Lettera del Patriarca in vista della “ripresa” alla luce del buon annuncio del Vangelo
“La farina della giara non venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì” (1Re 17,16)
Carissimi,
ci prepariamo a vivere il tempo non certo facile della “ripartenza” che porterà con sé problematiche già vissute e l’accentuarsi di sofferenze legate alla crisi socioeconomica. La convivenza con Covid-19, purtroppo, è destinata a protrarsi nel tempo.
Iniziamo, quindi, una vera attraversata del deserto che non sarà facile in cui le nostre comunità sono chiamate a riscoprire la virtù cristiana della speranza, guardandosi e dal facile sconforto e dall’ottimismo di maniera, consapevoli che Gesù risorto non abbandona coloro che si affidano a Lui. La speranza fiorisce dalla fede che non può essere vissuta attraverso i social ma “dal vivo”.
Dobbiamo guardarci dalle modalità che in tempo di emergenza ci hanno aiutato e si sono rivelate provvidenziali ma che non possono essere la normalità. La fede è vita, non “lezione a distanza”, vita che s’irradia “da cuore a cuore” con la testimonianza personale. Le eccezioni, quindi, devono rimanere tali.
La vita del cristiano è così scelta di fede e carità che debbono essere concretamente riscontrabili nella vita di tutti i giorni. Rifuggiamo dalla nostalgia di un passato non più esistente e da visioni ideologiche che mortificano il senso stesso della fede e della carità, atteggiamenti che ci rinchiudono in un mondo virtuale, al fuori della storia.
Papa Francesco, in questo tempo di pandemia, ci ha parlato di “un altro tipo di contagio”, il contagio dell’amore che “si trasmette da cuore a cuore” e così lasciare agire “il soffio dello Spirito che apre orizzonti, risveglia la creatività e ci rinnova in fraternità… dinanzi all’enorme e improrogabile compito che ci aspetta… Questo è il tempo propizio per trovare il coraggio di una nuova immaginazione del possibile, con il realismo che solo il Vangelo può offrirci” (Papa Francesco, Intervento per la rivista spagnola Vida Nueva, aprile 2020).
Così, non andando a rimorchio di alcuna parte politica, vogliamo guardare con simpatia alla società, alle sue urgenze e necessità con sguardo fedele al Vangelo, attento all’uomo concreto e al bene comune, fedeli al motto evangelico: “Rendete a Dio quello che è di Dio e a Cesare quello che è di Cesare” (Mt 22,21); questo è l’impegno della nostra Chiesa diocesana.
Come Chiesa guardiamo all’essenziale; solo così saremo segno di sicura speranza. L’essenziale è il Signore risorto che vive in Lei. Gesù è l’esempio della nuova umanità. Si tratta di assumere la logica di Betlemme, di Nazareth, del Calvario, del sepolcro vuoto, della Pentecoste.
La lettera agli Ebrei riassume in pochi versetti quello che per la comunità cristiana è decisivo e segna ogni vera ripartenza: “…deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento” (Eb 12, 1b-2).
Il punto di partenza non possono essere le strutture e i convegni ma il ritorno a Lui, al Signore Gesù, attraverso la conversione personale; il resto è pura conseguenza. Come duemila anni or sono, Gesù si fa nostro compagno di strada e, come ai discepoli di Emmaus, parla anche a noi, ci converte e si rende presente nello spezzare il pane eucaristico.
In questo tempo di Covid-19, con le pesanti ricadute sociali ed economiche, dobbiamo far in modo che il principio di solidarietà (carità) diventi scelta concreta, visibile e quotidiana. 0ggi il pensiero sociale della Chiesa è attualissimo: partire dall’uomo vuol dire partire dalle virtù morali, che non possono essere separate da quelle teologali.
Il cristiano senza fede, speranza e carità, infatti, non può vivere le virtù umane e, neppure, “informare” la sua vita alle opere di misericordia spirituali e materiali.
Per noi tutto inizia con Gesù, la vera forza, la vera novità e la vera ripartenza; senza di Lui, che è la Parola, tutto si riduce ad un frammentario inseguirsi di voci.
Il Vangelo dichiara l’impotenza della legge; solo la grazia è la “forza vitale” in grado di ricreare l’uomo. Secondo tale prospettiva, dobbiamo leggere il passo di Resistenza e resa, in cui Dietrich Bohnoeffer afferma:“L’essenza dell’ottimismo non è guardare al di là della situazione presente, ma è una forza vitale, la forza di sperare quando gli altri si rassegnano, la forza di tenere alta la testa quando sembra che tutto fallisca, la forza di sopportare gli insuccessi, una forza che non lascia mai il futuro agli avversari, ma lo rivendica per sé” (Dietrich Bohnoeffer, Resistenza e resa, San Paolo, Milano 1998, p.72).
