“In dialogo a Venezia. Occidente e Orienti. Famiglia, caritas, cultura, spiritualità, pace per un’umanità da riscoprire”
(Venezia / Scuola Grande San Marco, 10 marzo 2023)
Intervento del Patriarca Francesco Moraglia
Saluto e ringrazio gli organizzatori di questo convegno che si svolge in più sessioni e con interventi che evidenziano questioni e temi differenti, connessi però al motivo profondo di questo dialogo e confronto. Tutto va riallacciato e considerato a partire da Venezia, città e, quindi, spazio umano che ha scritto la sua storia proprio a partire dall’incontro e dal dialogo che sono suoi tratti caratteristici, non solo retaggio di un passato glorioso ma elemento costitutivo della sua attuale e futura vocazione.
Ogni incontro e dialogo avvengono su piani molteplici e differenti – come anche si evince dal titolo del programma – e, anzi, si realizzano concretamente nella vita delle persone, delle comunità civili e religiose, tramite la loro presenza nei luoghi del vivere quotidiano, la famiglia, la caritas vicendevole, la vita culturale e religiosa, nell’aspirare e perseguire la pace, in nome di una comune umanità da cui ripartire e che, per il cristiano, esprime l’evento dell’incarnazione in cui il “Tutto” assume il “frammento”.
È interessante che il primo ambito indicato sia proprio quello della famiglia, oggi così in difficoltà e carente di attenzioni e tutele sul piano culturale, sociale, politico, economico. Non siamo ancora, forse, ben consapevoli delle conseguenze – per l’intera società e in questo tempo di frammentazione – del venire meno o, comunque, dell’indebolirsi del fattore famiglia che non ha elementi alternativi o sostitutivi che possano prenderne il posto, specialmente nel compito di aprire e preparare le nuove generazioni alla socializzazione e favorendo le capacità di incontro e dialogo autentico.
È stato osservato, a questo proposito, che “più la società si fa individualista, pluralista, eticamente neutra, lasciando che gli individui decidano da soli del proprio bene e della propria felicità, e più si fa pressante l’esigenza di un ‘luogo’ dove le relazioni umane siano improntate alla gratuità, al dono, a un amore che coinvolga la totalità della persona. Una società pluralista e liberale non può vivere di rapporti esclusivamente contrattuali” (Sergio Belardinelli, “È in tempi come questi che bisognerebbe puntare tutto sulla famiglia”, Il Foglio 23 febbraio 2023).
Ma lasciamoci ora condurre dal “filo rosso” che rannoda gli interventi di questo convegno che mette in dialogo Occidente e Oriente o, più esattamente, gli “Orienti”, per esprimere meglio e più fedelmente il complesso intreccio tra questi mondi, con legami variegati e caratterizzati da questioni non prive di dialettica e talora di scontri ma sempre, anche, di un dialogo fecondo ed arricchente.
In questo quadro c’è anche la realtà Chiesa che è, sì, una sola ma che le vicende degli uomini – ce lo ricorda la storia – hanno connotato di legittime accentuazioni e diversificazioni che, però, si sono trasformate, purtroppo, in dolorose separazioni e fratture traumatiche con la formazione di “cristianesimi” occidentali e orientali, ognuno con specificità e tratti caratteristici in ordine alla fede, alla prassi e alla spiritualità, non più solo nei termini della pluriformità che arricchisce ma della frammentazione che smarrisce l’unità nella diversità.
Premesso che la divisione è un male, è comunque possibile reperire anche un disegno (una “permissione”) provvidenziale nel consentire i tempi e i modi della divisione che hanno segnato l’Occidente e l’Oriente, pure in ambiti ecclesiali, arrivando ad esprimere forme differenti di religiosità (teologia, spiritualità, liturgia), di cultura e di tradizioni più conformi all’animus dei rispettivi popoli ma tutti facenti parte dell’unica Chiesa universale.
Ecco perché diventa importante sempre più conoscersi e frequentarsi per arricchirsi e crescere, insieme, sia in umanità sia nella fede. E ciò vale per le comunità religiose ma, più che mai, per le realtà politiche, sociali e culturali d’occidente e d’oriente; non è, quindi, soltanto un problema ecumenico, ossia di rapporti tra fedi cristiane, ma anche di relazioni tra persone, comunità, popoli e culture.
In ogni caso, come sottolinea Divo Barsotti, “il Cristianesimo è – e rimane – uno. E non assorbe la creatura nel Creatore, non divide l’uomo da Dio, ma ‘distingue per unire’ e senza escludere nessun elemento veramente vivo, comprende, abbraccia e possiede, nella sua capacità universale, tutta la pienezza della vita cristiana. È la Chiesa” (Divo Barsotti, Cristianesimo russo, Padova 1987, p. 227). In questo senso, la spiritualità occidentale e quella orientale si completano e, quasi, si migliorano a vicenda.
Dovremmo, allora, recuperare tale dimensione della vita religiosa, delle fedi e del cristianesimo come “motore propulsore” e generatore di vita buona, di buone relazioni, di crescita comune nella libertà e nella verità, giustizia e nella pace, come ricerca e promessa seria di una “pienezza di vita” altrimenti non raggiungibile, se non come illusione o futilità di un momento.
