Istruzione del Patriarca in occasione del Mandato a catechisti, evangelizzatori ed educatori (Sacro Cuore / Mestre, 28 settembre 2012)
28-09-2012

Patriarcato di Venezia

 

Ufficio evangelizzazione e catechesi

 

 

 

Mandato a catechisti, evangelizzatori

 

ed educatori alla fede

 

(Chiesa parrocchiale del Sacro Cuore di Mestre – venerdì 28 settembre 2012)

 

 

Istruzione del Patriarca mons. Francesco Moraglia[1]

 

 

Incontrarci per il Mandato quasi all’inizio dell’Anno della Fede, ormai imminente, è una grazia del Signore. Non è qualcosa che noi costruiamo attraverso qualche evento organizzato o qualche manifestazione: è renderci disponibili al Signore, al Vivente, al Risorto, a Colui che precede la sua Chiesa.

Che cos’è la catechesi? Che cosa dobbiamo guardare, quando pensiamo alla catechesi nella nostra Chiesa particolare? Noi, ciascuno di noi, dobbiamo guardare alla comunità dei catechisti. La catechesi si gioca attraverso il/la catechista, attraverso la comunità dei catechisti. Certo, è la Chiesa che evangelizza ma il/la catechista è prima di tutto una persona che ha fatto esperienza di Gesù nella Chiesa. E non dimentichiamo, soprattutto nella catechesi dell’iniziazione cristiana, che ci vengono affidate delle persone. Certo, siamo in una società e in una cultura che possiamo definire secolarizzata, disattenta a Dio e alla sua presenza’ E allora il nostro compito diventa più urgente.

Qualunque cosa io avessi fatto nella mia vita (sono vescovo, sono stato prete e prima seminarista), oramai sono una persona che può guardare dietro di sé e vedere la maggior parte degli anni dietro le sue spalle. Ebbene, io conservo un ricordo vivo e grato del mio catechismo. Il mio catechismo me lo porto dentro, mi ricordo dove lo facevo, le catechiste che si sono succedute nel guidarmi verso l’amore a Gesù. Qualunque sia il tipo di vita che siamo chiamati a vivere e che riusciamo a vivere, le cose che si fanno nei primi anni di vita ritornano e certe volte anche sotto forma di nostalgia. E dato che siamo nella società del pensiero debole, molte volte la nostalgia scava dentro di noi e vince certe resistenze della volontà e dell’intelligenza. Noi siamo fatti anche di sentimenti!

Allora un/una catechista – soprattutto nell’imminenza dell’Anno della Fede, in cui ricordiamo l’evento grande del Concilio Vaticano II ma anche il 20° anniversario del Catechismo della Chiesa Cattolica – deve sentire un’urgenza, uno stimolo, un ottimismo soprannaturale (molte volte si parla di ottimismo naturale con un po’ di retorica), la speranza cristiana. L’Anno della fede è un evento voluto dal Papa per la Chiesa universale: è un evento che ci raccorda e che ci unisce al Signore Gesù. E allora se ci fosse, com’è anche possibile, un catechista stanco e sfiduciato (perché fare il catechista è un peso non indifferente in certi momenti), che all’inizio dell’anno sentisse il fardello pesante e a ragione anche, faccia questo sforzo di ottimismo soprannaturale. L’Anno della Fede è l’anno in cui io, come prima cosa, sono chiamato a rinnovare la mia fede per poter essere ‘porta aperta’ agli altri attraverso la mia fede. Questo sia l’impegno primo della comunità dei catechisti: rinnovare il proprio rapporto personale col Signore risorto, ritornare a Lui, fidarsi di lui.

Abbiamo ascoltato nel Vangelo (Gv 14, 1-7) questa esortazione di Gesù a guardare a Lui come la via. Noi sappiamo che c’è una meta, il Padre, ma abbiamo anche la via che è Gesù. È il Gesù incontrato nella fede, conosciuto attraverso la preghiera, testimoniato attraverso la vita di carità, messo al centro della comunità dei catechisti la domenica. È sconcertante che si abbia un numero alto di bambini/e, ragazzini/e al catechismo e che questo numero decresca in modo impressionante nel momento in cui si è chiamati a partecipare alla messa domenicale. Allora rinnoviamoci nella fede! Io vorrei che i catechisti e le catechiste riscoprissero la vita spirituale che è fatta di preghiera, vita sacramentale, adorazione, riscoperta del sacramento della riconciliazione. Lasciarsi portare dal Risorto: questo deve essere il compito fondamentale, il primo passo per essere catechisti/e nell’Anno santo della Fede.