Desidero ora condividere alcuni pensieri in vista della imminente “ripresa” autunnale, che si delinea – come detto – molto faticosa, sia per la comunità civile, sia per quella ecclesiale.
Tutti dobbiamo impegnarci affinché i malumori sociali non diventino ribellione; già prima di Covid-19, gli annuali Rapporti del Censis rappresentavano un Paese in cui i giovani ritenevano che non sarebbero stati in grado di mantenere o migliorare il tenore sociale dei loro genitori; l’immagine che ne risultava era quella di un Paese “arrabbiato” e “rancoroso”.
La pandemia, poi, ha fatto il resto mettendo in difficoltà oltre due milioni di famiglie che ora sono a rischio povertà, senza contare i tantissimi lavoratori non regolari e working poor in condizioni sempre più precarie e che il Censis chiama «acrobati della povertà»; sono uomini e donne che prima di Covid-19 guadagnavano lo stretto necessario per vivere e, ora, neanche più quello.
Pubblico, privato, imprese, associazioni e volontariato sono, quindi, chiamate a far rete, evitando polemiche pretestuose e garantendo quanti hanno minori tutele e risorse. Tutti dobbiamo contribuire a riscoprire e ricostruire il tessuto sociale.
Come cristiani e cittadini, domandiamo una politica meno litigiosa e più coesa nelle decisioni che riguardano il Paese, ossia tutti noi; una politica che parli meno attraverso i social e i facili slogan e più attraverso i fatti e il buon senso.
Ripartiamo da gesti semplici, concreti, quotidiani. Ne propongo due che rispondono alla logica evangelica della vedova che, avendo gettato pochi spiccioli nel tesoro del Tempio, ha materialmente dato meno di coloro che l’hanno preceduta, ma che, in realtà, Gesù ci dice aver dato molto di più di chi vi aveva gettato grandi somme (cfr. Lc 21,1-4). La forza dei piccoli “gesti” sta proprio nella loro semplicità e trasparenza.
Guai se dovessimo convincerci che bisogna essere ricchi per poter fare la carità. Dare agli altri non dipende dalle proprie disponibilità ma dalla sensibilità del cuore che, alla fine, o sa amare o no. La carità – possiamo dire così – è “strutturalmente” democratica: tutti la possono fare e tutti la possono ricevere. Tutti, sempre.
Il primo “gesto” è adottare in modo simbolico, ma realissimo, una persona che per le sue condizioni sociali risulta “invisibile”. Le modalità, ovviamente, saranno differenti secondo le disponibilità: si potrà, quindi, inserire nella propria spesa settimanale uno o due generi di “conforto” da destinare a chi da solo non ce la fa.
Non possiamo far finta di non vedere, come il sacerdote e il levita che, imbattutisi in un poveraccio steso a terra mezzo morto, passano dall’altra parte della strada proseguendo il loro cammino (cfr. Lc 10,30-37).
Tutti, infatti, sappiamo che molti uomini, donne e bambini vivono in situazioni di disagio o di povertà; noi, quasi certamente, non li conosceremo mai eppure possiamo prenderci cura di loro in modo concreto.
Per il cristiano la carità è frutto di grazia, ossia è un gesto che “crea”; in sé può essere anche minimo ma è sempre ricco di significato e, per ritornare al pensiero di Papa Francesco, sanamente contagioso.
Facciamo conto, insomma, di apparecchiare la tavola calcolando un posto “in più”. La carità dei nostri “vecchi” diceva: dove mangiano tre persone, può mangiare anche una quarta. Sì, è il “miracolo” della carità che condivide: aggiungendo un posto o una sedia in più e mangiando meno a sazietà ci si fa carico di un “invisibile”.
Assumiamo lo stile di chi sa che da soli non si può essere felici. Certo, da soli, si sta seduti più comodi, si mangia più abbondantemente, ma non si è mai veramente felici.
Questa è l’unica rivoluzione che non sostituisce i nuovi poveri ai vecchi. E tale carità spicciola, a ben riflettere, non ci priva di nulla e attira su di noi la benedizione di Dio.
A questo proposito, ci fa riflettere l’episodio narrato nel primo libro dei Re: il profeta Elia giunge sfinito a Sarepta di Sidone e incontra una povera vedova che deve provvedere al figlio; il profeta è allo stremo e chiede alla donna un po’ d’acqua e di pane. Per l’Antico Testamento la vedova, l’orfano e lo straniero sono i simboli della precarietà, anzi, della miseria, coloro che per primi soccombevano in tempo di carestia, di guerra, di pandemia.
Ebbene – dopo questo gesto di carità a favore dell’uomo di Dio – sarà Dio stesso a prendersi cura di quella povera vedova e di suo figlio: “La farina della giara non venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì secondo la parola che il Signore, aveva pronunciato per mezzo di Elia” (1Re 17,16). Così il credente che si fida di Dio tocca con mano come Dio non si lasci vincere in generosità.
