Istruzione del Patriarca all’incontro d’inizio anno pastorale con il clero (Venezia / Basilica cattedrale di S. Marco, 3 ottobre 2019)

03-10-2019

Incontro d’inizio anno pastorale con il clero

(Venezia / Basilica cattedrale di S. Marco, 3 ottobre 2019)

Istruzione del Patriarca Francesco Moraglia

“Avvicinandovi a lui, pietra viva…, quali pietre vive” (1Pt 2,4-5)

 

 

  • Con lui sepolti nel battesimo, con lui anche risorti mediante la fede (Col 2,12)

Nella lettera pastorale “L’amore di Cristo ci possiede. Il primo annuncio nella vita della Chiesa”[1] si è posto al centro della vita della comunità cristiana il kerygma, partendo da quello che per il cristiano è insieme essenziale e irrinunciabile: il Signore Gesù risorto, che dona lo Spirito Santo. Il kerygma è Lui: inizio, centro e culmine di tutto il Vangelo.

La Chiesa nasce a Pasqua ed è la comunità di coloro che credono in Gesù, il Signore risorto; se tale consapevolezza si affievolisse, verrebbe meno l’essenziale e il necessario e così la strada sarebbe una sola: ritornare da Lui.

Papa Francesco ci presenta il kerygma con queste parole: il primo annuncio cristiano, ossia Gesù Cristo, il Figlio eterno del Padre che, risorto da morte, dona lo Spirito per il perdono dei peccati e ci rivela e dona l’infinita misericordia del Padre [2].

Kerygma deriva dal verbo greco kerýssô e significa “proclama”, “annuncio-ufficiale”, “dichiarazione pubblica”; non è qualcosa che si pronuncia a mezza voce, con timidezza, ma con la forza e l’entusiasmo del discepolo e della comunità che crede in Gesù e ama gli uomini e le donne a cui è mandato. Il kerygma è, insieme, principio, centro e culmine del Vangelo.

Il cristiano sa di non poter dimenticare – ossia mettere tra parentesi – Gesù, il Risorto che dona lo Spirito e opera incessantemente nella Chiesa. Se ciò capitasse, allora, il Vangelo sarebbe venuto meno.

Ora, guardiamo al battesimo sottolineando il forte legame profondo col kerygma. Fede e battesimo sono un tutt’uno; fra essi vi è unità.

L’atto di fede – come sottolinea il Catechismo della Chiesa Cattolica – si caratterizza come “io credo” e, allo stesso tempo, come “noi crediamo”[3]; è atto simultaneamente personale e comunitario che, alla fine, richiede, appunto, il battesimo.

Dobbiamo tenerne conto, sia teologicamente sia pastoralmente. Ll’io e il noi nella fede così si uniscono, pur nella distinzione, e l’io e il noi dei credenti plasmano le nostre comunità.

Credere è, quindi, un cammino personale/comunitario, sinodale, vale  a dire una strada comune, fatta con gli altri. E, come ogni cammino, non può non essere contrassegnato da momenti differenti; gioia e dolore, riposo e fatica. Tutto entra a far parte della vita del discepolo ed è un reale cammino di grazia e libertà che, secondo la parola di Gesù, conduce a richiedere il battesimo: “Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato” [4].

La lettera ai Colossesi esprime il legame fra kerygma, Parola accolta nella fede e battesimo; quest’ultimo è presentato come un progetto di vita, un percorso in Cristo. Nelle nostre comunità dobbiamo riconsiderare il sacramento del battesimo che, per un verso, potrebbe esser dato come per già acquisito – e non è così -, per un altro, invece, potrebbe risultare “silenziato” per un malinteso pluralismo culturale e religioso. Il battesimo, quindi, finisce per rimanere sullo sfondo mentre, soprattutto oggi, in un contesto di forte secolarizzazione, può costituire una risorsa e una reale ripartenza teologico-pastorale per tutta la comunità ecclesiale.

