Mercoledì delle Ceneri
 Omelia pronunciata in basilica di San Marco, 5 marzo 2003
05-03-2003

Gl 2, 12-1; dal Salmo 50; 2Cor 5, 20-6,2; Mt 6, 1-6. 16-18

1. «O Padre, concedi al popolo cristiano di iniziare con questo digiuno un cammino di vera conversione per affrontare vittoriosamente, con le armi della penitenza, il combattimento contro lo spirito del male». L’Orazione di Colletta, con cui abbiamo cominciato questo gesto di penitenza, chiarisce a noi stessi il motivo per cui, guidati dai nostri sacerdoti, noi siamo convenuti qui, in San Marco, dalle parrocchie più vicine.
Conversione è l’invito con cui veniamo introdotti in un tempo particolarmente favorevole – Paolo impiega questa espressione nella Seconda Lettura – per questo cambiamento di cui sentiamo la necessità.
In concreto, con-vertirsi vuol dire raccogliere le energie di intelligenza, di affezione e di azione, costitutive del nostro io, per volgerle, tutte insieme, verso il centro. E il centro è Cristo Gesù.
Questo cambiamento ‘ diciamolo subito ‘ non sarà conversione se non incomincia dal nostro io, considerato in se stesso e nella sua relazione con gli altri, per poi far sentire il suo benefico effetto sulle comunità in cui siamo chiamati a vivere, dalla famiglia al quartiere, alle varie forme associative per giungere, infine, alla nostra città, al nostro Patriarcato, al nostro Paese e a tutta quanta l’umanità.
Così concepita la conversione finisce per incidere non solo sulla mia persona ma, senza soluzione di continuità, anche sulle vicende della storia. Come non pensare, in questo momento, alla tragica possibilità della guerra, contro cui si sta battendo con indomabile energia il Santo Padre?
La conversione incomincia da una mossa della libertà, i cui effetti, però, possono cambiare la storia. Questa mossa noi l’abbiamo posta: siamo qui perché vogliamo cambiare.

2. Ma qual è il contenuto di questa mossa di libertà?
Non è forse una pia illusione credere che il cambiamento della nostra persona, suscitato dalla conversione, sia in grado di incidere sul mutamento dei rapporti di potere fra gli Stati così da produrre la pace? Su cosa il cristiano può ragionevolmente basare questa sua fede convinta, che il mondo spesso irride? Ce lo dice con forza San Paolo, nel brano della Seconda Lettera ai Corinzi, che conviene meditare attentamente: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore perché noi potessimo diventare per mezzo di Lui giustizia di Dio» (2 Cor 5, 21). Paolo parla di uno scambio assolutamente straordinario, umanamente del tutto impensabile, che si compie per il cristiano nella vita di ogni giorno. In cosa consiste questo scambio?
Nel fatto che l’Innocente, Cristo Gesù, che non aveva conosciuto peccato si è lasciato trattare da peccato in nostro favore. Egli ha preso su di sé tutti i peccati, quelli di ogni uomo lungo la storia dell’umanità e perciò anche il mio peccato di oggi. Se accogliamo questa Sua inconcepibile iniziativa, noi possiamo «diventare giustizia di Dio», possiamo stare di fronte a noi stessi, agli altri e a Dio in un rapporto di verità, finalmente capace di giustizia, di diritto ed aperto alla carità. Ecco l’inaudita meraviglia della grazia divina annunciata dal cristianesimo, su cui fondiamo la speranza certa del cambiamento personale e sociale.
Ma se questa è la potenza della Redenzione operata da Cristo perché il mondo non sembra cambiare? Anche sulle nostre labbra sale il grido angosciato di Sant’Agostino: «Ma dopo Gesù Cristo niente è mutato in meglio. Tutto si volge al peggio»? Cosa si oppone a questa potente forza di cambiamento?