Prendo poi spunto da un altro dei termini indicati nel titolo di questo convegno, caritas, che spesso viene associato alla parola “solidarietà”. Va rilevato, peraltro, che il concetto di solidarietà non nasce propriamente in ambito cristiano ma, anzi, in sua contrapposizione nell’ambito delle teorie socialiste (di Pierre Leroux, in particolare) e della critica di Karl Marx (siamo, quindi, in pieno Ottocento) all’idea cristiana di amore nell’intento di trovare una nuova, più “razionale” ed efficace risposta ai problemi e alle diseguaglianze della società.
Come aveva acutamente osservato Joseph Ratzinger – Benedetto XVI, fu soprattutto negli ultimi decenni e grazie al magistero del santo Papa Giovanni Paolo II che il concetto di solidarietà fu ripreso, trasformato e in qualche modo “cristianizzato” così che “solidarietà significa sentirsi responsabili gli uni per gli altri, i sani per i malati, i ricchi per i poveri, i continenti del Nord per quelli del Sud, nella consapevolezza della reciproca responsabilità e nella coscienza che quando diamo noi riceviamo e che possiamo dare sempre solo ciò che a noi stessi è stato dato e pertanto non appartiene a noi mai solo per noi stessi” (Joseph Ratzinger, La vita di Dio per gli uomini: scritti per Communio, rivista internazionale di Teologia e Cultura: numero 208-210, luglio-dicembre 2006, Milano 2006, pp. 96-110).
Tutto questo, insomma, ci fa dire che non basta una semplice solidarietà o anche un mero anelito a favore della giustizia e della pace. Ci vuole di più, bisogna andare oltre, ci vuole il senso del dono e del condividere, ci vuole dunque caritas. Invito a rileggere le illuminanti pagine dell’enciclica Deus Caritas est al riguardo: “L’amore – caritas – sarà sempre necessario, anche nella società più giusta. Non c’è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell’amore. Chi vuole sbarazzarsi dell’amore si dispone a sbarazzarsi dell’uomo in quanto uomo” (Benedetto XVI, Lettera enciclica Deus caritas est, n. 28b).
E questa profonda realtà di amore e di pienezza – caritas -ci rimanda ancora una volta ad un riferimento ulteriore e alla presenza di Dio nella vita dell’uomo, sia a livello personale che comunitario.
Cancellare o anche solo ridurre il posto di Dio e delle comunità religiose nella vita di una convivenza umana rappresenta sempre, anche, una grave perdita di umanità e una diminuzione delle possibilità di uno sviluppo umano autentico e integrale.
Quando Giovanni Paolo II istituì il Pontificio Consiglio della Cultura scrisse che, proprio quando vi sono spinte sempre più forti per un ateismo pratico o per “ideologie agnostiche, ostili alla tradizioni cristiana”, vi è tanto più “l’urgenza per la Chiesa di intrecciare un dialogo con le culture affinché l’uomo d’oggi possa scoprire che Dio, ben lungi dall’essere rivale dell’uomo, gli dona di realizzarsi pienamente, a sua immagine e somiglianza” (Giovanni Paolo II, Lettera di istituzione del Pontificio Consiglio della Cultura, 20 maggio 1982).
Vorrei qui citare allora un filosofo di famiglia russa, ma nato a Kiev (in Ucraina, dove rimase fino alla giovinezza) e poi trasferitosi a San Pietroburgo, prima di emigrare definitivamente, in Francia dopo essere stato espulso dal regime bolscevico russo; parlo di Nikolaj Aleksandrovič Berdjaev.
Questa sua affermazione ci aiuta ad entrare in un pensiero di più ampio respiro e in grado di contribuire ad edificare una comunione rispettosa delle diversità: “Che cosa m’interesserebbe una religione che non avesse alcun rapporto con tutta la pienezza di vita, con l’intero destino storico degli uomini e la società di domani? La religione non può limitarsi a un cantuccio oscuro della vita individuale, essa è, nella sua reale portata, la salvezza dell’umanità e dell’universo, la vittoria sulla morte e sul nulla, l’affermazione eterna della vita in tutta la sua ricchezza” (N.A. Berdjaev, Sub specie aeternitatis, p. 4 citato in Olivier Clément, La strada di una filosofia religiosa: Berdjaev, Milano 2003).
Nel cristianesimo Berdjaev trovava la risposta alle esigenze più profonde dell’uomo, in particolare alla sete di libertà – convinto com’era che “tutti i problemi, in fondo, sono problemi religiosi” –, in quanto la fede cristiana è realtà concreta e integrale capace di affermare, insieme, il valore della persona e della libertà umana che trovano la loro espressione sublime e piena in Cristo ma anche, in qualche modo, in quanti lo hanno incontrato e lo seguono come fedeli, come discepoli, come credenti.
Sono certo che questo Convegno, articolato su più fronti e che si dispiega in più giornate, mostrerà – attraverso i vari interventi – la fecondità e la vivacità, lungo la storia, delle comunità religiose che hanno ispirato e sviluppato percorsi di dialogo e civiltà, di bellezza e di arte, non dimenticando ed anzi attraversando i drammi e le tragedie della storia, di cui la guerra in Ucraina – scoppiata poco più di un anno fa e ancora senza prospettive di soluzione – è solo l’ultimo tassello.