 

  • Primogenito tra molti fratelli (Rm 8,29)

Col battesimo i discepoli partecipano alla stessa vita di Gesù che, da sempre, ossia dall’eternità, è il Primogenito e l’Unigenito di una moltitudine[5]. I battezzati, per l’apostolo Paolo, partecipano a quella che è la vera circoncisione. Nel battesimo tutti siamo sepolti e tutti risuscitiamo grazie alla potenza di Dio che ci ha ridonato la vita in Gesù Cristo, che è il tutto di Dio a noi dato nel frammento di una carne umana.

È in lui che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità, e voi partecipate della pienezza di lui, che è il capo di ogni Principato e di ogni Potenza. In lui voi siete stati anche circoncisi non mediante una circoncisione fatta da mano d’uomo con la spogliazione del corpo di carne, ma con la circoncisione di Cristo: con lui sepolti nel battesimo, con lui siete anche risorti mediante la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti” [6].

All’inizio di tutto c’è l’eterna predestinazione del Figlio voluta dal Padre che, dall’eternità, pensa e vuole l’incarnazione del Figlio unigenito;                                      il Figlio incarnato è così il progetto unitario ed unico del Padre. Tale progetto non può esser ridotto ad astrazione teologica, a pura filosofia, ad etica; è, infatti, una persona concreta che risponde ad un nome: Gesù di Nazareth, il Cristo, Figlio eterno del Padre e primogenito di una moltitudine di fratelli.

Tutto l’universo – l’intero creato – è pensato e voluto in Lui. L’universo, il creato, hanno origine da Lui e hanno la sua consistenza; Lui è il fine di tutto.

Francesco d’Assisi, col Cantico delle creature ci offre l’immagine poeticamente affascinante di Dio Creatore e dell’universo sua creatura; tutto è opera delle sue mani e tutto è dato alla libertà dell’uomo. Il rispetto e la salvaguardia del creato hanno così la loro origine dalla consapevolezza che l’uomo ha d’essere creatura; riconoscere e gioire della propria creaturalità è presupposto per rispettare e amare il creato; è la linea portante del Canto di Francesco.

La creazione – che Francesco, in modo sublime, descrive – rimanda al Divino Artefice e tutto, in Lui, ispira amore e gratitudine; ogni cosa conduce a contemplare con fede la realtà che ci è data e che non viene letta in modo funzionale ma simbolico, come qualcosa che ci parla del sommo Creatore.

Il Dio Creatore e Padre dischiude un profondo e reale senso di fratellanza che l’uomo avverte verso gli altri uomini e le creature; nessuno e niente viene escluso: la terra, l’acqua, il sole, il fuoco, la luna, le stelle. Così, in Francesco, l’umile sa riconoscere Dio Creatore e diventa strumento per rendergli grazie per l’opera delle sue mani, senza eccezione. Francesco, infatti, nella sua lode e ringraziamento, giungerà anche a rivolgersi a “sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò scappare – e, alla fine, aggiungerà –: guai a quelli che morrano ne le peccata mortali”.

Gesù Cristo, Figlio eterno del Padre, è il senso che dona consistenza a tutta la realtà creata, iniziando ovviamente dall’uomo che non è voluto da Dio nella condizione di pura creaturalità ma di creaturalità filiale.

La grazia si caratterizza insieme come necessaria e gratuita; necessaria perché essenziale per la salvezza dell’uomo, gratuita perché rimane un puro dono. Gratuità e necessità sono, quindi, costitutive della grazia; l’antropologia cristiana qui sta o cade.

Gli inni di Efesini[7] e Colossesi,[8] il prologo di Ebrei[9] e l’inizio della prima lettera di Pietro[10] parlano di una predestinazione eterna da parte di Dio Padre che tutto ha previsto e racchiuso nel Figlio che, come detto, è  ad un tempo Unigenito e Primogenito di una moltitudine di fratelli.