Anzitutto, normalmente, l’opposizione viene dal nostro stesso cuore. Noi non ci riconosciamo come peccatori. Siamo venuti fin qui, la nostra è una mossa di con-versione. E tuttavia, se in questo momento fossimo limpidi di fronte al Signore, noi dovremmo riconoscere che fatichiamo a dirci peccatori. Basta vedere il nostro disamore nei confronti del sacramento della riconciliazione o, quand’anche fossimo relativamente fedeli a questo importante scrigno di misericordia e di perdono, la meccanicità, il formalismo e la fatica con cui spesso accusiamo i nostri peccati. Noi abbiamo una tendenza esorbitante, resa ancora più pervicace dalla cultura dominante, a giustificarci da noi stessi se non addirittura a percepirci da sempre come giusti. Camuffiamo il nostro peccato sotto la qualifica di limite, di sbaglio o di errore per non attribuirlo a una nostra precisa responsabilità, cioè a una esplicita decisione della nostra libertà di uomini ragionevoli. Una decisione che offende Dio, intacca le nostre relazioni e lascia una ferita nella nostra umanità.
Un segno importante di questa grave resistenza è la difficoltà ad accettare che alla colpa si leghi necessariamente anche una pena. Non solo – quando il peccato è mortale – la pena eterna da cui l’assoluzione ci libera, ma anche quella pena temporale che ci viene lasciata dopo il perdono sacramentale proprio perché, lentamente, la ferita che il peccato ha provocato in noi stessi e negli altri si possa rimarginare. Affinché il dono della misericordia di Cristo venga realmente assunto e rigeneri la libertà è necessaria una ‘espiazione’ che esige sacrificio e tempo.
Chiediamoci dunque: come possiamo liberarci da questa estrema forma di egotismo, e lasciar scorrere, attraverso la nostra persona rigenerata dalla misericordia, nelle vene della storia la potenza redentrice di Cristo?
Penitenza e digiuno: ecco la risposta. Sono gli altri due fattori che la Chiesa ci ha riproposto questa sera nell’Orazione di Colletta. E in questa singolare liturgia, la stessa Chiesa, che ci è madre e sapiente maestra, ce ne suggerisce il senso attraverso un gesto elementare, ma assai significativo. Mi riferisco all’imposizione delle ceneri sul nostro capo, che viene fatta certo per ricordarci che dovremo morire, ma soprattutto per invitarci alla conversione chiamata a sfociare nella fede in Cristo Gesù. «Convertitevi e credete al Vangelo» (Rito di imposizione delle Ceneri).
La parola penitenza, che contraddistingue il tempo favorevole della Quaresima, implica proprio lo scendere in profondità, l’andare alla radice (penitus) dell’io perché da lì sgorghi quell’amaro pentimento nel quale noi possiamo percepire il disordine obiettivo del peccato.
Ed il digiuno ‘ cioè l’astinenza dalle carni e dal cibo richiesta dalla Santa Chiesa a chi non è ammalato e abbia più di 14 anni e meno di 60 anni ‘ è segno della disposizione di tutto l’io, a partire dal corpo, perché questo scendere in profondità intacchi in radice la nostra libertà fino a trasformarla e non resti soltanto un gesto esteriore: «Laceratevi il cuore, non le vesti» (Gl 2, 13).

3. Il Mercoledì delle Ceneri è per noi come una sosta nel nartece di questa nostra splendida Basilica, che ci introduce alla navata – il percorso della Quaresima – per accompagnarci a raggiungere l’altare dove nella splendente Pala d’oro è magnificamente espresso l’inno a quell’Evento glorioso di morte e risurrezione del Figlio di Dio fatto uomo (la Pasqua) che solo può produrre la conversione, quel riconoscimento, ottenuto con l’amaro pentimento, attraverso la penitenza e il digiuno, del nostro peccato.
Ce lo ha ricordato l’ambasciatore Paolo: «Non indurite il vostro cuore, ma ascoltate la voce del Signore» (cfr. Sal 94, 8). «Lasciatevi riconciliare con Dio» (2 Cor 5, 20).

