Omelia del Patriarca alla S. Messa nella Giornata Mondiale del Malato (Venezia - Chiesa dell’Ospedale Ss. Giovanni e Paolo, 11 febbraio 2016)
11-02-2016

Saluto il vicario episcopale don Dino, padre Angelo, don Giovanni, il diacono Franco e rivolgo un ringraziamento cordiale – per l’invito – al direttore generale Giuseppe Dal Ben, ai suoi collaboratori, ai primari, ai medici e a tutti gli operatori che rendono questo luogo importante per la nostra città.

Sì, è un luogo che appartiene alla collettività, in cui la persona – il paziente, l’utente di questo servizio – è chiamata, anche dal recente “Patto di ospitalità”, ad essere interlocutore. L’idea è infatti quella di un’assistenza umanizzata.

Il malato è molto di più della sua patologia ed è molto di più della cartella clinica. Ma, nello stesso tempo, ai diritti corrispondono i doveri: io mi impegno e tu, a tua volta, ti impegni; io ti riconosco e tu mi riconosci.

È un modo importante di interloquire con chi si trova in situazioni, in un certo senso, di “inferiorità” perché chi è provato dal male “dipende” dalla medicina, dai medici e, certe volte, chiede anche – e si può capire il perché – molto di più di quello che la medicina e un medico possono fare, più di quello che il personale ausiliario può fare.

La malattia è un tempo in cui noi siamo chiamati ad imparare. Ad imparare a diventare più uomini, a diventare uomini e non secondo gli stereotipi della società dell’estetica, del benessere, del successo ma secondo la verità dell’uomo.

Ci sono varie stagioni della vita e tutti, prima o poi, le attraversiamo. È importante incontrare chi è malato – quando tu non sei malato – con questo sguardo, con questa consapevolezza, con questa intelligenza.

Noi stiamo facendo drammaticamente i conti – e li faremo sempre di più… – con un’intelligenza strumentale e tecnica che non va sottovalutata ed è importante ma guai se diventa il tutto dell’intelligenza! Un’intelligenza che non è più capace di fini e di cogliere il tutto; coglie una parte e la eleva al tutto, ecco l’ideologia del riduzionismo. Tutto diventa possibile, anche nel senso peggiore.

La malattia è una scuola; certo, vorremmo che così non fosse, ma la realtà ci dice che siamo fatti anche di decadimenti e di patologie. La malattia, quindi, porta tutti coloro che sono coinvolti – il malato, i familiari, gli amici – ad un rivoluzionamento delle cose. La malattia mette in evidenza e fa cogliere innanzitutto al malato, ma anche a coloro che girano intorno al malato e lo circondano, il sentimento e il senso del limite. Si può essere credenti o non credenti ma su questa cosa ci possiamo incontrare tutti: un uomo che ha perso il contatto con il suo limite, con i suoi limiti.

Queste parlano della nostra vita, anche a chi, grazie a Dio, è sano in questo momento. Parlando della malattia non si parla di Marte…  Sarebbe importante arrivare alle stagioni avanzate della vita e alla vecchiaia – che non è una malattia, ma è la sintomatologia di un decadimento complessivo – e poi anche alla stagione della malattia, un po’ più preparati. Molte volte lo stesso trauma della pensione, che è effettivamente un trauma, potrebbe essere vissuto meglio se preparato prima e da lontano.

Queste cose che dicono della debolezza dell’uomo e del limite dell’uomo ci rendono allora più buoni e più veri; sono le realtà che plasmano l’uomo a misura di uomo. Chiediamo, allora, ai nostri luoghi di cura non di promettere ciò che non è sempre possibile promettere – mi riferisco qui alla guarigione – ma di prenderci cura, sempre e fino in fondo, gli uni degli altri.

Questo “Patto di ospitalità” – un patto che parla dei diritti delle persone, un patto che parla  di una sanità e di un’assistenza, per quanto è possibile, “umana” – deve essere allora una meta a cui guardiamo con convinzione. E possiamo anche pensare che questo contesto e questo modo di accogliere, di interloquire e di riconoscersi reciprocamente rende già la nostra struttura qualcosa di umanamente all’avanguardia.