È illuminante il seguente passo della lettera ai Romani: “…quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinato, li ha anche chiamati; quelli che ha chiamato, li ha anche giustificati; quelli che ha giustificato, li ha anche glorificati” [11].

Tale predestinazione non è affermazione teorica, ma qualcosa che si realizza e si compie concretamente nella storia di ogni uomo, anche in noi e nelle nostre comunità. Non si tratta di un’idea astratta, una specie di antropologia virtuale che, alla fine, risulta aleatoria o velleitaria; al contrario, essa si “storicizza”, ovvero assume una dimensione “storica” poiché, al di fuori della storia, l’uomo non ha vita reale.

L’antropologia cristiana – per non rispondere a pura fantasia – deve superare la vuota astrazione e assumere la “cifra” e lo “spessore” che la rendano degna dell’uomo. E qui viene incontro la dimensione sacramentale: in concreto, i sette sacramenti che “storicizzano” la grazia proprio nel segno ecclesiale del sacramento e rendono la grazia accessibile humano modo.

I sacramenti suscitano nella storia di ogni uomo i misteri della vita di Gesù, Primogenito di una moltitudine di fratelli; si riscontra, così, l’importanza dei segni sacramentali a partire proprio dal battesimo, che “scolpisce”[12] nell’uomo il profilo di Gesù Cristo, Figlio eterno del Padre; in tal modo ogni uomo diventa figlio nel Figlio.

In Gesù – il Primeggiante[13] – il battesimo e gli altri sacramenti identificano, di volta in volta, la specificità di Gesù Cristo secondo la peculiarità dei differenti segni sacramentali.

Possiamo ancora dire una parola sul battesimo a partire dalla lettera ai Romani, il capolavoro di Paolo che, da sempre, è il punto di riferimento di ogni discorso sulla fede e l’etica cristiana. L’epistola ai Romani rappresenta lo sviluppo di un annuncio del profeta Abacuc: “…il giusto vivrà per la sua fede” [14]. Questa profezia è il piccolo seme da cui germoglierà la grande lettera paolina.

Il profeta Abacuc visse un periodo drammatico, di persecuzione. Egli si lamenta con Dio per il suo silenzio che risuona come indifferenza e disinteresse. Allora Dio lo rassicura con queste parole: chi non ha l’animo retto soccomberà mentre il giusto vivrà mediante la fede.

La lettera ai Romani è lo sviluppo di questo pensiero. Interessante è questo passo: “Per mezzo del battesimo… siamo stati sepolti insieme a lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati intimamente uniti a lui a somiglianza della sua morte, lo saremo anche a somiglianza della sua risurrezione” [15].

Il Battesimo, così, è la scelta dell’uomo entrato in un cammino di fede. Il rito dell’iniziazione cristiana degli adulti lo attesta in modo chiaro; essa, infatti, prevede che – dopo la recita delle litanie dei santi e la benedizione dell’acqua, prima dell’unzione con l’olio dei catecumeni – vi sia la rinuncia a Satana, al peccato, ossia alle scelte che si oppongono alla nuova vita in Cristo; infine, è proclamata pubblicamente la fede nel Padre, nel Figlio, nello Spirito Santo.

Rinunciare a Satana, al peccato, e professare la propria fede nel Dio trinitario significa intraprendere un cammino che non riguarda solo il tempo e la vita presente, ma l’eternità. Così scopriamo il battesimo come realtà personale e comunitaria che riguarda l’oggi e il domani del discepolo, un cammino che facciamo nostro nella comunità ecclesiale.

Nella Chiesa antica l’atto liturgico della rinuncia e della promessa veniva enfatizzato; il catecumeno prima si voltava verso Occidente, luogo dove tramonta il sole e simbolo delle tenebre, poi verso Oriente, luogo dove sorge il sole, simbolo della luce, e quindi faceva la sua sentita professione di fede nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo.

