LE FRONTIERE DEL DIALOGO L'Europa che ci attende tra identità e differenza
Aula Magna della Scuola per Traduttori e Interpreti dell'Università di Trieste
19-02-2003

SERVIZIO PER LA CULTURA ‘ DIOCESI DI TRIESTE

Incontri con la città
Aula Magna della Scuola per Traduttori e Interpreti dell’Università di Trieste
19 febbraio 2003

LE FRONTIERE DEL DIALOGO
L’Europa che ci attende tra identità e differenza

1. Dialogo: ‘scambio con il reale inafferrabile’

a) Monologo e dialogo

«Conosco tre specie di dialogo: quello autentico ‘ non importa se parlato o silenzioso ‘ in cui ciascuno dei partecipanti intende l’altro o gli altri nella loro esistenza e particolarità e si rivolge loro con l’intenzione di far nascere tra loro una vivente reciprocità; quello tecnico, proposto solo dal bisogno dell’intesa oggettiva; e il monologo travestito di dialogo, in cui due o più uomini, in modo stranamente contorto e indiretto, parlano solo con se stessi e tuttavia si credono sottratti alla pena del dover contar solo su di sé» .
Questa citazione di Martin Buber, che con Ebner e Rosenzweig è appunto annoverato tra i cosiddetti maestri del pensiero dialogico, mostra ancor oggi tutta la sua perspicacia. Dopo l’ubriacatura per il dialogo che ha caratterizzato la travagliata fase finale del tramonto delle ideologie totalitarie del XX secolo, in questi ultimi anni abbiamo assistito, se non proprio all’eclisse, certo ad una marcata perdita di peso di questa essenziale dimensione della vita interpersonale, sociale e civile. E la ragione può forse essere individuata, con Buber, proprio nel predominio del ‘dialogo tecnico’, non a caso segnato dal pensiero calcolante, in cui il soggetto ‘ cioè l’attore imprescindibile del dialogo ‘ viene prima messo tra parentesi e poi dichiarato scomparso.
La ‘fine del soggetto’, decretata dal post-moderno, era stata preannunciata nell’ingiunzione del suo tragico ed intramontato profeta, Nietzsche: «l’uomo è qualcosa che deve essere superato» . Ma l’esperienza elementare – semplice e costitutiva – dell’uomo di ogni epoca, parla una lingua che è come una sorgente perenne. Niente e nessuno la può spegnere. Attraverso le grandi ed universali parole della vita e della morte, dell’amore, della giustizia e della pace, il fiume carsico della questione non posta improvvisamente riaffiora: «ed io che sono?» . Così l’io e l’altro, nell’unità duale di uomo-donna, di persona e comunità, che caratterizza il singolo, tornano alla ribalta e ripropongono la necessità di evidenziare, come fa Buber, lo spartiacque tra il dialogo ed il monologo.

b) Una ‘traditio’ innovatrice

Insiste Buber: l’autentico dialogo è uno «scambio profondo con il reale inafferrabile» . Questa acuta espressione, che dice contemporaneamente il valore e il limite oggettivo del dialogo ‘ cioè, per stare al nostro titolo, ne delinea le frontiere ‘, ha il pregio di mettere in evidenza un elemento che certamente riguarda anche l’emergenza multiculturale e multietnica delle nostre società europee. Mi riferisco al principio dinamico dell’evoluzione di ogni civiltà, che consiste nella traditio (uso l’espressione latina per sbarazzare il campo, per quanto possibile, dalla banale riduzione del termine a pura somma di tradizioni, riti e costumi sociali) e si attua nel suo doppio movimento ‘ del ricevere e del trasmettere ‘ che implica l’integrazione del nuovo.
Il dominio del dialogo tecnico, che provoca la prevalenza del monologo come modalità di rapporto tra gli uomini, rivela innanzitutto una crisi della capacità di traditio che, come afferma Blondel, non è mera trasmissione di un sistema di concetti o di dottrine, ma è innanzitutto un luogo di pratica e di esperienza .

c) La ‘secondarietà romano-cristiana’