E’ un anno in cui, prima di tutto, dobbiamo metterci in questione: non tanto mettere in questione la Chiesa o le verità che crediamo quanto, piuttosto, mettere in questione il nostro modo di vivere, di annunciare, di testimoniare quelle verità. Molte volte ci dobbiamo ritrovare tutti nei due discepoli di Emmaus, che hanno il Signore lì ma non se ne accorgono, stanno seguendo i loro pensieri’ Non dimentichiamo che Gesù, prima di mandare definitivamente i suoi apostoli nel mondo – è detto chiaramente nel Vangelo di Luca -, dice a Pietro, l’apostolo che compirà un servizio a favore degli altri apostoli: una volta convertito, una volta che ti sarai ravveduto, tu compirai l’azione di confermare i tuoi fratelli nella fede. A questo apostolo che è il fondamento della Chiesa, dell’apostolato e degli altri apostoli, Gesù chiede una cosa sola e gliela chiede per tre volte: ‘Pietro, mi ami più di costoro?’.

Il/la catechista prima di tutto si chiede, certe volte anche con le lacrime, se ama il Signore. Certe nostre stanchezze più che legittime (anch’io per un certo periodo della mia vita ho fatto il catechista), certe difficoltà che s’incontrano e che non sono lievi, possono essere superate solo nell’intimità della fede col Signore. Noi dobbiamo investire, se sarà il caso, anche su qualche convegno o sul materiale didattico ma dobbiamo investire soprattutto su noi stessi, guardare gli altri catechisti con stima e affetto, creare una comunità fatta di preghiera e vicinanza reciproca.

Dicevo che nell’Anno della Fede noi ricordiamo il Concilio Vaticano II e ricorderemo, in particolare, i documenti fondamentali di questo Concilio però un frutto importante del Concilio è stato il Catechismo della Chiesa Cattolica. Nel Sinodo celebrato nel 1985, a vent’anni anni dalla chiusura del Concilio e incentrato proprio su di esso e su questa grazia che il Signore ha fatto alla Chiesa, si decise anche di chiedere al Santo Padre che si editasse un Catechismo che esprimesse lo spirito, l’anima, la lettera del Concilio Vaticano II. Come ho detto, e come spero leggerete nella piccola riflessione iniziale che dovrebbe accompagnare la Diocesi sino al prossimo febbraio, il Catechismo è frutto del Concilio.

Fedeltà al Concilio vuol dire prendere tra le mani il Catechismo che corrisponde soprattutto a un progetto teologico e spirituale. Fare nostra l’impalcatura e la struttura del Catechismo della Chiesa Cattolica vuol dire avere un modo di pensare, un modo di annunciare il Vangelo. Ho sempre ritenuto che chi conosce bene il Catechismo è in grado di esprimere una fede amica dell’uomo e non timorosa, che può entrare senza paura in ogni ambiente, contesto e situazione. Il Catechismo diventa – su questo vorrei essere molto chiaro – un modo di pensare teologicamente, perché è animato e sostenuto da un pensiero teologico che è il pensiero teologico del Concilio Vaticano II.

Voi sapete che il Catechismo della Chiesa Cattolica è diviso in parti distinte. La prima parte riguarda la fede ‘Io credo. Noi crediamo’. Non si crede mai da soli, solo la Chiesa crede bene. Solo la Chiesa che è la Sposa dello Sposo conosce veramente il suo Sposo. Allora io credo, ma credo sempre con gli altri. Io credo, ma perché c’è stato qualcuno che mi ha annunciato il Vangelo. All’inizio della mia fede c’è la Chiesa. San Paolo dice: come potranno credere se non c’è nessuno che annuncia loro la Parola? Ma come potrà esserci uno che annuncia la Parola se nessuno è stato mandato? La fede è sempre ricevere e domanda di donare.

Paolo VI usa un’espressione bellissima e molto significativa. Quando una comunità diventa evangelizzata? Quando passa da un inizio timoroso di fede a una fede vera? Quando la comunità – ma questo discorso vale anche per le persone – sente il bisogno di annunciare la fede, allora quella comunità è evangelizzata. Se questo non avviene vuol dire che non siamo evangelizzati! Vi rimando al primo capitolo del Vangelo di Giovanni (1, 35-46): i primi apostoli incontrano il Signore e sentono il bisogno, incontrando i loro amici, di mandarli al Signore. Questo è vero per Andrea – il protocleto, il primo chiamato – che chiama suo fratello Pietro e questo è vero per Filippo che chiama Natanaele (‘Abbiamo incontrato Gesù, il Messia’ – ‘Cosa può venire di buono da Nazareth?’ – ‘Vieni e vedrai’). E Gesù, come sempre, riesce a toccare il cuore delle persone.

C’è, a tal proposito, un bel commento di Sant’Agostino… A ciascuno di noi potrebbe essere arrivata questa domanda: chissà mai cosa pensava Natanaele quando era sotto l’albero del fico? Perché Gesù gli dice: «Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto l’albero di fichi».  E Natanaele, che fino a quel momento era prevenuto contro Nazareth e contro questo Gesù che veniva dalla pagana Galilea, afferma: «Rabbi, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d’Israele!». E Gesù replica: «Perché ti ho detto che ti avevo visto sotto l’albero di fichi, tu credi? Vedrai cose più grandi di queste!». Ecco, il catechista è colui che porta a Gesù e poi lascia che Gesù dica la parola giusta, quell’unica parola che solo Lui può dire perché Lui è l’unico che riconosce il cuore degli uomini. C’è servizio più grande di questo che un credente possa fare nei confronti di un uomo, di una donna, di un bambino? Prendiamo anche l’episodio di Mc 2,1-12: il paralitico portato a Gesù da quei quattro uomini che scoperchiano il tetto e Gesù compie il miracolo. Non sono i quattro uomini a fare il miracolo, è Gesù. Ma se non ci fossero stati quei quattro uomini il paralitico sarebbe rimasto paralitico! Questo è il compito del catechista.

