Meditazione del Patriarca al Ritiro spirituale d’inizio Avvento per il clero (Mestre - Chiesa S. Carlo / Cappuccini, 1 dicembre 2016)
01-12-2016

Ritiro spirituale d’inizio Avvento per il clero

(Mestre – Chiesa S. Carlo / Cappuccini, 1 dicembre 2016)

Meditazione del Patriarca mons. Francesco Moraglia

 

 

Cari confratelli e cari diaconi,

all’inizio di questo cammino d’Avvento ci soffermiamo sulla figura del patriarca Giacobbe.

La sua storia ci può aiutare in questo cammino d’Avvento a rileggere la nostra storia personale e ripensare le nostre scelte; è importante infatti che la Sacra Scrittura parli oggi anche a noi e alle nostre comunità. La Vergine Madre che, con fedeltà, conservava nel cuore ogni parola che usciva dalla bocca di Dio, ci accompagni e guidi in questa giornata di ritiro d’Avvento affinché anche noi possiamo ascoltare e custodire nella fede quanto Dio  vorrà dirci.

Con i due primi patriarchi Abramo e Isacco – seppure con momenti di fragilità e qualche cedimento (cfr. Gen 12,10-14; 26,1-9) -, siamo di fronte a figure che rispondono alla chiamata di Dio dando di sé un’immagine di alto profilo morale e spirituale. Con Giacobbe, invece, siamo di fronte a una figura molto umana, talvolta troppo umana; è un uomo che rincorre i suoi scopi con scaltrezza e cinismo, servendosi della menzogna e dell’inganno.

Con la storia di Giacobbe, siamo quasi di fronte a un racconto di avventure,  al protagonista di una fiction televisiva. Giacobbe è un prevaricatore, un prepotente incurante degli altri; per lui gli altri semplicemente non contano, è un uomo che vive di scaltrezze, bugie, opportunismi e – se del caso – ricatti.

Il messaggio che Dio ci dà con Giacobbe è, quindi, che la storia della salvezza si serve anche di tali uomini e che Dio – almeno all’inizio – prende gli uomini come sono. Anche se poi non manca di condurli – come Lui sa fare – alla conversione…

E così Dio fa in modo che Giacobbe trovi chi lo ripagherà con la stessa moneta; incontrerà presto lo zio e futuro suocero Làbano il quale lo ingannerà giungendo anche a sostituire, il giorno delle nozze, la promessa sposa, la figlia più giovane Rachele – di cui Giacobbe era innamorato e per la quale aveva lavorato sette anni – con la primogenita Lia che Giacobbe non amava.

Nonostante Giacobbe sia un usurpatore Dio gli concede la benedizione di Abramo, ma non come Giacobbe aveva pensato di ottenerla. Così in Giacobbe – figlio di Isacco – che non si fa scrupolo di ricattare il fratello Esaù e d’ingannare il padre vecchio (e, ormai, cieco), appare al massimo la gratuità della divina elezione che non si lega ai meriti dell’uomo. Sì, Dio è sovranamente libero e, nelle sue scelte, non dipende da logiche umane; le sue vie non sono le nostre vie e i suoi pensieri non sono i nostri pensieri (cfr. Is 55,8).

Ma i peccati e le malefatte di quanti, nonostante tutto, Dio sceglie non fanno che mettere in evidenza l’assoluta libertà di Dio e come Lui solo sia il Signore; tutti coloro che sono stati chiamati a cooperare al suo piano di Salvezza sono solo uomini peccatori, bisognosi di grazia, di perdono.

E questo è vero anche per i massimi interlocutori che Dio si è scelti. Nell’Antico Testamento: Abramo, Isacco, Mosè, Elia, Davide. Nel Nuovo Testamento: Pietro e i Dodici. Tutti, nessuno escluso, sebbene in modi diversi mostreranno le loro debolezze, le loro mancanze di fede, i loro peccati.