Azzardo una tesi. L’Europa oggi rischia di dimenticare il proprio genio scaturito dalla romanizzazione caratteristica dei primi secoli della nostra era. Cerco di spiegarmi. Rémi Brague sostiene che il carattere fondamentale dell’atteggiamento romano, da cui è nata l’Europa, è la secondarietà. La capacità cioè di custodire, recepire e trasmettere, facendolo evolvere nell’incontro col nuovo, ciò che, pur essendo ricevuto e non prodotto direttamente, era considerato come primario: la sintesi ellenistica tra Atene e Gerusalemme.
L’atteggiamento acutamente descritto da Brague nato con la romanità, avrebbe poi ricevuto nuovo e più profondo impulso dall’incontro con il cristianesimo. Anch’esso capace di secondarietà, a partire dalla sua matrice ebraica avrebbe contribuito a profilare quella che possiamo chiamare identità europea. Infatti «l’aver elevato la secondarietà culturale a livello di rapporto con l’Assoluto è la peculiarità della religione che ha segnato decisamente l’Europa, cioè del cristianesimo. Esso infatti sa di essere secondo rispetto all’Antica Alleanza (‘) In questo modo, la secondarietà religiosa impedisce a ogni cultura che si richiama al cristianesimo, come l’Europa, di considerarsi essa stessa quale propria fonte» .
In quest’ottica l’identità europea appare come intrinsecamente dialogica. Europeo è chi è capace di caricarsi sulle spalle ciò che gli è trasmesso per andare con zelo indomabile incontro al mondo. Ebbene, oggi i popoli europei faticano a riproporre uno dei tratti della loro esperienza costitutiva, quello simboleggiato da Enea, l’eroe virgiliano: possibilità di «fare l’esperienza dell’antico come nuovo e come ciò che si rinnova attraverso il suo trapianto in un suolo nuovo, trapianto che fa di ciò che era antico il principio di nuovi sviluppi» . Questa paralisi della traditio rende problematico il dialogo in quanto tale. Ne è traumatica conferma l’obiettiva difficoltà di integrare uomini di altre etnie, culture e religioni.
L’assunto dell’intrinseca dialogicità dell’identità europea potrà mostrare la sua plausibilità solo se l’Europa si rivelerà ancora capace di secondarietà, cioè di dialogo con l’odierno, imprevedibile reale segnato da precise determinazioni storiche, qual è, tra le altre, l’immigrazione multietnica, multiculturale e multireligiosa.

2. Il rapporto verità-libertà

Per approfondire ulteriormente la tesi delineata mi sembra particolarmente utile considerare un aspetto di una questione molto dibattuta di questi tempi. Mi riferisco all’opportunità o meno di menzionare il Cristianesimo e le religioni nella futura Costituzione Europea. Formulo allora la domanda: in che senso il cristianesimo ha inverato il principio della secondarietà proprio della tradizione romana?

a) Il nucleo essenziale

Cominciamo col dire che questo inveramento è frutto dalla natura del nucleo essenziale e permanentemente vitale del cristianesimo . Un nucleo che nasce a Gerusalemme e che, arrivato a Roma, beneficia di tutta l’eredità della Grecia classica. «Graecia capta ferum victorem cepit» . San Paolo conia espressioni indelebili per descrivere il nucleo essenziale del fatto (avvenimento) cristiano: «Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture (Gerusalemme), fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto» (1 Cor 15, 3-8). E noi sappiamo che questo ‘aborto’ è un ebreo di Tarso che ha respirato l’ellenismo e scrive nel greco della koiné.
Alla radice del fatto cristiano sta l’evento della Verità trascendente (il Deus Trinitas) che, in forma del tutto gratuita, decide di comunicarsi all’uomo. Con l’Incarnazione il Dio Uno e Trino si propone, nella sua assolutezza, alla libertà sempre storicamente situata dell’uomo, senza temere di passare attraverso l’umano stesso. Da questo dono è scaturita quella singolare visione del rapporto verità-libertà che è l’emblema distintivo della civiltà europeo-occidentale . In cosa consiste?
Nella prospettiva giudaico-cristiana la Verità è una verità vivente e personale. Non è un’idea, né il puro frutto di una ricerca teorica. Sarebbe interessante, se ne avessimo il tempo, introdurre qui un giudizio articolato sul percorso seguito in Europa dall’intellettualismo concettualista della modernità e mostrare come anche il problematicismo ed il nichilismo contemporaneo siano l’esito, solo apparentemente contraddittorio, di quella mens che riduce la verità a pura elaborazione concettuale. Elaborazione di ‘secondo grado’ ‘ subordinata all’esperienza ‘ ma sempre, per altro, necessaria: niente e nessuno, in nessuna epoca storica, potrà mai evitare all’uomo e all’umanità quella che Hegel chiamava ‘la fatica del concetto’!
La verità non è, dunque, un’idea. Inoltre, nella persona e nella vicenda storica del Figlio di Dio fatto uomo, morto e risorto per noi, si vede come Gesù Cristo, Verità vivente e personale, senza nulla perdere della sua assolutezza, abbia scelto la strada della libertà umana per rendersi presente nella storia. Più la Verità si comunica, più la libertà è chiamata in causa. Più la Verità si propone, più la libertà è provocata. In questo suo ‘vertiginoso’ offrirsi alla libertà la Verità giunge fino a farsi da essa crocifiggere. E la Sua vittoria nella Risurrezione è una vittoria gloriosa, pagata a caro prezzo, proprio per salvaguardare l’umana libertà.