Tutto questo avveniva – giova ribadirlo – attraverso la forma del dialogo, così da significare come il battesimo non fosse una formula da imparare e recitare a memoria o una risposta da dare in maniera intellettuale; al contrario, il battesimo doveva risultare qualcosa di diverso e la forma del dialogo intendeva manifestarlo con chiarezza. Il tutto assumeva la forma di un dialogo nella fede, un dialogo con Dio e con la Chiesa, un dialogo che avveniva nel rito per poi continuare nella vita.

Ora se il battesimo è conferito ad un bambino, il dialogo –ovviamente – avviene tra il ministro della Chiesa, il papà, la mamma, il padrino e la madrina. Così la famiglia di quel piccolo – che è stato portato al fonte  proprio dalla fede dei genitori – vive questo momento come grazia che riguarda tutti e che fa crescere l’intera famiglia; in tal modo una famiglia – genitori, fratelli, zii, nonni – cresce e si realizza come tale.

È compito proprio dei genitori trasmettere la fede ai figli. E quindi i sacramenti dell’iniziazione cristiana costituiscono, soprattutto oggi, reali opportunità per la pastorale familiare in cui il sacramento del matrimonio esprime tutta la sua dimensione ecclesiale; è un modo efficace e bello per fare risuonare, in tutta la comunità, il Vangelo del matrimonio cristiano, oggi necessario più che mai.

 

  • Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone (Lc 24,34)

La fede cristiana – lo sappiamo – ha avuto il suo inizio la mattina di Pasqua. Di buon mattino le donne si recano al sepolcro[16], poi è la volta di Pietro e Giovanni, anche loro vanno al sepolcro di corsa[17]. Sulla via del ritorno – non lo sanno ancora – non saranno più le stesse donne e gli stessi uomini che si erano recati alla tomba, neppure l’umanità sarà più la stessa.

Col battesimo siamo immersi nella morte  e risurrezione di Cristo[18]; è il sì della fede che si compie nel segno ecclesiale del sacramento. Il rito dell’iniziazione cristiana degli adulti evidenzia – come detto – il dialogo che si attua nella fede; la Chiesa, tramite il ministro, accoglie il catecumeno e dialoga con lui; le domande riguardano Dio-Padre, Gesù, lo Spirito Santo, la Chiesa e la nuova vita che inizia.

Nel battesimo conferito ai bambini su richiesta dei genitori (almeno uno) si evidenzia la situazione antropologica fondamentale dell’uomo, ossia come l’uomo sia, sempre, un essere “accolto” e “ricevuto”. Venire al mondo non è frutto di scelta personale; la stessa cosa avviene pure per le prime scelte riguardanti l’educazione del bambino. E quindi non deve meravigliare che ciò valga anche per la fede.

La Chiesa madre si manifesta nei genitori, nei padrini, negli zii, nei nonni e diventa responsabile e custode del battesimo dei piccoli non violando la libertà di chi non può ancora decidere personalmente.

Il bambino, infatti, deve poter vivere prima di giungere alla maggiore età;, si tratta, in tal modo, di riconoscere semplicemente la realtà della condizione umana per cui, prima di poter scegliere autonomamente, sono altri che decidono per chi non è in grado. E tutto ciò è fatto per il bene del minore. Questo è il compito proprio dei genitori che, peraltro, hanno chiamato il figlio alla vita, senza chiederne il consenso. Sì, questa è la condizione umana che non può non essere accolta e, alla quale, sarebbe inutile ribellarsi; qui è in causa la legittimità stessa dell’educazione.

Col battesimo è offerta la salvezza e ciò avviene attraverso la fede dei genitori. Al battesimo poi seguirà, a suo compimento, il sacramento della confermazione; “donare” il battesimo ad un bambino, da parte di genitori credenti, significa non abbandonarlo a sé quando non è in grado di prendersi cura della sua persona. Privarlo di Gesù non vuol dire rimanere neutri; è, comunque, fare una scelta ben determinata (che orienta), immettendo il piccolo su una strada che lo segnerà per il futuro e, ciò, per genitori credenti, non può che risultare incomprensibile.