L’impianto teologico del Catechismo inizia proprio dalla fede: ‘io credo’, ‘noi crediamo’. Che differenza c’è tra il filosofo e il teologo? Il filosofo, se ci riesce, cerca qualcosa. Il teologo riceve e continua a pensare col cuore, con la mente, con la volontà, con la vita quella verità e quel bene che ha ricevuto per tutta la vita.

La seconda parte del Catechismo riguarda i sacramenti. Voi ricordate la chiusura del Vangelo di Marco: «Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato» (Mc 16,16). Lo schema teologico del Catechismo è proprio questa priorità alla fede e alla grazia di Dio. Allora il/la catechista e la comunità dei catechisti si fonda sulla fede e sulla vita sacramentale, cioè la vita di grazia e poi, solamente dopo, c’è il discorso della coerenza della vita cristiana, che è importantissima, e dei comandamenti che vengono presentati attraverso le virtù che li esprimono. È anche possibile la lettura del comandamento come un ‘non fare questo, non fare quello’ ma il comandamento è ‘fai qualcosa’ e, quindi, ‘non fare questo’. I comandamenti sono cammini di libertà, sono proiezioni verso quell’umanità piena che si chiama Gesù Cristo. Dobbiamo ripetercelo perché una delle situazioni più difficili della modernità nei confronti dell’uomo è proprio quella di non voler riconoscere che l’uomo è fragile.

Il Papa Giovanni Paolo II ci ricorda che se vogliamo essere giusti dobbiamo essere anche misericordiosi. Se vogliamo essere solo giusti non arriveremo mai alla giustizia, perché la vera giustizia deve tener conto che l’uomo è un essere fragile. Le parole di Gesù, all’inizio del Vangelo di Marco e Matteo, ce le dimentichiamo troppo facilmente. Non dice: ‘Formiamo la comunità e vogliamoci bene’. E neanche: ‘Facciamo la carità’. Ma dice: ‘Fate penitenza e convertitevi, il regno di Dio è vicino’. Abbiamo bisogno di questa conversione, di questo riconoscerci fragili e bisognosi quindi di una fede e di una grazia che ci permettono di iniziare un cammino di vita, perché i comandamenti sono una proiezione, un viaggio, un esodo verso la libertà. È la verità che ci fa liberi.

Ci sarebbe da dire molto sulla cultura che, invece, afferma che è la libertà (intesa come ‘fai ciò che vuoi’) che ti rende vero… Noi, molte volte, parliamo giustamente di sincerità ma la sincerità, l’autenticità, si deve misurare sul contenuto della nostra sincerità e della nostra verità. C’è la sincerità ma c’è anche la veracità…

Il Catechismo, nell’ultima parte, poi si chiude con un richiamo alla preghiera. Santa Teresina di Lisieux stava tutto il giorno a meditare il Padre Nostro che non è ‘una’ preghiera ma ‘la’ preghiera. Il Padre Nostro, nel suo sviluppo, ci dice chi siamo. Nel Padre Nostro noi chiediamo le cose più umili: Signore, ricordati che oggi ho fame, anzi perlomeno tre volte al giorno ho fame, dacci oggi il nostro pane quotidiano… E poi ci fa dire la cosa più alta che un uomo possa dire. Pensate se dicessimo con sincerità e verità questa espressione: ‘Sia fatta la tua volontà’. Un momento prima gli diciamo ‘Signore, oggi ho bisogno di mangiare, come ieri e come ne avrò domani, se mi concedi la vita’ e poi la cosa più alta ‘Signore, sia fatta la tua volontà nella mia vita’.

Il Catechismo è un progetto di vita spirituale, è il progetto teologico che la Chiesa attraverso il Concilio Vaticano II ci dona in un momento difficile. Chesterton – un autore che consiglierei a tutti di leggere, se non altro perché ogni tanto fa sorridere col suo humour prettamente inglese – sostiene che da quando gli uomini hanno smesso di credere in Dio finiscono per credere a qualunque cosa’ Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci aiuta a recuperare il senso di Dio e, quindi, a mettere tutte le cose al loro posto.


[1] Questo testo – non rivisto dall’autore – riporta la trascrizione dell’intervento pronunciato dal Patriarca in occasione dell’edizione 2012 del Mandato e mantiene volutamente il carattere colloquiale e il tono del ‘parlato’ che lo ha contraddistinto.