Intervento del Patriarca sul tema “Il mistero di Maria nella vita e nel ministero del presbitero” (Macerata, 10 novembre 2022)
10-11-2022

“Il mistero di Maria nella vita e nel ministero del presbitero”

(Macerata, 10 novembre 2022)

Intervento del Patriarca di Venezia Francesco Moraglia

 

 

Saluto i confratelli e ringrazio il Vescovo Nazzareno per l’invito.

La devozione alla Madonna della Salute – che unisce le Chiese che sono in Macerata e in Venezia – sta all’origine di questo incontro. Il Cammino sinodale che percorriamo come Chiese che sono in Italia, si attua anche riscoprendo gli antichi legami fra le Chiese attraverso vie che solo lo Spirito conosce e suscita.

Fu l’arciprete Ludovico Ferraioli che, nel lontano 1666, portò a Macerata l’immagine e la devozione della Madonna della Salute.

A Venezia, da quasi quattro secoli, la Madonna della Salute accompagna la vita quotidiana e gli eventi straordinari della città e dei suoi abitanti; la basilica della Madonna della Salute, dal 1820, è Cappella del Seminario Patriarcale. Per i veneziani, è semplicemente, “la Salute”.

La nostra conversazione – “Il mistero di Maria nella vita e nel ministero del presbitero” – è, ad un tempo, mariana ed ecclesiologica. Ha due fuochi: Maria – vergine, figlia di Sion, donna, madre, sposa – e il presbitero – segno sacramentale di Gesù tra i fratelli -, servitore della comunità e pastore che, secondo l’espressione cara a Papa Francesco, ha “l’odore delle pecore”.

Richiamiamo il tema dell’Alleanza, realtà costitutiva della rivelazione cristiana che struttura sia l’Antico sia il Nuovo Testamento. Dio prima elegge Israele, poi fa alleanza con lui; l’Alleanza verrà rinnovata, di volta in volta, lungo la storia e giunge a pienezza in Gesù di Nazareth (cfr. Gal 4,4).

La creazione è il primo attuarsi dell’Alleanza. Dio suscita dal nulla tutte le cose – cielo, terra, gli animali, l’uomo (creato ad immagine e somiglianza di Dio) – e l’arcobaleno, dopo il diluvio, sarà il segno della nuova Alleanza fra cielo e terra (cfr. Gen 9,12-17).

Con Abramo entriamo nella storia e l’uomo è chiamato a rispondere a Dio, in modo nuovo, nella fede. Abramo è il “nostro padre nella fede”; ce lo ricorda la prima preghiera eucaristica o canone romano.

L’Alleanza ha il suo momento “costitutivo” al Sinai, l’Horeb, il monte di Dio, dove Dio rivela il suo nome ineffabile (cfr. Es 3,13-15). Quando l’Alleanza viene stipulata, prima che il sangue dell’agnello sia versato sull’altare, il popolo s’impegna e grida ad una voce: “Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo!” (Es 19,8).

Con i profeti – Geremia (cfr. 31, 31-33.40), Ezechiele (cfr.11,19; 18,31; 36,26; 16,60-62) – viene annunciata una “nuova” e “futura” Alleanza che porrà nell’uomo un cuore “nuovo”.

Il culto presuppone la fedeltà alla Legge; Israele, invece, tradiva l’Alleanza e i profeti stigmatizzano e rigettano un tale culto. Non è, quindi, il culto in quanto tale che è messo in questione, ma il culto che s’innalza da un popolo infedele (cfr. Am 5,21-25; Os 6,6; 8,13; Mic 6,6-8; Is 1,10-31 e 58,1-14; Ger 7,21-24;Sal 50,9-14). In tal modo la predicazione dei profeti annunciava e prefigurava una nuova Alleanza.

Al cuore di pietra subentrerà il cuore di carne in quanto, così, si vuol superare l’incapacità del popolo ad essere fedele a Dio; la nuova Alleanza sarà incisa nel cuore dell’uomo, non su tavole di pietra.

Giunta “la pienezza del tempo” – come dice la lettera ai Galati (cfr. Gal 4,4) – l’Alleanza si compie nel “sì” di una giovane donna, Maria di Nazareth (cfr. Lc 1,38). E a quel “fiat” si lega l’evento dell’incarnazione dell’Unigenito Figlio del Padre; è la nuova ed eterna Alleanza.

Tutto era iniziato con Abramo, nella terra di Carran (cfr. Gen 12,1-4), e poi c’è stato l’evento fondante del Sinai col popolo che si era impegnato con queste parole: “Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo!” (Es 19,8).