Giacobbe entra a far parte del progetto di Dio e Dio si servirà di questo uomo scaltro, ambiguo, capace di mentire anche al vecchio padre cieco, specializzato in raggiri e imbrogli che, alla fine, pare proprio meriti il nome che gli è stato dato alla nascita: Giacobbe, ossia il soppiantatore…

Nella storia del patriarca Giacobbe, a causa dei suoi comportamenti e delle sue scelte, il lettore finisce quasi per perdere di vista Dio. Nonostante tutto, Giacobbe è scelto da Dio e Dio non lo riproverà come fu per il re Saul. No, Giacobbe, l’ingannatore, rimarrà depositario della divina benedizione ma alle condizioni di Dio, non alle sue.

Dio ha bisogno degli uomini o, meglio, vuol avere bisogno degli uomini; poi, per Giacobbe – come per ogni uomo – ci sarà il doloroso cammino della conversione. Giacobbe si mantenne fedele a Dio e la sua fede non venne mai meno, neppure nei momenti tragici della sua vita particolarmente difficile, faticosa, infelice e più breve di quelle degli altri Patriarchi.

La vita di Giacobbe – figlio di Isacco e Rebecca, nipote di Abramo – pare la trama di un romanzo e ciò è vero già dal momento della nascita.

Esaù aveva venduto la primogenitura per un piatto di lenticchie ma Isacco continuava a preferire Esaù a Giacobbe ed era fermo nel riconoscergli il diritto nativo; Rebecca, invece, predilige Giacobbe e voleva difendere il diritto che, col ricatto, era stato estorto.

Rebecca spinge e sostiene Giacobbe nell’inganno contro il padre Isacco e così manca gravemente ai suoi doveri di sposa e di madre.

Giacobbe, da parte sua, non si ferma innanzi a nulla; approfitta della fame del fratello e della cecità del vecchio padre, oramai prossimo alla morte.

Sembra avere solo un piccolo tentennamento quando, per un istante, pensa che, così facendo, la benedizione potrebbe  trasformarsi in maledizione (Gen 26, 12) ma, spinto e mal consigliato, andrà avanti; il quadro è quello di una famiglia allo sbando in cui nulla della sacralità dei rapporti e del rispetto dei ruoli pare ancora tenere.

Ma era importante che risultasse, in modo chiaro, come Dio sceglie Israele – è il nuovo nome di Giacobbe (cfr. Gen 32,29) – con un atto di piena e totale gratuità, senza motivazioni e meriti umani. E così tutti gli uomini, senza eccezioni, appaiono portatori di peccato; solo Dio dona la salvezza.

Leggiamo questo passo della Genesi in cui risulta come alla colpa segua l’espiazione. Esaù ha perso, per sempre, la primogenitura per leggerezza, grossolanità, insensibilità alle cose dello spirito e medita vendetta. Isacco è confuso e avvilito da un successo che si trasforma in una sconfitta. Rebecca, che sembrava avere in mano la situazione, non sa far altro che chiedere a Giacobbe – il figlio prediletto – di abbandonare la casa paterna per non soccombere.

Per ironia della sorte, Giacobbe ha ottenuto ciò che voleva e si era prefissato ma… a che prezzo? È l’erede, colui che succederà a Isacco, eppure deve lasciare casa, la famiglia, i beni e fuggire. Sì, deve lasciare la casa paterna, scappare in un paese lontano, dove sarà uno sconosciuto e non il primogenito, l’erede. Poi, lo zio Làbano approfitterà della sua debolezza, della sua condizione di fuggitivo, e per venti lunghi anni lo terrà a suo servizio.