b) Differenza nell’unità

Con Gesù Cristo e con il cristianesimo il principio della differenza nell’unità che vive nel mistero della Trinità trapassa, in forza dell’Incarnazione, nella storia e diventa, secondo la legge dell’analogia, principio di comprensione e di valorizzazione di ogni differenza. Questa non viene solo tollerata, ma esaltata, perché trattenuta in unità da quella Verità che giunge fino all’estrema Thule dell’umana esperienza, impedendo che la differenza, anche la più radicale, degeneri in fattore di dissoluzione più o meno violenta.
Non è forse entro l’abbraccio di un simile rapporto tra verità e libertà che, nonostante tutti gli errori e le contraddizioni, nella storia dell’Occidente ha visto la luce la necessaria e benefica distinzione tra società civile e dimensione religiosa? La modernità, anche in dura dialettica con la Chiesa fino alla giustificazione dell’agnosticismo e dell’ateismo, ha messo in crisi una visione a senso unico del rapporto verità-libertà. Tale visione, che affermava il dovere della libertà di fare spazio alla verità tutta intera, doveva essere completata cercando di integrare al significato della libertà per la verità anche quello della verità della libertà, che implica l’obiettivo riconoscimento della libertà di coscienza rettamente intesa. D’altra parte però occorre mettere in evidenza che se la modernità europea ha potuto, in un certo senso, costringere l’esperienza religiosa ad una maggior autenticità, lo ha fatto proprio grazie alla natura del nucleo essenziale e permanentemente vitale del principio teorico e pratico della differenza nell’unità così come l’ha ricevuto dal cristianesimo.

