto sulla strada di Emmaus, in Galilea – là dove ci precede – o sulla via di Damasco. Però tutto inizia, come fu per santa Teresa, con la scoperta non facile (successe a quarant’anni e dopo venti di vita religiosa) della preghiera o – per dirla con il Vangelo di oggi – attraverso la meditazione della Parola di Dio che ci fa entrare nel mistero di Dio: “Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?”.
Buona settimana a tutti, rileggendo questo brano stupendo del Vangelo secondo Luca e ripensando alla grandezza della preghiera in santa Teresa d’Avila.