A Nazareth, nel “fiat” di Maria – personificazione della figura simbolica della figlia di Sion (sposa, madre, vergine) –, si “conclude” (ossia si porta a compimento) l’Alleanza (cfr. Lc 1,26-36) che viene celebrata a Cana (cfr. Gv 2,1-12) e, infine, sarà sigillata al Calvario (cfr. 19,25-27).

In Maria si compie personalmente l’Alleanza; Maria è il “sì” per eccellenza, la vera arca dell’Alleanza, come si evince dalla narrazione che Luca fa della visita di Maria alla cugina Elisabetta: “…beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto” (Lc 1,44).

Questa è la beatitudine della fede che compie l’Alleanza del Sinai; è il “sì” del popolo: “…Mosè andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore e tutte le norme. Tutto il popolo rispose a una sola voce dicendo: «Tutti i comandamenti che il Signore ha dato, noi li eseguiremo!»” (Es 24,3). Ma la storia d’Israele, come sappiamo, attesta che non fu così.

Ci soffermiamo ora su due testi del Vangelo di Giovanni, ossia le nozze di Cana (cfr. Gv 2,1-11) e la crocifissione al Calvario (cfr. Gv 19,25-27); nel primo l’Alleanza viene celebrata, nel secondo sigillata.

A Cana Gesù si rivolge alla Madre chiamandola “donna” e il riferimento all’Alleanza è chiarissimo; Ella, infatti, richiede l’intervento di Gesù, ovvero il “segno” grazie al quale i discepoli crederanno (cfr. Gv 2,11). Poi, ai piedi della croce, Gesù affida alla madre – alla quale si rivolge chiamandola “donna” – il discepolo come figlio.

Dio, nell’Antico Testamento, è lo sposo d’Israele; nel Nuovo, invece, è Cristo lo sposo della Chiesa che in Maria, personificazione della figlia di Sion, giunge a pienezza come sposa fedele e madre feconda.

Il quarto Vangelo inizia esattamente come il libro della Genesi, con queste parole: “In principio”; segue poi lo schema della settimana. Anche in Giovanni ritroviamo i sette giorni della creazione, ma Gesù ora “crea” i discepoli, la nuova umanità; non sono le creature ad essere chiamate all’esistenza ma i discepoli, ovvero la Chiesa.

In Giovanni, nel primo capitolo, per tre volte si scandisce la frase “il giorno dopo” (ai versetti 29, 35, 43). E il secondo capitolo inizia così: “il terzo giorno”; è il giorno in cui Maria, la madre di Gesù, e i discepoli sono invitati a Cana a delle nozze (cfr. Gv. 2,1). Al termine del racconto, l’evangelista annota: “…fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui” (Gv 2,11).

L’episodio delle nozze di Cana racconta un fatto, ma la narrazione è fortemente simbolica e ne dobbiamo tenere conto in ordine ad una retta comprensione. Sarebbe non soltanto riduttivo ma erroneo considerare le parole “Non hanno più vino” (Gv 2,3) come se esprimessero solo la preoccupazione per due sposi in difficoltà.

Qui, in realtà, siamo dinanzi al primo “segno” del quarto Vangelo che è costituito da sette grandi “segni”. È una pericope, quindi, che ha un significato particolare e i segni rivestono un posto centrale nel quarto Vangelo in cui il simbolismo è un modo di comprendere e di esprimersi, non riducendo la realtà a puro fatto storico.

In tal modo, i due giovani sposi di Cana rimangono sullo sfondo ed anzi svaniscono; il vero sposo e la vera sposa diventano Gesù e sua madre, chiamata ”donna”.

Dobbiamo, quindi, prestare attenzione al messaggio che l’evangelista vuole darci; il “mistero” di Gesù viene presentato attraverso “segni” che costituiscono la stessa narrazione.

Lo sposo è colui che provvede al banchetto e, in particolare, al vino che è segno della gioia messianica. Quando il vino viene meno, Gesù – su richiesta della madre (“la donna”) – lo procura; Lui è lo sposo e le nozze di Cana sono le nozze “messianiche”.

Le idrie, poste lì per le purificazioni, appartengono all’Antica Alleanza e ne attestano l’impotenza salvifica; la Sinagoga sta per cedere il passo alla Chiesa. E proprio quelle idrie si riempiranno di vino nuovo e il maestro di tavola dirà che è un vino migliore di quello vecchio.

Le nozze richiedono la presenza dello sposo ma, ovviamente, anche della sposa e qui prende consistenza la figura di Maria che non è chiamata per nome ma – significativamente – “donna”, rimarcando così il contesto dell’Alleanza a cui il quarto Vangelo si riferisce, a differenza di ciò che abitualmente era in uso nel mondo semita e greco.