Il male genera il male e, innanzitutto, nei confronti di chi fa il male: “Isacco fece partire Giacobbe, che andò in Paddan-Aram presso Làbano, figlio di Betuèl, l’Arameo, fratello di Rebecca, madre di Giacobbe e di Esaù. Giacobbe partì da Betsabea e si diresse verso Carran. Capitò così in un luogo, dove passò la notte, perché il sole era tramontato; prese là una pietra, se la pose come guanciale e si coricò in quel luogo. Fece un sogno: una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco, gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa. …il Signore gli stava davanti e disse: “Io sono il Signore, il Dio di Abramo, tuo padre, e il Dio di Isacco. A te e alla tua discendenza darò la terra sulla quale sei coricato. La tua discendenza sarà innumerevole come la polvere della terra; perciò ti espanderai a occidente e a oriente, a settentrione e a mezzogiorno. E si diranno benedette, in te e nella tua discendenza, tutte le famiglie della terra. Ecco, io sono con te e ti proteggerò dovunque tu andrai; poi ti farò ritornare in questa terra, perché non ti abbandonerò senza aver fatto tutto quello che ti ho detto”. Giacobbe si svegliò dal sonno e disse: “Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo”. Ebbe timore e disse: “Quanto è terribile questo luogo! Questa è proprio la casa di Dio, questa è la porta del cielo”. La mattina Giacobbe si alzò, prese la pietra che si era posta come guanciale, la eresse come una stele e versò olio sulla sua sommità. E chiamò quel luogo Betuèl, mentre prima di allora la città si chiamava Luz. Giacobbe fece questo voto: “Se Dio sarà con me e mi proteggerà in questo viaggio che sto facendo e mi darà pane da mangiare e vesti per coprirmi, se ritornerò sano e salvo alla casa di mio padre, il Signore sarà il mio Dio. Questa pietra, che io ho eretto come stele, sarà una casa di Dio…” (Gen 28, 5.10-22).

Questa narrazione rappresenta uno snodo fondamentale nella vita di Giacobbe perché, nonostante tutto, Dio si china su di lui, lo ricerca, se ne prende cura e lo accompagna, seppur Giacobbe non ne sia consapevole.

Il Dio della promessa – il Dio di Abramo, il Dio di Isacco – non abbandona Giacobbe e, nonostante tutto, continua a cercarlo e a farsi strada nella sua vita, malgrado i suoi inganni e nonostante non lo meriti. Giacobbe dovrà pagare le sue scaltrezze, le sue ambiguità, le sue menzogne; e pagherà, pagherà tutto e a caro prezzo… Dio è misericordioso ma chiede la conversione e la riparazione.

Giacobbe verrà dolorosamente corretto dal Signore e  porterà il peso del male compiuto, anche se le sue ambiguità, il suo carattere pavido e debole, rimarranno come caratteristiche che si manifesteranno quando dovrà incontrare il fratello Esaù e poi quando si mostrerà incapace d’opporsi al tradimento e alla vendetta di Simeone e Levi che uccideranno Camor, Sichem e i loro uomini.

Il carattere segna e accompagna sempre l’uomo; questo è vero per Giacobbe e per ognuno di noi. Bisogna esserne consapevoli e vigilare su di sé, attraverso le virtù cristiane della fortezza e dell’umiltà, compiendo qualche gesto di rottura nei confronti dell’uomo vecchio che è in noi e che si manifesta in modi differenti e singolarissimi.

Giacobbe troverà sulla sua strada – come detto – lo zio Làbano, scaltro quanto lui, cinico quanto lui, bugiardo quanto lui… e che per lunghi anni sfrutterà la posizione fragile e vulnerabile del nipote. Giacobbe dovrà constatare amaramente che chi di spada ferisce di spada perisce.

Ascoltiamo ancora la Genesi: “Làbano aveva due figlie… Lia aveva gli occhi smorti… Rachele era avvenente…, …Giacobbe s’innamorò di Rachele. Disse dunque: “Io ti servirò sette anni per Rachele”… gli sembrarono pochi giorni, tanto era il suo amore…. Poi Giacobbe disse: “Dammi la mia sposa, perché i giorni sono terminati….Ma quando fu sera, Labàno prese la figlia Lia e la condusse da lui… Quando fu mattina… ecco, era Lia! Allora Giacobbe disse: “Che cosa hai fatto?… Perché mi hai ingannato?”. Làbano rispose: …ti darò anche l’altra per il servizio che tu presterai… per altri sette anni”  (Gen 29, 16-27).

Ma, adesso, per un momento ritorniamo al precedente testo della Genesi in cui si racconta il viaggio/fuga e il sogno di Giacobbe per rispondere ad alcune domande: Giacobbe dove si trova mentre si ferma per riposare quella notte? Perché si ferma proprio lì? Quale è il suo stato d’animo a motivo della sua storia personale e dei rapporti familiari? Da cosa, in realtà, sta fuggendo?