Appare quindi logico che genitori credenti accompagnino il proprio figlio sulla strada della fede e chiedano per lui il battesimo. Con il battesimo inizia un cammino che verrà progressivamente percorso dal bambino con scelte personali; pensiamoad esempio all’età adolescenziale, l’età delle prime e impegnative scelte libere.

Significativa è la risposta di Gesù ai discepoli che volevano allontanare da lui alcuni bambini[19]. Alla fine, il battesimo amministrato ad un bambino è la presa d’atto della situazione in cui l’uomo vive fino alla maggiore età.

Il bambino, crescendo, è chiamato poi a diventare il protagonista della sua vita e Gesù lo sa bene, tanto che agli apostoli che lo seguivano chiederà: “Ma voi, chi dite che io sia?” [20]. E al giovane ricco: “Se vuoi… vieni! Seguimi” [21]. Tali domande sono rivolte ad ogni discepolo ed anche a noi.

Per il discepolo non basta, quindi, avere sulle labbra il nome di Gesù, poiché Gesù deve arrivare ad ispirare tanto il modo di pensare quanto il modo di parlare e di vivere dei discepoli; insomma, Gesù deve essere il criterio che dà senso e consistenza ad ogni cosa nella vita del discepolo.

Gesù è il criterio – la via, la verità e la vita[22] – e tutto è pensato e voluto in Lui. L’universo ha origine da Lui, in Lui ha la sua consistenza, a Lui è finalizzato.  Il Figlio eterno ed unigenito del Padre è il senso della realtà creata; il Logos è il senso, la verità, la realtà stessa.

Se così non fosse, Gesù sarebbe uno fra i tanti uomini che la storia annovera tra fra i cosiddetti “normotipi”: Buddha, Socrate, Lao Tse… Ma questo, per il cristiano, sarebbe del tutto irrilevante.

La teologia e la pastorale – pur in modi diversi – hanno un rapporto diretto con la fede; già nelle prime comunità cristiane la figura di Gesù di Nazareth veniva variamente interpretata, pensiamo ai giudaizzanti e agli gnostici. È quanto risulta dalla lettura del Nuovo Testamento e ritroviamo tali tendenze, in seguito, precisate nell’epoca dei Padri della Chiesa, quando sono chiamati a rispondere, esponendosi, anche dinanzi al potere politico dell’Imperatore.

La risurrezione è evento che s’impone ai discepoli; non è frutto di suggestioni o elaborazioni di coscienza. La risurrezione è qualcosa che sorprende i discepoli dall’esterno e li trova impreparati; essi tutto si aspettavano ma non certamente d’incontrare Gesù di nuovo vivo.

I Vangeli ci danno il Gesù storico, letto alla luce degli eventi pasquali, nonostante le varie fasi redazionali attraverso le quali sono giunti a noi. La Chiesa primitiva vuole rimanere fedele a quanto Gesù ha detto e ha fatto e questa volontà si manifesta anche nel criterio di cui si servono gli Undici per scegliere chi dovrà subentrare nel ministero di Giuda[23].

I Vangeli, come tutto il Nuovo Testamento, trasudano realismo; essi sono scritti teologici o, meglio, storico-teologici, seppur non storici nel senso moderno del termine[24]; i Vangeli narrano la risurrezione come qualcosa di reale che s’impone dall’esterno, pensiamo allo stato d’animo dei due discepoli di Emmaus[25]. La comunità primitiva, insomma, non risulta  formata da persone suggestionate o creative che “inventano” Gesù risorto[26].