4. In unità con tutti i Vescovi del Triveneto, anche nel nostro Patriarcato, a cominciare da questa Chiesa Cattedrale, abbiamo voluto accogliere oggi l’invito del Santo Padre a pregare e a digiunare perché il Dio della pace ci conceda di non dover subire una guerra. Essa non appare solo come un mezzo inadeguato per affrontare la grave crisi internazionale determinatasi dopo la tragedia dell’11 settembre 2001, ma costituirebbe una vera e propria sciagura. Chiediamo a Colui che è «la nostra pace» (Ef 2, 14), vittima innocente per la nostra giustizia, il dono della pace fra i popoli. Lo chiediamo anzitutto a proposito della minaccia di guerra in Iraq, e per la Terra Santa, ma anche per tutte le ‘guerre dimenticate’. Attraverso il digiuno intendiamo inoltre ‘ come ci ha ricordato Giovanni Paolo II all’Angelus di domenica scorsa ‘ spalancarci alla condivisione del terribile ed endemico bisogno di molti nostri fratelli del Sud del pianeta.
Ma quale pace persegue instancabilmente il Papa? Per quale pace noi celebriamo questa Eucaristia, digiuniamo, preghiamo, col Santo Rosario, Maria Regina della Pace? Abbiamo già avuto modo di ricordarlo, ma dobbiamo ridircelo con forza. Non una pace utopica. Noi la ricusiamo con la stessa forza con cui ricusiamo la logica di chi sostiene che la guerra è inevitabile. Entrambe queste posizioni sono ideologiche.
Infatti pace utopica e guerra inevitabile rivelano una concezione fatalistica della storia, che non riconosce il peso della libertà degli attori che sono in campo: la libertà di Dio, degli uomini e, come ci ha ricordato l’Orazione di Colletta, dello «spirito del male». L’intreccio di queste libertà avviene sempre e solo nel concreto della storia, nella quale si attua il disegno del Padre. La pace non è quindi un apriori assoluto ed astratto, come pretende quel pacifismo che per questo definiamo utopico, e la guerra non è inevitabile come vorrebbe certa disumana e cinica realpolitik. La pace reale è un fatto storico concreto che non si può mai dare per scontato. Un compito che ci sta sempre davanti. Va costruita di volta in volta con un faticoso lavoro di edificazione che mette in conto anche l’umana fragilità ed il peccato, con tutte le loro conseguenze.
La natura ideologica di queste posizioni è confermata dalla facilità con cui seminano nel cuore di tutti noi la pretesa di ergerci a giudici implacabili del mondo intero. Siamo così portati a dividere, manicheisticamente ed implacabilmente, i buoni dai cattivi e a stabilire, a colpo sicuro, quali siano i colpevoli e quali le vittime. Non dobbiamo entrare in questa logica semplicistica che getta sulle spalle degli altri – uomini e popoli – responsabilità che essi spesso non hanno e non possono avere, soprattutto perché questa posizione ci esime dal mettere in gioco tutta la nostra persona, qui ed ora. Ci espone a quel dualismo tra il cambiamento dell’io e il cambiamento della storia a partire dal quale il profondo anelito alla pace di interi popoli viene strumentalizzato dai progetti di ‘avanguardie’ che spesso portano al dominio, ultimamente sempre violento, dell’uomo sull’uomo.
Chi, come il pubblicano del Vangelo, non incomincia battendosi il petto e riconoscendosi peccatore, bisognoso di conversione, non pratica la penitenza e il digiuno invocando il dono della misericordia – cioè Cristo crocifisso e risorto – per il cambiamento di sé, costui non si mette nell’atteggiamento adeguato per l’edificazione della vera pace, anche se la sua istanza e il suo grido di pace possono in sé essere carichi di buone intenzioni.
Noi seguiamo il Papa che, rispettando gli eventi e la libertà di tutti gli attori in campo, faticosamente e tenacemente costruisce passo dopo passo la pace oggi realisticamente possibile. Così egli segue le orme di Giovanni XXIII: ci piace ricordarLo a pochi giorni dal 50° anniversario dall’inizio del suo ministero come Patriarca in Venezia. Il Papa edifica, come un paziente tessitore, l’ordine della pace fondato sui quattro pilastri che la Pacem in terris ha individuato con chiarezza: verità, giustizia, amore, libertà (cfr. Pacem in terris 20). È pacificatore chi lavora per edificare quest’ordine della pace. Posso esserlo anch’io, anche tu, anche il più umile membro del popolo iracheno o del popolo statunitense, di quello palestinese o di quello israeliano. Senza ergersi a grandi statisti, con la pretesa di comprendere e dominare tutti i complessi elementi in gioco, noi, con la preghiera ed il digiuno, ci volgiamo al Padre. Egli ci ha inviato Cristo, la nostra pace. «E allora», come dice San Bernardo, «il pensiero di pace si calò nell’opera di pace» (cfr. De aquaeductu).