Pochi giorni prima – forse tre o quattro – è partito da Bersabea (sud della Palestina) e ha intrapreso la strada per Paddam-Aram; è un percorso lungo almeno 1600 Km e, con i mezzi allora a disposizione, non si trattava certo di un viaggio comodo e di piacere…

Giacobbe si mette in viaggio; alla fine, ha obbedito a Isacco e a Rebecca; va a cercare moglie presso il fratello di sua madre, lo zio Làbano. Giacobbe, a differenza di Esaù, vuole che la sua discendenza sorga tra i suoi parenti, nel suo clan; nello stesso tempo scappa dalla vendetta del fratello e dalle macerie del suo passato familiare.

Giacobbe è spaventato e avverte quella terra come sconosciuta, straniera, alla fine ostile. Si prepara a trascorrere la notte ma la notte, soprattutto, è dentro di Lui; teme che Dio lo abbia abbandonato e che la benedizione carpita si sia trasformata in maledizione. Tante domande si affollano dentro di lui; è un uomo solo che percepisce la sua solitudine come frutto del suo agire.

Giacobbe è partito da Bersabea (nel sud della Palestina),   passerà in Siria, giungerà a Paddam-Aram, dove aveva soggiornato Abramo, e quindi ripercorre la strada che il primo Patriarca – seguendo la divina promessa – aveva percorso in senso inverso.

Dio aveva detto ad Abramo: “…farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai un benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra” (Gen 12,2-3).

Giacobbe, quindi, non appare come chi ha vinto: la benedizione l’ha estorta, non l’ha ricevuta. E, ora, è un uomo costretto a lasciare la sua famiglia, la sua casa, la sua terra.

Fugge innanzitutto da se stesso, dal suo passato, dalle sue scelte personali sbagliate; ha approfittato di Esaù in un momento in cui affamato gli chiedeva un piatto di minestra e ha preteso gli cedesse la primogenitura: “Una volta Giacobbe aveva cotto una minestra; Esaù arrivò dalla campagna ed era sfinito. Disse: “Lasciami mangiare un po’ di questa minestra rossa, perché io sono sfinito”…. Giacobbe disse: “Vendimi subito la tua primogenitura”. Rispose Esaù: “Ecco, sto morendo: a che mi serve allora la primogenitura?”. Giacobbe allora disse: “Giuramelo subito”. Quegli lo giurò e vendette la primogenitura a Giacobbe” (Gen 25, 29-33).

Insomma, Giacobbe non ci pensa due volte e approfitta del fratello, forse un po’ semplice, certamente rozzo e poco sensibile alle cose dello spirito. E qui Giacobbe appare ancora più cinico, un calcolatore gretto che approfitta in modo meschino del bisogno altrui.

Poi inganna il vecchio padre cieco e gli carpisce niente di meno che la benedizione riservata al primogenito, il depositario della divina promessa. I fatti riportati dalla Genesi sono noti: “Isacco era vecchio… non ci vedeva più. Chiamò il figlio maggiore, Esaù, e gli disse: … “Vedi, io sono vecchio e ignoro il giorno della mia morte. Ebbene… caccia per me della selvaggina. Poi preparami un piatto… affinché possa benedirti prima di morire”. Ora Rebecca ascoltava, mentre Isacco parlava al figlio Esaù …. Rebecca prese i vestiti più belli del figlio maggiore… e li fece indossare al figlio minore, Giacobbe; con le pelli dei capretti rivestì le sue braccia e la parte liscia del collo. Così egli venne dal padre e disse:… “Io sono Esaù, il tuo primogenito. Ho fatto come tu mi hai ordinato. Giacobbe si avvicinò a Isacco… e disse: “La voce è la voce di Giacobbe, ma le braccia sono le braccia di Esaù”. Così non lo riconobbe, perché le sue braccia erano pelose come le braccia di suo fratello Esaù, e lo benedisse. Gli disse ancora: “Tu sei proprio il mio figlio Esaù?”. Rispose: “Lo sono”…”Isacco lo benedisse:…. Isacco aveva appena finito di benedire Giacobbe….quando tornò dalla caccia Esaù,….Allora Isacco fu colto da un fortissimo tremito e disse: “Chi era dunque colui che ha preso la selvaggina e me l’ha portata? Io…l’ho benedetto e benedetto resterà”. Quando Esaù sentì le parole di suo padre, scoppiò in alte, amarissime grida. Disse a suo padre: “Benedici anche me, padre mio!”. Rispose: “È venuto tuo fratello con inganno e ha carpito la benedizione che spettava a te”. Riprese…. mi ha soppiantato già due volte? Già ha carpito la mia primogenitura ed ecco ora… la mia benedizione!”.…Esaù perseguitò Giacobbe…. Pensò…: “Si avvicinano i giorni del lutto per mio padre; allora ucciderò mio fratello Giacobbe”. Ma…Rebecca…mandò a chiamare il figlio minore Giacobbe e gli disse: “Esaù, tuo fratello, vuole vendicarsi… e ucciderti. Ebbene…fuggi a Carran da mio fratello Làbano. Rimarrai con lui….finché l’ira di tuo fratello si sarà placata” (Gen 26, 1-44).