Il riferimento, chiaramente, è alla “donna” della Genesi, all’archetipo primordiale, ma qui vi è il nuovo Adamo (Gesù) – “Adamo è figura di colui che doveva venire” (Rm 5,14) – e così si afferma una sponsalità generatrice di vita e di salvezza.

Dopo il dialogo fra Gesù (lo sposo) e Maria (la sposa) a Cana, anche – e a maggior ragione – l’evento del Calvario va letto nel contesto dell’Alleanza. Gesù si rivolge alla madre e, ancora, la chiama “donna”: “…vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco tuo figlio!». Poi al discepolo: «Ecco tua madre!». E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé” (Gv 19,26-27).

Anche qui il testo non si può intendere solamente in riferimento ad un fatto: Gesù che compie un gesto filiale verso la madre. Certo, Gesù ebbe anche tale preoccupazione ma, nel quarto Vangelo, il fatto ha sempre un significato che va oltre il piano della realtà.

Maria è “sposa” ed è “madre”; Gesù è lo “sposo” che le affida il discepolo come “figlio”; la prospettiva è una sponsalità ed una maternità più ampie. Maria, in tal modo, diventa madre di ogni discepolo di suo Figlio, che è lo sposo della nuova Alleanza.

L’Alleanza si compie così progressivamente: a Nazareth, a Cana, al Calvario. E così, in Maria, giunge a pienezza la figura simbolica veterotestamentaria della “figlia di Sion”.

A Nazareth il fiat di Maria richiama le parole dell’Alleanza del Sinai: “Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo!” (Es 19,8). Secondo la stessa logica, a Cana, Maria si rivolge agli inservienti e chiede loro di eseguire le parole di Gesù: “Qualsiasi cosa vi dica, fatela” (Gv 2,5). Infine, ai piedi della croce, al Calvario, la Vergine è presente come sposa.

La presenza, ai piedi della croce, della “donna” (la sposa) e di Giovanni (il discepolo) riveste significati diversi. Maria è salvata da Gesù ed è lì come la madre; Giovanni, a sua volta, è salvato da Gesù che, però, l’affida a Maria, cioè alla donna. Maria, quindi, è la sposa (il volto materno della Chiesa) che, ai piedi della croce, genera e partorisce i discepoli come figli; Giovanni, invece, rappresenta la Chiesa salvata da Gesù.

Qui, Gesù, riferendosi a sua madre, le affida il discepolo: “Ecco tuo figlio” (Gv 19,26). Il riferimento qui è alla predicazione dei profeti che annunciavano il ritorno dei figli di Israele dalla terra dell’esilio alla città santa, Gerusalemme: “Alza gli occhi… guarda: tutti costoro si sono radunati, vengono a te. I tuoi figli vengono da lontano, le tue figlie sono portate in braccio” (Is 60, 4).

Ricordiamo anche le parole di Caifa, sommo sacerdote in quell’anno, che profetizza a proposito di Gesù che “…doveva morire per la nazione; e non soltanto per la nazione, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,51-52). La croce è l’evento in cui i figli dispersi sono riuniti.

La lettera agli Efesini va in tal senso: “…in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani, siete diventati vicini, grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne” (Ef 2,13-14).

Giovanni, ai piedi della croce, rappresenta gli uomini dispersi che, dalla croce di Cristo, vengono riuniti per costituire un solo popolo.

Dopo il venerdì santo c’è la domenica di Pasqua e Gesù, il risorto, incontrerà più volte i discepoli. Nei quattro Vangeli solo Giovanni narra l’apparizione di Gesù sulle rive del lago di Tiberiade (cfr. Gv 21): è Lui, si fa riconoscere, mangia con loro, dialoga a lungo con Pietro, gli conferisce il ministero apostolico nel grado più alto e, quindi, solo in comunione con Pietro ogni altro ministero può venire esercitato.

Nella Chiesa si danno molti ministeri, ma è il primato di Pietro a garantire che la molteplicità si componga nella comunione. La lettera agli Efesini ci ricorda tale pluralità di carismi e ministeri: ”…egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo” (Ef 4,11-12).

Nel dialogo fra Gesù e Pietro si accenna all’apostolo Giovanni, l’unico discepolo presente ai piedi della croce. Giovanni appare circondato da un alone misterioso; si afferma, infatti, per lui, una particolare relazione col tempo e la storia.

Leggiamo nel testo: “Si diffuse tra i fratelli la voce che quel discepolo non sarebbe morto. Gesù però non gli aveva detto che non sarebbe morto, ma: «Se voglio che egli rimanga finché io venga, a te che importa?” (Gv 21,23).