La Chiesa ci invita, nella penitenza e nel digiuno, a mendicare il cambiamento integrale dell’io, da Colui che, innocente, si è fatto peccato per renderci giusti. Questo è costruire la pace. In concreto vuol dire affrontare tutte le circostanze della nostra esistenza (il lavoro quotidiano, i bisogni della famiglia, l’attenzione seria a condividere le esigenze di chi ci sta intorno), e tutte le relazioni, ad una a una, riconoscendo l’elemento di violenza e di male che tendenzialmente io vi impongo. Ecco la via maestra per «dirigere i nostri passi sulla via della pace» (Lc 1, 79).
Se invece, pur dedicando, con grande generosità, molto tempo a manifestare a favore della pace, io sottovalutassi l’impegno quotidiano con la mia personale vocazione in obbedienza alle circostanze e ai rapporti che mi sono dati, potrei facilmente finire preda dell’ideologia. Ed il partecipare a manifestazioni dal peso imponente e con fortissima risonanza nei mass-media di tutto il mondo, potrebbe, di per sé, non rendere l’uomo un autentico costruttore di pace.

5. In questa realistica prospettiva la preghiera ed il digiuno, la recita del Santo Rosario, l’imposizione delle Ceneri, sono gesti capaci, in se stessi, di edificare la pace e di ottenere, attraverso la Vergine, la possibilità che Dio tocchi i nostri cuori e quelli dei potenti del mondo per scongiurare la tragedia della guerra. I cristiani infatti non sono fatalisti, sono, invece, fermamente convinti che un Padre guida la storia. Ce lo ha documentato entrando nella storia col Figlio suo Gesù Cristo. Se ci pentiamo Egli ci fa giustizia con la sua croce. La sua presenza di Risorto è più che mai viva ed efficace. Per questo siamo certi che la storia non è dominata da una necessità e da un destino immutabili. La fede, la preghiera ed il digiuno possono veramente cambiare il corso degli eventi. Nel nostro caso possono evitare la guerra. Sono più potenti delle divisioni, della violenza e delle armi. Più potenti delle decisioni dei potenti.
Disponiamoci pertanto, figli carissimi, a vivere la preghiera, la penitenza e il digiuno non in maniera formale ma con verità, come ci ha ricordato il Santo Evangelo (Mt 6,1-6.16-18) di oggi, invitandoci a non ostentarli, ma a mostrare anzi la letizia del cambiamento che la maggiore familiarità con il Signore produce. Viviamo il tempo favorevole della Quaresima con questa verità che nasce dal cuore e brilla come una bellezza nuova sui nostri volti. L’esatto contrario dello squallore delle vesti lacerate…!
In questi quaranta giorni non solo ci impegneremo, con autentica pietà e fervore, nel gesto dell’Eucaristia domenicale, ma cercheremo di partecipare alla Santa Messa almeno un’altra volta durante la settimana; prenderemo l’iniziativa di accostarci al sacramento della Riconciliazione che chiama la libertà alla verità; reciteremo tutte le sere ‘ possibilmente in famiglia o in comunità ‘ il Santo Rosario; la pratica della Via Crucis accompagnata dall’astinenza e possibilmente dal digiuno segnerà il venerdì di ogni settimana; la condivisione del bisogno dei nostri fratelli più poveri ci vedrà pronti a rinunciare non solo al superfluo ma anche a qualcosa di necessario.
Porremo questi gesti con la consapevolezza che così facendo noi edifichiamo noi stessi, la nostra famiglia, una comunità cittadina realmente civile e partecipiamo alla genuina istanza popolare che invoca la pace. Questa posizione ci autorizza stasera a rivolgere con forza ai potenti della terra il grido che già fu di Paolo VI e che il Santo Padre non si stanca di ripetere: «Mai più la guerra! Mai più la guerra!» (Paolo VI, Discorso alle Nazioni Unite 4 ottobre 1965).
Lo chiediamo con umiltà alla Regina della Pace. Amen