c) Europa, cristianesimo e modernità

Proprio in questo quadro sono nate e si sono potute sviluppare anche la pratica e la teoria della democrazia, intesa quale libera ed ordinata convivenza di cittadini, corpi intermedi e popoli che danno vita ad una società civile adeguatamente servita dallo stato.
Da questo punto di vista, la modernità e il post-moderno non possono essere compresi senza l’oggettivo riferimento all’esperienza cristiana, al di là di tutte le difficoltà storiche sorte, in Europa, nel rapporto tra le confessioni cristiane e gli stati nazionali. Si potrebbe, addirittura, affermare che in radice i totalitarismi del XX secolo ‘ quello nazista come quello dei comunismi realizzati ‘ sono movimenti ideologici spiccatamente antimoderni proprio perché, avendo voluto tagliare i ponti con la tradizione cristiana e porsi in alternativa ad essa, hanno provocato un irrimediabile regresso nel modo di concepire il rapporto verità-libertà, cifra costitutiva dell’Europa e di quelle civiltà (penso soprattutto alle Americhe) che si rifanno ultimamente all’orizzonte culturale europeo.
Il principio della differenza nell’unità, che possiamo considerare come la radice teoretica di quello che Brague ha chiamato la secondarietà romano-cristiana, è anche in grado di assicurare al futuro dell’Europa una democrazia sostanziale , capace non solo di reggere l’attuale sfida multiculturale e multireligiosa, ma addirittura di trasformare il nuovo volto del continente che si va delineando in una fucina di civiltà universale . È questa la ragione per cui ‘ come ha anche recentemente ribadito Giovanni Paolo II – non fare riferimento, nel testo della Carta dei Diritti Fondamentali, all’eredità religiosa dell’Europa, appare un scelta miope. La valutazione del Santo Padre, infatti, lungi dall’essere dettata da un nostalgico desiderio di ritorno all’Ancien Régime, nasce dall’urgenza di cercare una nuova espressione giuridico-istituzionale di quel rapporto verità-libertà che solo può garantire la libertà di coscienza e quindi la convivenza civile . Ma, a mio giudizio, la scelta di inserire nel testo della Carta un riferimento al Cristianesimo non è soltanto dettata da una elementare lealtà con la storia dell’Europa. Anche se non ci fossero radici cristiane nella cultura europea ‘ il che è palesemente assai difficile da sostenere ‘ la Convenzione dovrebbe registrare un riferimento al Cristianesimo e alla dimensione religiosa per il bene futuro dell’Europa. E questo proprio in forza del principio della differenza nell’unità che il rapporto verità-libertà, caratteristico della fede cristiana, può mettere a disposizione della società civile consentendole di incontrare – in piena autonomia da ogni religione, ma accettando in un ‘dialogo strutturato’ con lo stato il ruolo di soggetto sociale di Chiese e comunità religiose – principi equi per affrontare la pluralità di etnie, la multiculturalità e la interreligiosità in Europa.
Forse qualche germe di questo seme sta fiorendo ad opera di non poche comunità, non solo cristiane, gratuitamente spalancate alla prima condivisione del bisogno di chi giunge, in qualunque modo, sul territorio nazionale. Tutto ciò è carico di fatica e non è senza contraddizioni e rischi, inesorabilmente legati alla logica testimoniale della carità. Rischi di utopismo che aggravano la chiusura rigida della grossolana ideologia pratica caratteristica dell’egotismo.

3. Le frontiere del dialogo

È ora necessario interrogarsi sulla modalità concreta con cui il principio della differenza nell’unità ‘ espressione suprema del dialogo che ha fatto l’Europa, attraverso la secondarietà romano-cristiana, rendendola capace di una traditio innovativa – può essere concretamente vissuto e praticato nelle nostre società attuali.
Quali sono, quindi, le frontiere del dialogo?

a) Io, tu ed ‘il terzo’

Emmanuel Lévinas sostiene che «l’altro, l’unico non sopporta il giudizio, immediatamente mi precede, gli debbo obbedienza». Qui è posta la natura singolare del rapporto dialogico io-tu. Ma il noto filosofo prosegue: «giudizio e giustizia sono necessari non appena compare il terzo. Proprio in nome dei doveri assoluti nei confronti del prossimo, è necessario un certo abbandono dell’obbedienza assoluta che egli (il ‘tu’ in quanto singolo) invoca. Ecco il problema di un nuovo ordine per il quale sono necessarie delle istituzioni e una politica, tutta la struttura dello Stato» . L’assoluta pregnanza dell’altro finirebbe per dissolvere sia l’io che il tu se non riconoscesse il peso costitutivo del terzo e, con esso e per esso, della politica, delle istituzioni e dello stato.
Il dialogo, e pertanto la riflessione sui suoi limiti, non può mai essere ridotto ad una realtà a due. Il terzo, parimenti co-originario, mette in gioco la necessità di ordinare quegli assoluti che sono rappresentanti dai singoli, sempre differenti.
A livello dei rapporti interpersonali, che possiedono un obiettivo primato nell’umana convivenza, il dialogo riconosce l’unicità di ogni singolo uomo e nella maggioranza degli uomini giunge ad affermare il Fattore personale e trascendentale che ne custodisce gelosamente l’assoluta dignità. Sempre Lévinas, facendo ricorso alla tradizione rabbinica, dice: «Dio è del tutto straordinario. In effetti per battere moneta gli Stati ricorrono ad un calco. Con un calco unico essi fanno molti pezzi tutti somiglianti. Dio, con il calco della sua immagine, arriva a creare una molteplicità dissimile [differenti]: degli io, gli unici nel loro genere. Un rabbino lituano del XVIII secolo, Rabbi Haïm di Volozin ne conclude che ciascuno di loro ‘ uomo unico al mondo ‘ è responsabile dell’intero universo! Probabilmente ciò vuole anche suggerire che al di là del diritto ‘ e una volta che si è rispettato il diritto in tutto il suo rigore ‘ alla misericordia di ciascuno appartengono risorse infinite, non deducibili, imprevedibili ‘ poteri dell’unico» .