D’altra parte, a Rebecca, quando erano ancora in grembo, era stato profetizzato il futuro scontro fra Esaù e Giacobbe e mentre era incinta sentiva come i due bambini si urtassero e sembrava litigassero fra loro: “Isacco supplicò il Signore per sua moglie, perché ella era sterile e il Signore la rese feconda… Ora i figli si urtavano nel suo seno ed ella esclamò: “Se è così, che cosa mi sta accadendo?”. Andò a consultare il Signore. Il Signore le rispose: “Due nazioni sono nel tuo seno e due popoli dal tuo grembo si divideranno; un popolo sarà più forte dell’altro e il maggiore servirà il più piccolo”. Quando poi si compì per lei il tempo di partorire, ecco, due gemelli erano nel suo grembo. Uscì il primo… fu chiamato Esaù. Subito dopo, uscì il fratello e teneva in mano il calcagno di Esaù…” (Gen 25,21-27).

Al secondo, quindi, fu posto nome Giacobbe – da “ageb”, calcagno – che significa più esattamente “afferrare il calcagno”; infatti, nascendo, afferrava da sotto la pianta del piede (sub planctum) il fratello (da cui soppiantare), quasi volesse già sopravanzarlo, prendergli il posto, appunto soppiantarlo.

Torniamo al sogno notturno a Betuèl (cfr. Gen 28, 10-22): a Giacobbe apparve una scala che univa cielo e terra, su di essa salivano e scendevano gli angeli di Dio. Si udì, ad un certo momento, una voce: «Io sono il Signore, il Dio di Abramo, tuo padre, e il Dio di Isacco. A te e alla tua discendenza darò la terra sulla quale sei coricato. La tua discendenza sarà innumerevole come la polvere della terra; perciò ti espanderai a occidente e a oriente, a settentrione e a mezzogiorno. E si diranno benedette, in te e nella tua discendenza, tutte le famiglie della terra. Ecco, io sono con te e ti proteggerò dovunque tu andrai; poi ti farò ritornare in questa terra, perché non ti abbandonerò senza aver fatto tutto quello che ti ho detto» (Gen 28, 13 -15).

Ciò che risalta, in modo evidente, è la diversità tra quello che Giacobbe pensa, quello che vive in sé, quello che porta nel cuore e la realtà che Dio ha progettato per lui.

Nonostante quello che Giacobbe è, nonostante quello che ha fatto e che dovrà scontare dolorosamente, riceve la visita di Dio mentre fugge da tutto e tutti. Insomma, qui è annunciato il Vangelo della grazia, della misericordia e del perdono; Giacobbe diventa un uomo nuovo.

In un primo momento – come detto – vive l’esperienza dell’uomo solo, ramingo, fuggiasco; tale solitudine è l’esito della frattura causata dalle sue scelte e dalla sua ostinazione.

Con Esaù e Giacobbe siamo di fronte alla drammatica e ricorrente lotta tra fratelli che segna la storia della salvezza fin dal suo inizio e che coincide con la storia del peccato dell’umanità; la lotta fra Caino e Abele continua in quella fra Esaù e Giacobbe e si perpetuerà nei figli dello stesso Giacobbe, ossia la lotta tra  Giuseppe che sarà venduto dai suoi fratelli.