Se Gesù non fosse risorto, non ci sarebbe stata l’effusione dello Spirito Santo e, di conseguenza, non potremmo neanche parlare di Chiesa. La sacramentalità della Chiesa non è, quindi, invenzione teologica ma conseguenza della Pasqua; è il rendersi presente di Gesù in mezzo ai suoi, l’essere di Cristo con i suoi e in mezzo ai suoi.

Infine, è utile ricordare che le differenti apparizioni, alle donne al sepolcro, ai discepoli di Emmaus lungo la strada, a Pietro e agli Undici nel Cenacolo, non costituiscono la realtà ultima della Pasqua ma sono un modo per annunciarla e – per quanto possibile – conoscerla e annunciarla.

L’evangelista Luca si serve di un linguaggio realista per presentare la risurrezione[27] e l’effusione dello Spirito Santo[28]. Quando l’evangelista dice: “Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!” [29], intende sottolineare, in modo esplicito, servendosi dell’avverbio “davvero”, la realtà dell’evento. Gesù, rifiutato dagli uomini, è diventato la pietra angolare su cui poggia la fede; ieri degli apostoli, oggi della Chiesa.

L’apostolo Paolo lo ricorda ai Corinzi con disarmante semplicità – siamo nell’anno 54 d.C. – e questo attesta quanto tale verità fosse già entrata a far parte del Dna della Chiesa primitiva: “…se si annuncia che Cristo è risorto dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non vi è risurrezione dei morti? 13Se non vi è risurrezione dei morti, neanche Cristo è risorto! 14Ma se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede” [30].

Per Paolo, Gesù – persona concreta e singola – diventa niente di meno che misura e criterio universale, valido per tutti gli uomini; con tale capovolgimento, il singolo diventa misura e criterio della moltitudine, dell’universale; ci è data, così, una cristologia implicita a soli pochi anni (all’incirca 25) da quellla mattina di Pasqua[31].

 

  • Voi siete una lettera di Cristo composta da noi (2 Cor 3,3)

Per i non credenti incontrare cristiani che vivono realmente la loro fede vuol dire essere posti dinanzi a testimoni credibili e, quindi, alla plausibilità di quella fede che essi non conoscono o rifiutano.

Una comunità anche piccola di credenti (una sola famiglia, ad esempio) diventa una lettera di Cristo indirizzata a chi ancora non crede ed è spinto, in tal modo, ad interrogarsi; questa è già evangelizzazione.

Chi non è ancora giunto alla fede ma vede che la vita di questi cristiani esprime amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé – insomma i frutti dello Spirito Santo[32] -, allora vede dischiudersi uno scenario del quale neppure immaginava l’esistenza.

Il non credente si sente toccato nell’intimo, interpellato, e percepisce quanto prima ignorava ma, soprattutto, avverte che Dio non è una teoria, un’etica ma piuttosto una viva presenza paterna che suscita e crea belle persone, umanamente ricche e complete.

Papa Francesco, nell’esortazione apostolica post-sinodale Evangelii gaudium – citando Benedetto XVI -, scrive come la Chiesa non cresce per proselitismo ma «per attrazione»[33]. L’attrazione è il risultato di una testimonianza pienamente umana che dice affidamento al Dio della misericordia e libertà di fronte al mondo e alle sue logiche.

I testimoni che fanno crescere la Chiesa, non col proselitismo ma per attrazione, parlano agli uomini e alle donne non ancora credenti o che hanno abbandonato la fede attraverso la grazia che si manifesta nelle loro belle umanità.

Essi non temono di camminare per le strade del mondo. Esprimono umanità gioiose e complete, non facili da incontrare ma, quando ciò accade, si è “obbligati” ad interrogarsi sul perché di tutto questo.

Molti non credenti, più di quanti pensiamo, sono alla ricerca di Dio in modi e per strade a noi sconosciuti; essi portano smarrimenti, rimpianti, attese… La scristianizzazione della società tocca ambienti che, da “sempre”, hanno avuto una storia e una cultura profondamente cristiane, ambienti intrisi di valori evangelici; ce lo ricorda lo stesso profilo urbanistico delle nostre città e la loro toponomastica.