b) La forza del testimone

Questo riferimento alla misericordia di ciascuno mostra che nell’ambito dei rapporti interpersonali la logica della testimonianza alla verità ‘ che, come abbiamo visto, può giungere fino a farsi crocifiggere da chi non accetta la verità testimoniata: «amate i vostri nemici» (Mt 5, 44) ‘ va oltre ogni regola di reciprocità. Il vero testimone è colui che si espone in prima persona solo per rispondere all’appello della verità. Così facendo ama l’altro gratuitamente, per se stesso. Non avanza pretese verso di lui, né fa calcolo alcuno sulla sua reazione.
In proposito restano insuperabili le parole del testamento del Padre Christian De Chergé, Priore di Tibhirine, scritto tre anni prima del suo assassinio: «Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere anche oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, mi piacerebbe che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a quel Paese. Che essi accettassero che il Padrone unico di ogni vita non può essere estraniato da questa dipartita brutale (‘) Evidentemente, la mia morte sembrerà dar ragione a quelli che mi hanno considerato con precipitazione un naif o un idealista: ‘Ci dica adesso quel che pensa!’ Ma queste persone devono sapere che la mia più lancinante curiosità verrà finalmente soddisfatta. Ecco che potrò, a Dio piacendo, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell’Islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo, frutti della sua Passione, investiti dal dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre stabilire la comunione, ristabilire la rassomiglianza, giocando con le differenze» . Ovviamente la logica della testimonianza si gioca nel rapporto, sempre drammatico, della libertà di ciascuno con la verità. Affermare che essa va oltre il principio della reciprocità significa solo che non si può mai stabilire a priori la figura della testimonianza: si va dai vertici toccati da Padre De Chergé fino al più pusillanime tra di noi. Tuttavia la testimonianza per il cristiano è un imperativo ineludibile. Ma anche coloro che si professano agnostici devono fare i conti con l’inevitabile logica testimoniale propria del rapporto tra l’uomo e la realtà. L’atto con cui la coscienza ‘intenziona’ il reale è, per sua natura, testimoniale, dal momento in cui, anche nella più banale affermazione della cosa, brilla la differenza costitutiva (ontologica). A questo livello il dialogo sembra non avere propriamente parlando frontiere.

c) La società civile: il principio di giustizia

Tuttavia, come abbiamo visto, non è possibile fermarsi a questo livello del problema. Infatti il terzo compare sempre e tra i tre (la società) è necessario che si stabilisca un ordine, per impedire che la possibile assolutezza della gratuità nel rapporto io-tu diventi ingiustizia rispetto al terzo: «l’io appunto in quanto responsabile verso l’altro e verso il terzo, non può restare indifferente alle loro interazioni e, nella sua carità per l’uno, non può liberarsi dal suo amore per l’altro (‘) Ecco l’ora della giustizia inevitabile che la stessa carità esige» .
È importante sottolineare di nuovo che l’apparire del terzo è un dato costitutivo dell’umana esperienza. Basta pensare al rapporto del bambino con il padre in relazione a quello con la madre. È il padre a porre originariamente la questione del terzo. La libertà del figlio, che incontra nel rapporto con la madre la sua prima identificazione, è dolorosamente condotta dalla presenza del padre a quel salutare scambio col reale (dià-logos) che gli evita la chiusura autistica. Fin da questo livello elementare la presenza del terzo introduce, per così dire, al principio di realtà.
La relazione familiare (padre, madre, figlio) rappresenta in nuce l’avvenimento della communitas, cioè della società. Questa si impone all’io e al tu innanzitutto attraverso i cosiddetti ‘corpi intermedi’ (dalla famiglia alla scuola, all’associazionismo di ogni genere). In essi si attua la società civile al cui servizio deve sempre concepirsi lo stato.
Per quanto riguarda il dialogo ‘ e ancor più il dialogo multiculturale e multietnico -, la vita dei corpi intermedi è decisiva. È a questo livello che avviene o non avviene l’integrazione. Infatti la scuola, i luoghi di lavoro, i quartieri e più in generale tutte le forme associative, ambiti educativi per eccellenza, possono favorire quello scambio sociale che rinnova permanentemente una società civile autenticamente democratica.
L’integrazione si gioca a livello di società civile in obbedienza ai principi di sussidiarietà e di solidarietà che consentono l’effettuale riconoscimento dell’intrinseca dignità di ogni uomo.