Giacobbe ha perso anche la vicinanza e l’aiuto della madre; Rebecca si era lasciata prendere dalla simpatia per il figlio più giovane ma, adesso, non riesce più a tener insieme la situazione. Tutto è nato dalla menzogna, è cresciuto nell’odio e nella volontà di vendetta di chi non vuole perdonare. A Rebecca, quindi, non rimane che gettare la spugna e dire al figlio minore di andarsene e fuggire la vendetta di Esaù; è il fallimento di una famiglia perché la menzogna, il non perdonare, l’odio diventano ingestibili e finiscono per divorare le persone, le famiglie, le comunità.

Giacobbe pensava di potersi prendere quanto voleva attraverso il ricatto, la prevaricazione, le menzogne. E, invece, rimane schiacciato proprio da questa stessa logica.

Aveva carpito ad Esaù la primogenitura in un momento in cui il fratello, affamato, gli chiedeva un piatto di minestra… Aveva mentito al Padre vecchio e cieco; realmente come dice il suo nome, Giacobbe è colui che inganna, che mente, è il soppiantatore.

Questa è la situazione di Giacobbe, che segue la spontaneità e gli impulsi del proprio io. Ma, per grazia, Dio c’è, Dio veglia e si manifesta; il luogo dove Giacobbe passa la notte sarà chiamato Betuèl, ossia, casa di Dio. Prima il luogo si chiamava Luz, che significa mandorlo e che, a sua volta, vuol dire vigilante; sì, perché Dio vigila su Giacobbe, come su ogni uomo e pure su ciascuno di noi.

Chiediamoci, ora, cosa significhi il simbolo della scala che, appoggiata a terra, raggiunge il cielo. La scala dice che Dio si interessa a noi e viene a trovarci là dove siamo, anche in modo inaspettato quando ci sembra, nella nostra vita, d’essere privi di coordinate e riferimenti. Dio non abbandona l’uomo neanche nei momenti più difficili della vita; e questo avviene anche quando siamo, come Giacobbe, dei fuggiaschi e attraversiamo una notte oscura in una terra che avvertiamo sconosciuta e avversa.

Tale presenza di Dio si manifesta ad ogni uomo che intuisce come non tutto nella vita possa essere compreso e catalogato in termini di fortuna, sfortuna, successo e insuccesso ma che comprende come, al contrario, esista qualcosa di più grande di noi che si chiama Provvidenza o Mistero di Dio; questa presenza, passo passo, ci accompagna e a noi è dato incontrarla ovunque, perché presente su tutta la faccia della terra.

Così Dio ha cura dell’uomo che, da sempre, conduce come un  padre fa col proprio figlio. Giacobbe, il fuggiasco – sconfitto dal suo stesso modo di rapportarsi agli altri -, aveva bisogno di sapere tutto questo; aveva bisogno d’esser certo che, nonostante tutto, Dio ancora lo cercava e aveva cura di lui.

Fin quando l’uomo conserva questo senso della presenza di Dio nella sua vita – il timore di Dio – e per quanto possa essere personalmente scontento, deluso, amareggiato, portato per temperamento, per storia personale o educazione ricevuta a rompere i rapporti con chi, di volta in volta, entra in relazione con lui, tutto può essere ancora ricostruito.

Fin tanto che l’uomo è convinto d’esser amato da Dio e da Lui atteso, sostenuto e custodito, tutto – anche se a fatica – può rinascere. Affidarsi al Signore vuol dire metter mano alla  propria conversione rispondendo alla Sua grazia. E la conversione riguarda sia il modo di pensare, sia il modo di volere e il nostro modo di stare nella nostra personale vocazione.

L’immagine/simbolo della scala che poggia sulla terra e raggiunge il cielo mi dice in modo eloquente che Dio mi cerca e che io gli interesso, che gli interessano le mie difficoltà, le mie preoccupazioni e che Lui, Lui solo, mi conosce fino in fondo. Alla fine, Dio si manifesta a Giacobbe come il Dio della promessa, come il Dio della benedizione (promessa e benedizione che Giacobbe aveva voluto carpire).

Con queste semplici parole Giacobbe viene ricostituito – in modo più ricco e ampio – in quella relazione familiare da lui violata: “Io sono il Signore, il Dio di Abramo, tuo padre e il Dio di Isacco” (Gen 28,13).