Il secondo gesto, che desidero proporre, riguarda la prossima “ripartenza” del mondo della scuola che, per complessità e delicatezza, è un importante banco di prova per l’intero Paese. Fallire in tale ambito sarebbe un segnale negativo per tutti perché la scuola riguarda i giovani, il nostro futuro e, quindi, tutti noi. Sono proprio loro che ci subentreranno nella guida del Paese e dovranno affrontare i pesanti e perduranti squilibri economici (eredità di Covid-19), squilibri destinati, purtroppo, a rimanere nel tempo.
Quanti ragazzi e ragazze, per difficoltà economiche, situazioni abitative e familiari complesse (luoghi angusti, fratelli numerosi, congiunto disabile ecc.), hanno faticato o non sono riusciti, nei mesi scorsi, a partecipare con profitto alla didattica a distanza. In molte famiglie, infatti, mancano spazi adeguati e dotazioni tecnologiche.
Cosa fare, allora? Se le nostre collaborazioni parrocchiali, istituti religiosi, associazioni avessero spazi idonei non usati, sarebbe opportuno renderli fruibili per consentire lo svolgimento di attività didattiche e formative che altrimenti non potrebbero essere garantite. Di sicuro le modalità dovranno essere studiate con attenzione, compatibili con le nostre forze e prevedendo accordi volti a tutelare la sicurezza di tutti i soggetti coinvolti, sotto la responsabilità di chi gestirà la didattica.
Sì, come Chiesa diocesana dobbiamo almeno interrogarci e considerare se è possibile venire incontro a tali esigenze.
Circa il mondo della scuola mi piace ricordare il servizio offerto, particolarmente in Veneto, dalle scuole paritarie, che sono soprattutto espressione viva del mondo cattolico e che debbono essere riconosciute per l’importante servizio che svolgono sul territorio; spesso sono diretta espressione delle nostre parrocchie. Ringrazio i parroci, i rappresentanti legali, gli insegnanti, i genitori e le varie associazioni che da sempre si fanno carico di sostenere e promuovere questa realtà viva del cattolicesimo veneto.
Sono significative le parole del salmo: ”Felice l’uomo pietoso che dà in prestito, amministra i suoi beni con giustizia. Egli non vacillerà in eterno: eterno sarà il ricordo del giusto… Egli dona largamente ai poveri, la sua giustizia rimane per sempre, la sua fronte s’innalza nella gloria” (Sal 112).
Il libro dei Proverbi, poi, ci ricorda come donare a chi è in stato di necessità equivale a prestare a Dio (cfr. Prv 19,17). E Dio, che non si dimentica di restituire, non si fa certamente vincere in generosità.
In questo tempo si cerca di far fronte all’emergenza economica soprattutto con risorse finanziarie e anche con interventi di altra natura. Nel riconoscere gli sforzi positivi, non possiamo, però, sottacere la necessità di operare in modo più condiviso; maggiore attenzione, poi, va riservata ai giovani, al mondo della scuola e all’università; il diritto all’educazione e alla formazione sono da considerarsi prioritari. Interventi “a pioggia”, con risorse comunque limitate, non dicono ancora una strategia. È logico, quindi, domandarsi quali investimenti sarebbero opportuni per progettare il futuro delle nuove generazioni, le più esposte e penalizzate dinanzi alle conseguenze di un prolungato periodo di crisi economica.
È compito della politica operare una sintesi capace di progettualità, mirando non al facile consenso ma ad interventi “strategici”, in grado di “pensare” il futuro oltre l’orizzonte dell’oggi. Non possiamo consegnare ai nostri giovani un Paese gravato da un ingente debito pubblico, da disoccupazione e senza una visione e un sogno.
Invertendo il titolo di un celebre romanzo, dobbiamo scongiurare in ogni modo che dell’Italia si possa dire: “Non è un Paese per giovani!”.
Ritorniamo, infine, alle due vedove – quella del primo Libro dei Re e quella del Vangelo – e imitiamo i loro gesti semplici, limpidi ed espressivi della loro fede nel Dio Misericordia.
La nostra carissima Madonna della Salute, di cui desideriamo celebrare insieme la festa il prossimo 21 novembre, accompagni la Chiesa che è in Venezia, le nostre comunità, coloro che vi operano, le nostre famiglie, i singoli e chi è preposto al bene comune a tutti i livelli.
In questo contesto di ripartenza sociale ed economica, Venezia si appresta a ricordare il suo 1600esimo anno di vita; sia questa l’occasione per progettare il suo futuro di città unica che sorge dall’acqua e, insieme, di città universale che appartiene al mondo intero.
Avanti e remiamo tutti insieme!
Venezia, 15 agosto 2020
Solennità dell’Assunzione della B.V. Maria
✠ Francesco Moraglia, patriarca