d) Il compito delle autorità statali

Questo paziente lavoro educativo deve essere accompagnato, nel più assoluto rispetto, dallo stato. Qui la legge della testimonianza assume una dimensione comunitaria e politica. Siccome è testimonianza, nessuna legge né nessun sistema giuridico al mondo la può direttamente assicurare. Allo stato democratico tocca però garantire il contesto di ordine, di pace e di benessere necessario perché la logica della testimonianza possa essere concretamente attuata dai singoli e dai corpi intermedi. L’autorità costituita dovrà essere particolarmente attenta, in proposito, a salvaguardare la pregnanza della traditio innovativa, in quanto fattore dinamico di edificazione di civiltà. Nel massimo rispetto della storia, della cultura e dei costumi del popolo che rappresenta, l’autorità statuale, ai vari livelli, non pretenderà di imporre in modo meccanico un’idea astratta di integrazione. Ad esempio, non porrà, dal punto di vista pratico, sullo stesso piano l’attuazione dei diritti di culto richiesta dal 98% di una popolazione (cattolica), con quelli pur dovuti ad una minoranza dell’1% (musulmana).

4. Un tentativo di risposta
In sintesi alla domanda circa le frontiere del dialogo vorremo dare la seguente, tentativa risposta.
Il dialogo scaturisce dalla consapevolezza dell’irriducibile valore dell’altro, come fattore che obiettivamente rivela me a me stesso, indicando al mio desiderio di compimento la strada della strana necessità di un sacrificio benefico. Se non vuole spegnersi in un monologo sterile, l’io è chiamato a superare il criterio della pura reciprocità: le frontiere del dialogo interpersonale non possono essere tracciate a priori. Sono quelle poste dal concreto autoesporsi del singolo.
Nell’articolata vita della società civile i limiti o le frontiere al dialogo sono necessariamente imposti dalla presenza del terzo che svela il principio-giustizia senza il quale si manca il principio di realtà. Il criterio-guida, in questo ambito, è quello dell’integrazione che è educazione vicendevole. Ma anche a questo livello l’auspicabile reciprocità (l’integrazione è reciproca educazione) è esaltata dalla gratuità.
La necessità di equilibrare l’urgenza del dono totale di sé – a cui l’io è continuamente provocato dall’assolutezza del tu – con la presenza del terzo (cioè di coniugare carità con giustizia) deve essere garantita dall’alveo tracciato da uno stato capace di edificare quello che Giovanni XXIII nella Pacem in terris chiamava l’ordine della pace, le cui coordinate sono verità, giustizia, amore, libertà . A livello statuale il criterio della reciprocità assume allora un peso importante. Tuttavia tale criterio non potrà che essere esercitato secondo la virtù della prudenza politica. Qui rispunta la virtù della testimonianza doverosamente richiesta a chi riveste autorità. La reciprocità, infatti, sempre auspicabile a livello delle relazioni politiche tra gli stati, potrebbe, per il bene delle persone e dei corpi intermedi, non essere esigita in tutti i casi e a tutti i costi. Per esempio ‘ a mio sommesso parere – le istituzioni statuali italiane non debbono negare un luogo di culto a dei fedeli musulmani provenienti da uno stato che non permette ai cristiani di costruire una chiesa invocando il principio di reciprocità. Questo impone però alle stesse autorità il dovere di insistere fino all’attuazione dello stesso diritto per i cristiani che vivono in quel paese musulmano!

5. Nuove frontiere

Nelle vene di questa gloriosa città di Trieste, crocevia di culture, scorre ancora vivo il sangue robusto della secondarietà europea di origine romano-cristiana. Pochi luoghi come questa terra, in Europa, ne hanno dato prova, anche pagando un prezzo talora assai elevato. Ebbene qui si gioca, in parte significativa, il futuro dell’Europa. Nuove frontiere vi interpellano oggi, quelle del dialogo. Tali frontiere però non si possono fisicamente demarcare perché, in ultima analisi, mettono in gioco la libertà umana, per sua natura sempre incatturabile. Esporsi di persona è inevitabile. E questo contiene sempre un rischio, ma è il rischio dell’umana avventura.