Così Dio gli ricorda: Io sono il tuo Dio, ti conosco, conosco la tua famiglia, conosco tuo padre Isacco, conosco la storia di Abramo e, quindi, anche la tua, poiché tu sei parte di quella storia. Mi è noto tuo padre e so che, ormai, è vecchio, è cieco e può esser facilmente ingannato; conosco anche la debolezza di tua madre che non riesce più a mettere d’accordo i suoi due figli, conosco te ed Esaù che siete fratelli ma non riuscite più a riconoscervi tali e a chiamarvi per nome e so anche che tu stai fuggendo dalla sua vendetta. Sì, conosco i motivi del tuo viaggio che, in realtà, è la fuga di uno sconfitto; so tutto della tua paura, e della tua angoscia, ma so anche quello che tu ignori, ossia che tu sarai benedizione non solo per la tua famiglia o il tuo clan ma per tutte le nazioni, per ogni uomo.

Dio, rinnovando la promessa di Abramo – la terra, la discendenza, l’alleanza -, fa comprendere a Giacobbe come sia  Dio e non l’arbitrio e la prepotenza degli uomini a guidare la storia che mai, nessuno, potrà strappargli di mano con menzogne e inganni. Viene così superato – e non rimosso – anche il peccato di Giacobbe che rimane, nella sua drammaticità, atto grave e da riparare ma che, di fronte alla grandezza del perdono di Dio, è pur sempre una piccola scelta dell’uomo che chiede d’esser consegnata alla Misericordia di Dio.

Dio è Dio, l’uomo è l’uomo, Dio è colui che salva, Giacobbe è  semplicemente nelle mani di Dio come chi chiede e attende misericordia. Veramente ricche di tenerezza sono le parole che il profeta Isaia pone sulle labbra di Dio: “… sono il Signore, tuo Dio… e ti dico: “Non temere, io ti vengo in aiuto”. Non temere, vermiciattolo di Giacobbe, larva d’Israele; io vengo in tuo aiuto – oracolo del Signore -, tuo redentore è il Santo d’Israele” (Is 41,13-14). La promessa di Dio va ben oltre la logica umana che è la logica della carne e del sangue, la logica dell’autoreferenzialità e degli egoismi che – anche quando sembra ci diano qualcosa – in realtà ci isolano e impoveriscono.

Giacobbe esprime quella logica umana che, tutt’al più, cerca buoni rapporti all’interno della propria cerchia di appartenenza: famiglia, clan, amici. Ma nel suo viaggio/fuga – senza averne una esplicita consapevolezza – Giacobbe sta compiendo un pellegrinaggio alle sorgenti e alle origini della fede, a Paddam-Aram, presso lo zio Làbano, il fratello di Rebecca, figlia di Betuèl che era figlio di Nabor, il fratello di Abramo; è un pellegrinaggio alle origini della promessa e della benedizione date da Dio ad Abramo; promessa e benedizione che, finalmente – al guado del fiume Jabbok – saranno donate anche a Giacobbe, l’ usurpatore.

Al di là dei rapporti familiari compromessi, la logica di Giacobbe si muoveva all’interno di un contesto ancora ristretto ai  soli vincoli del sangue e, invece, Dio ha un’altra logica, una prospettiva universale: tutti i popoli attraverso la promessa, entreranno nella benedizione nella salvezza. “E saranno benedette per te e per la tua discendenza tutte le nazioni della terra ” (Gen 28,14b).

La promessa dell’alleanza è già tutta qui, in queste brevi parole: “Io sono con te” (Gen 28,15); è la profezia dell’antico testamento che si compirà in maniera umanamente imprevedibile, nella pienezza dei tempi. Allora, “Io sono con te “ diventerà il bambino di Betlemme, l’Emmanuele, il Dio con noi, l’umanità di Dio in Gesù di Nazareth, ossia la Misericordia di Dio. Ma l’alleanza del Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe deve avvenire nella storia, sarà affidata alla storia e crescerà nella storia con tutte le fatiche e le contraddizioni della storia; una promessa, quindi, che coinciderà, solo alla fine, con il Dio della promessa.

L’immagine del viaggio è eloquente; l’uomo, infatti, con tutto il suo carico di contraddizioni e di fragilità e soprattutto col suo peccato, è invitato a camminare con Dio incontrando Dio nei fratelli.

