Dies academicus
Facoltà di Diritto canonico San Pio X di Venezia
(Venezia, 29 aprile 2015)
Introduzione del Gran Cancelliere e Patriarca di Venezia mons. F. Moraglia
Eminenza Carissima, Monsignor Preside, Chiarissimi Professori, Cari Studenti, innanzitutto un ringraziamento particolare al neo Prefetto della Congregazione per l’Educazione cattolica che cortesemente ha accettato di tenere quella che – nella nuova veste – immagino sia la Sua prima Lectio Magistralis ad un Dies Academicus.
Eminenza, a questa seguiranno innumerevoli altre prolusioni; la Facoltà San Pio X, comunque, si sente fra le primizie del suo servizio ecclesiale alla guida della Congregazione dell’Educazione Cattolica.
Nella veste di Gran Cancelliere, con gioia, intervengo all’inizio di questo Dies academicus che segna un momento importante e, soprattutto, di rilancio nella vita della Facoltà di Diritto Canonico San Pio X che oggi vive il momento ufficiale più significativo della sua rinnovata vita accademica.
Sotto la guida del Patriarcato di Venezia e con la collaborazione delle altre quattordici Chiese del Triveneto – che ringrazio vivamente per aver accolto l’invito -, la Facoltà San Pio X s’impegna nel promuovere il momento della ricerca e della formazione rivolta non solo alla nostra realtà triveneta e italiana ma, anche, a Chiese sparse in Europa, Asia, Africa e nel mondo intero. In tale prospettiva si deve leggere la convenzione recentemente siglata – venerdì 24 aprile u.s. – con la Facoltà Teologica del Triveneto che avvia una stabile relazione tra questi due istituti accademici consentendo, a chi si vuol iscrivere alla nostra Facoltà di Diritto, di poter frequentare anche in quella sede i necessari corsi teologici come già da anni, tramite analoghe convenzioni, è possibile fare con istituti accademici di Bologna, Lugano, Roma.
Come Gran cancelliere della Facoltà Teologica del Triveneto e della Facoltà di Diritto Canonico San Pio X, ringrazio i due Presidi – mons. Roberto Tommasi e mons. Giuliano Brugnotto – per l’intesa raggiunta che ulteriormente promuove e coordina la proposta teologica e giuridica nella Regione Ecclesiastica Triveneta.
Nelle comunità cristiane – e vengo al tema di oggi – è presente, fin dalle origini, la tensione a ritrarsi dal mondo, non certo per paura, ma per porsi integralmente alla ricerca di Dio; è una tensione che si rinnova e si ripresenta nei secoli, in modo ricorrente – nelle molteplici forme di vita consacrata – riconoscendo, così, nella radicalità evangelica e nella povertà di fronte ai beni temporali qualità essenziali per il proprio cammino.
Nel IV secolo Sant’Antonio abate intraprende una nuova vita, trascinato dall’invito di Cristo a una scelta integrale – «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo» (Lc 14, 26) – e riconoscendo solo nel Signore l’unico fondamento affidabile del proprio esistere: «Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna» (Mt 19, 29).
A distanza di poco meno di mille anni è la volta di Francesco d’Assisi, che risponde al richiamo evangelico: «Non procuratevi oro né argento né denaro nelle vostre cinture, né sacca da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone, perché chi lavora ha diritto al suo nutrimento. In qualunque città o villaggio entriate, domandate chi là sia degno e rimanetevi finché non sarete partiti» (Mt 9, 10-11), facendone il cuore di una vita rinnovata.
L’imperativo evangelico – «Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo» (Lc 14, 33) – nei secoli viene declinato in particolare nelle molteplici forme della vita consacrata, avendo come primo radicale segno della povertà evangelica quel celibato per il regno di Dio che San Paolo connota come dono divino desiderabile, pur nel riconoscimento della molteplicità dei carismi (1 Cor 7, 7), segno e condizione di povertà in quanto “vuoto” che si vuole colmato solo da Dio e dalla sua giustizia.
Povertà è quell’austerità che San Giovanni Cassiano, nel quarto secolo, illustra come triplice rinuncia: alle ricchezze e ai beni del mondo; al proprio passato, a vizi e passioni dello spirito e della carne; al trasporto per le realtà presenti e visibili per desiderare solo quelle eterne.
Povertà è la mendicità che un antico detto – legato all’ambiente monastico di Scete, nell’Egitto del Nord – diceva essere «l’onore di dover chiedere l’elemosina nella necessità», ma che trova maggior espressione nel movimento mendicante, qualificata da San Francesco – nel Testamento del 1226 – come ricorso «alla mensa del Signore» quando «non ci fosse data la ricompensa del lavoro» (FF 120).
Povertà è la comunione dei beni, caratteristica costante nei secoli di tutte le manifestazioni della vita religiosa e che il grande vescovo Sant’Agostino riconduce alla Chiesa apostolica dove è strumento privilegiato di testimonianza della resurrezione del Signore: «La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune. Con grande forza gli apostoli davano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti godevano di grande favore. Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno» (At 4, 32-35).
Povertà è il lavoro manuale come prassi generalizzata, che non è solo garanzia di sussistenza indipendente. Sulpicio Severo ricorda che, nella fondazione monastica avviata da San Martino nei pressi di Tours, non si esercita alcun arte, eccetto quella del copista per i più giovani, e gli anziani sono dediti esclusivamente alla preghiera. Il lavoro manuale era degli schiavi, l’uomo libero è l’intellettuale: non può lavorare con le proprie mani… Ci vorranno la regola di San Benedetto – ora et labora – e due interi secoli perché si giunga ad affermare che nessuno potrà mai essere monaco senza aver prima messo mano all’aratro (cfr. R. Pernoud, Martino di Tours, pagg. 78-79).
La lectio magistralis che il card. Giuseppe Versaldi ha accettato di offrirci in questo Dies academicus è, anche, preludio e intonazione della giornata di studio che la Facoltà di Diritto Canonico San Pio X dedicherà domani al trinomio «Povertà evangelica, missione e vita consacrata», stimolata dalla pubblicazione delle Linee orientative per la gestione dei beni negli Istituti di vita consacrata e nelle Società di vita apostolica dell’agosto 2014. Il Cardinale ci aiuterà, soprattutto, a comprendere e rileggere l’istanza della radicalità evangelica, in rapporto ai beni temporali, nei diversi stati di vita presenti nella Chiesa.
Il diritto canonico è così chiamato a sostenere la Chiesa in una continuamente rinnovata custodia della povertà evangelica come strumento privilegiato – fin dalla Gerusalemme apostolica – di efficace annuncio della Resurrezione del Signore, ricordando il severo monito evangelico posto a soprattitolo di quella stessa lettera circolare: «A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più» (Lc 12, 48).