Annunciare Gesù, allora, vuol dire far risuonare il buon annuncio del Vangelo a livello personale, familiare e sociale, nel quotidiano. Così, se per un verso proclamare il Vangelo da parte dei discepoli è un preciso e incontrovertibile dovere, per un altro verso ascoltarlo, da parte di chi non l’ha ancora udito, è un diritto che non può esser negato.

Ad un diritto corrisponde un dovere e, allora, proprio di tale dovere devono farsi carico i discepoli ai quali, in forza del battesimo, è affidato l’annuncio che deve risuonare dove c’è chi è in attesa.

La Parola di Dio deve risuonare per quello che è, ossia come Parola di Dio, incoraggiando, liberando, purificando anche se è vero che, innanzitutto, la Parola di Dio richiede – non dimentichiamolo! – la conversione; diversamente, sarebbe solo una parola umana. La Parola di Dio, invece, apre una strada nuova da percorrere e indica una prospettiva luminosa – come ricorda Papa Francesco nell’Evangelii gaudium – che ci sazia del buon cibo di Dio che (proprio perché buono e desiderabile) verrà condiviso[34].

Questa Parola evangelizzatrice dobbiamo, innanzitutto, farla risuonare in noi; questa Parola coincide col battesimo vissuto e reso manifesto dai discepoli. Il punto è esattamente questo: riscoprire la forza dirompente del battesimo ed essere personalmente e comunitariamente la lettera di Dio inviata alla Chiesa e al mondo.

 

[1][1] F. Moraglia, L’amore di Cristo ci possiede. Il primo annuncio nella vita della chiesa, Marcianum Press, Venezia 2018.

[2] Cfr. Papa Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium, n. 164; d’ora in poi con kerygma – o primo annuncio cristiano – s’intende quanto qui espresso, anche se formulato in modo più sintetico o più ampio.

[3] Catechismo della Chiesa Cattolica, nn.26-184.

[4] Mc 16,16.

[5] Il Primogenito è anche l’Unigenito (Cfr. Rm 8,29).

[6] Col 2,9-12.

[7] Ef 1,3-14;

[8] Col 1, 13-20.

[9] Eb 1,2.

[10] 1Pt 1,20.

[11] Rm 8,29-30.

[12] Il termine “scolpisce” è in riferimento alla teologia del carattere.

[13] Altro modo per dire Unigenito e Primogenito.

[14] Ab 2,4.

[15] Rm 6,4-5.

[16] Cfr. Mt 28,1-10; Mc 16,1-8; Lc 24,1-12; Gv 20,1-2; 11-18.

[17] Cfr. Gv 20,3-10.

[18] Cfr Rm 6, 1-7.

[19]  “Gli presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono. Gesù, al vedere questo, s’indignò e disse loro: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso». E, prendendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro” (Mc 10,13-16).

[20] Mt 16,15.

[21] Mt 19,21.

[22] Gv 14, 6.

[23] Cfr. At 1,21-22.

[24] Cfr Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen gentium, n.19.

[25] Cfr. Lc 24, 21-25.

[26] Gv 20,24-29; Lc 24,11; 19-24.

[27] Cfr. Lc 24,1-53.

[28] Cfr. At 1,6-8; 2,1-14.

[29] Lc 24,34.

[30] 1Cor 15,12-14.

[31] La data più probabile della risurrezione di Gesù Cristo è il 9 aprile dell’anno 30 d.C.; quella della redazione della Prima lettera ai Corinzi il 54-55 d.C.

[32] Cfr. Gal 5,22.

[33] Benedetto XVI, Omelia nella Santa Messa di inaugurazione della V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi presso il Santuario “La Aparecida” (13 maggio 2007).

 

[34] Cfr. Papa Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium, n.14.

condividi su