E, finalmente, quando Giacobbe, dopo vent’anni d’esilio, ritornerà da Paddam-Aran e con paura e sgomento incontrerà il fratello Esaù, si rivolgerà a lui con queste parole: “accetta… il mio dono, perché io sto alla tua presenza, come davanti a Dio, …così insistette e quegli accettò. Esaù disse: “Partiamo e mettiamoci in viaggio…” (Gen 33, 10-12).

Quel viaggio che, all’inizio, si presentava come una fuga, un camminare verso l’ignoto, un salto nel buio, non nasceva, in ultimo, dalla decisione di Rebecca e di Isacco e, tanto meno, da quella di Giacobbe, ma da Dio perché, nella storia della salvezza,  tutto è saldamente nelle sue mani e, in ultima istanza, tutto proviene da Lui.

Quando a Betuèl Giacobbe si sveglia dal sogno o, meglio, esce dall’incontro col Dio dei Padri è un uomo diverso, non è più quello di prima. E riprenderà il viaggio non più come un fuggiasco ma come il pellegrino che sa d’esser sostenuto da Dio ovunque andrà.

E quella terra – Betuèl, casa di Dio –  sarà sempre sacra a Israele e ai popoli che riceveranno la benedizione di Abramo; sì, perché l’uomo che incontra Dio e ne ascolta la Parola si troverà sempre al centro delle coordinate di Dio e interpreterà la sua vita nella fede. In tal modo Giacobbe entra veramente nella benedizione di Abramo, quella benedizione che aveva voluto far sua con l’astuzia e l’inganno. E ora quella benedizion, gli sarà data come donata nella fede.

L’altro grande incontro di Giacobbe con Dio avviene al fiume Jabbok (Gen 32,23-32); qui siamo durante il viaggio di ritorno, dopo i vent’anni trascorsi a servizio di Làbano.

Ormai Giacobbe è giunto in vista della terra di Canaan, sta per guadare il fiume Jabbok, affluente del Giordano, fiume sacro per l’Antico e il Nuovo Testamento: ”Durante quella notte egli si alzò, prese le due mogli, le due schiave, i suoi undici bambini e passò il guado dello Iabbok…. Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora. Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all’articolazione del femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. Quello disse: “Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora”. Giacobbe rispose: “Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!”. Gli domandò: “Come ti chiami?”. Rispose: “Giacobbe”. Riprese: “Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!”. Giacobbe allora gli chiese: “Svelami il tuo nome”. Gli rispose: “Perché mi chiedi il nome?”. E qui lo benedisse. Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuèl: “Davvero – disse – ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva”. Spuntava il sole, quando Giacobbe passò Penuèl e zoppicava all’anca” (Gen 32, 23.25-32).

Giacobbe lottò fino allo spuntare dell’aurora; l’uomo vive nel mondo ma non è del mondo e in questa lotta di Giacobbe che avviene, non a caso, nelle ore notturne, è raffigurata la lotta spirituale di ogni uomo per appartenere a Dio. In questa lotta Giacobbe porta con sé e su di sé le contraddizioni e i peccati della sua vita, i suoi inganni, i suoi ricatti, le sue menzogne, perché andando oltre a tali contraddizioni e peccati, nel pentimento e nell’espiazione, possa incontrare  il volto di Dio. E Penuèl sarà il nome che darà a quel luogo (cfr. v. 31) perché: «Davvero – disse – ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva».

Non è possibile vivere la fede senza morire, perché credere vuol dire far morire in noi l’uomo vecchio. Non si può credere senza lottare. Non è possibile adattare la fede al nostro uomo vecchio, perché la fede verrebbe distrutta. E non è neppure possibile adattare l’uomo vecchio alla fede perché, in tal caso, invece, sarebbe l’uomo vecchio a essere distrutto.

Proprio qui sta il significato ultimo della lotta di Giacobbe che, dopo tale combattimento e dopo aver ricevuto la benedizione di Dio, vedrà cambiato il suo nome da Giacobbe a Israele, perché ha combattuto contro Dio e contro gli uomini ed ha vinto.

Viene in mente la parola di Gesù: “In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24). Combattere con Dio non vuol dire contro Dio ma per Dio, affinché Dio e il suo Regno venga in noi.uesto testo