Omelia del Patriarca durante la S. Messa con la Fraternità di Comunione e Liberazione di Venezia (Venezia - Chiesa dei “Tolentini”, 16 febbraio 2015)
16-02-2015
S. Messa con la Fraternità di Comunione e Liberazione di Venezia
in occasione del XXXIII anniversario del suo riconoscimento pontificio
e nel X anniversario della morte di don Luigi Giussani
(Venezia – Chiesa di San Nicolò da Tolentino / vulgo “Tolentini”, 16 febbraio 2015)
 
Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia
 
 
 
 
 
Ringrazio per il gradito invito e vi dico che sono contento di poter celebrare, con voi, questa Eucarestia nel ricordo grato di don Giussani a dieci anni dalla sua nascita al cielo. E con voi, prendendo spunto dal Vangelo, vorrei soffermarmi su un punto che ha caratterizzato la personalità di don Giussani: la libertà evangelica. In don Giussani si dà in modo pieno l’appartenenza battesimale a Cristo e – perché e come Cristo ha voluto – alla Chiesa.
I farisei – nel Vangelo appena proclamato – discutono fra loro e domandano a Gesù un segno ma – come abbiamo sentito – Gesù, dopo aver emesso un profondo sospiro (che vuol dire molte cose) esclama che a questa generazione non verrà dato alcun segno e quindi, risalito sulla barca, va verso l’altra riva del lago. Gesù rifiuta di dare un segno, perché coloro che glielo domandano non intendono aprirsi a Lui per appartenergli ma per impossessarsi di Lui. Trasferendo in Lui le loro cose intendono capovolgere la logica del Vangelo. Non lasciarsi guidare, non lasciarsi prendere da Lui consegnando se stessi e la propria vita a Gesù ma, al contrario, impossessarsi di Lui trasferendo in Lui le proprie cose per rimanere se stessi; potremmo dire che siamo di fronte ad un cristianesimo culturaleggiante. E proprio qui l’appartenenza e la presenza – che diventano la compagnia della vita – furono la grande intuizione di don Giussani.
In un incontro personale, avvenuto nell’estate del 1982, san Giovanni Paolo II si espresse, con don Giussani, in questi termini: “Voi non avete patria, perché voi siete inassimilabili a questa società”. Queste parole di Giovanni Paolo II risultano ancor più gradite, se fosse possibile, perché in realtà corrispondono alla situazione fondamentale del cristiano, di ogni cristiano; corrispondono, infatti, allo stato battesimale.
E la grandezza di don Giussani è proprio questo: non ha inventato niente, è andato alla radice – il battesimo – che ci costituisce in Cristo e di Cristo. Ecco il senso della frase di S. Giovanni Paolo II: “Voi non avete patria, perché voi siete inassimilabili a questa società”.. La fede è un sapere critico, non un disquisire fine a se stesso.
E’ lo stesso pensiero che troviamo al n. 60 dell’enciclica Ecclesiam suam del beato Paolo VI, dove leggiamo: “Vi è un terzo atteggiamento che la Chiesa cattolica deve assumere in quest’ora della storia del mondo, ed è quello caratterizzato dallo studio dei contatti ch’essa deve tenere con l’umanità. Se la Chiesa acquista sempre più chiara coscienza di sé, e se essa cerca di modellare se stessa secondo il tipo che Cristo le propone, avviene che la Chiesa si distingue profondamente dall’ambiente umano, in cui essa pur vive, o a cui essa si avvicina” (Paolo VI, Lettera enciclica Ecclesiam sua, n. 60).
 
C’è un’identità sostanziale, al di là del linguaggio, con la frase di Giovanni Paolo II: “Voi non avete patria, perché voi siete inassimilabili a questa società”. Troviamo, infatti, espresso in termini ecclesiologici il pensiero rivolto da san Giovanni Paolo II a don Giussani. E don Giussani spiega bene e commenta quella frase detta da Giovanni Paolo II: “Non ha patria da nessuna parte, nella società di oggi, colui che riconosce la presenza di Cristo, una presenza diversa da tutte le altre nella propria vita, nella trama dei propri rapporti e nella società in cui vive. Sino a quando il cristianesimo è sostenere dialetticamente e anche praticamente valori cristiani, esso trova spazio ed accoglienza dovunque ma laddove il cristiano è l’uomo che annuncia nella realtà umana-storica                                           la presenza permanente di Dio, fatto uno tra noi, oggetto di esperienza, la presenza di Cristo, centro del modo di vedere, di concepire e di affrontare la vita, senso di ogni azione, sorgente di tutta l’attività dell’uomo nel tempo, vale a dire dell’attività culturale dell’uomo, questo uomo non ha patria”.
Nel Vangelo di oggi i farisei esprimono la pretesa – attraverso un segno che deve corrispondere ai loro parametri mentali, culturali e religiosi – di impossessarsi di Gesù, del suo vangelo; non intendono appartenergli. Per evitare tali atteggiamenti, allora, diventa necessario chiederci come consideriamo l’annuncio cristiano e come esso ci raggiunga. L’annuncio cristiano ci raggiunge come una storia reale che svela alla nostra esistenza concreta ciò che essa è, semplicemente questo. Possiamo delineare questa storia con ciò che, nel nostro oggi, realizza l’origine di sé che appartiene ad un Altro. E qui si intende, ovviamente, Altro con la A maiuscola.
L’annuncio, quindi, è il porsi di una storia davanti alla tua vita, una storia che svela questa sua origine. Il problema (e questo mi sembra il senso della risposta che Gesù sceglie di dare, non dandola, ai farisei) non è più mettere tutte le cose dentro quello che è accaduto (“Dacci un segno!”) – così, infatti, saremmo ancora nella nostra logica umana: il segno preteso – ma piuttosto si tratta di consegnare tutta la nostra vita nel segno che è Gesù Cristo.
In altri termini, bisogna non togliere la nostra vita da quello che è accaduto e continua ad accadere: Gesù Cristo. In un certo senso, è il momento di non chiedere segni, come se si ponessero delle condizioni, ma di consegnarsi a quella presenza che permette di essere finalmente uomo, pienamente uomo, totalmente uomo.
Concludo con le parole di Papa Francesco al n. 8 della Evangelii gaudium, parole che sono il miglior commento a quanto detto finora. Scrive il Santo Padre: “Solo grazie a quest’incontro – o reincontro – con l’amore di Dio, che si tramuta in felice amicizia, siamo riscattati dalla nostra coscienza isolata e dall’autoreferenzialità (che, molte volte, affligge i gruppi ecclesiali). Giungiamo ad essere pienamente umani quando siamo più che umani, quando permettiamo a Dio di condurci al di là di noi stessi perché raggiungiamo il nostro essere più vero. Lì sta la sorgente dell’azione evangelizzatrice. Perché, se qualcuno ha accolto questo amore che gli ridona il senso della vita, come può contenere il desiderio di comunicarlo agli altri?” (Papa Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium, n. 8).
 
Siamo grati a don Giussani e siamo grati allo Spirito che continua a suscitare nella Chiesa il carisma di fondatori che ci riportano a quella genuinità del Vangelo che si esprime nel battesimo, come appartenenza a Cristo e vita in Cristo.