Forse proprio il libro dell’Apocalisse – il cui autore apparterrebbe alla “cerchia” dei profeti di tradizione giovannea – può spiegare l’alone di mistero che circonda Giovanni. Il libro dell’Apocalisse, infatti, tratta del futuro della Chiesa e della storia: “Io, Giovanni, vostro fratello e compagno nella tribolazione, nel regno e nella perseveranza in Gesù, mi trovavo nell’isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù” (Ap 1,9).

L’Apocalisse può essere considerata il libro “aperto” che riguarda il futuro della Chiesa e della storia fino all’ultima manifestazione del Signore. Il libro termina con un’invocazione: “Colui che attesta queste cose dice: «Sì, vengo presto!». Amen. Vieni, Signore Gesù. La grazia del Signore Gesù sia con tutti” (Ap 22,20-21). L’Apocalisse è e rimarrà il libro misterioso e aperto che riguarda il futuro.

Se Maria, nel contesto dell’Alleanza (Dio e popolo) rappresenta – nella sua persona – la Chiesa nella sua totalità, allora dobbiamo chiederci quale rapporto sussista fra mistero “mariano” e ministero ordinato (episcopato, presbiterato, diaconato) in cui alcuni membri del popolo di Dio sono costituiti.

Una prima annotazione riguarda il volto mariano della Chiesa che viene prima della realtà petrina o ministeriale (i singoli ministeri); è necessario far nostra tale visione per non cadere in una comprensione “funzionale” e – in ultima istanza – “maschilista” della Chiesa. A tutti può succedere di pensare ed agire in modo “mondano”, interpretando il ministero e il suo esercizio come dominio, come potere, come affermazione di sé.

Ridurre la Chiesa all’esercizio del ministero significa deturparne il volto mariano, distruggerne il mistero e ridurre tutto a funzionalismo ed efficientismo, ossia – alla fine – ad una lotta per la conquista dei ministeri nelle forme e nei gradi più alti.

Già i Vangeli mettono in guardia da tale pericolo, quando raccontano della richiesta dei figli di Zebedeo. “Voi sapete – è la risposta di Gesù – che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così…” (Mc 10,42-44).

Sul volto mariano della Chiesa un testo da leggere è “Maria. Chiesa nascente” di Joseph Ratzinger e Hans Urs von Balthasar, dove si mette in evidenza come prima del ministero venga il mistero della Chiesa che esprime l’Alleanza di Dio con il suo popolo.

Gesù, lo sposo, e Maria, la sposa, introducono i discepoli nell’Alleanza attraverso il segno dell’acqua che diventa vino e l’adesione di fede: “…egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui” (cfr. Gv 2,11). Al Calvario, invece, ciò avviene attraverso la maternità spirituale di Maria; Gesù, infatti – chiamandola “donna” – le affida Giovanni come figlio e il riferimento è ad Eva, la madre dei viventi (cfr. Gv 19,26).

Solamente dopo essere diventato figlio di Colei che nella sua persona rappresenta la Chiesa, l’apostolo Giovanni – e dopo di lui ogni altro apostolo – sarà finalmente pronto per entrare in modo vero e consono nel ministero apostolico (cfr. Gv 21,15-23). Non si può, quindi, esercitare il ministero se prima non si è entrati a far parte del mistero della Chiesa; in altre parole, prima di esercitare il ministero, i discepoli devono entrare a far parte e far proprio il mistero della Chiesa, comprendendone e vivendone il volto mariano.

La Chiesa è costituita nel principio “mariano” e nel principio “petrino” ed essi, reciprocamente, s’includono e completano; il principio “mariano” è più ampio, viene prima di quello “petrino” che, però, garantisce il principio “mariano”.

Ci aiuta a capire tutto questo un passo del citato testo in cui leggiamo: “Nell’esemplarità di Maria all’interno della Chiesa si celano molte intuizioni e conseguenze importanti… la Chiesa nel suo nucleo di perfezione è da ritenersi femminile… Già la Sinagoga era stata descritta davanti a Dio come fidanzata o sposa. E ugualmente la Chiesa della nuova Alleanza nel suo rapporto con Cristo (cfr. 2 Cor 11,2)… Questa femminilità della Chiesa è comprensività d’ogni cosa, mentre le cariche ministeriali ricoperte dagli apostoli e dai loro successori maschili non sono che pure funzioni all’interno di tale comprensività. Non bisognerebbe dimenticare ciò quando, come oggi, si fanno interminabili discussioni su una eventuale partecipazione della donna al ministero sacerdotale. Vedendo le cose più in profondità, con una conquista del genere la donna finirebbe col rinunciare ad un più per avere un meno” (Joseph Ratzinger, Hans Urs von Balthasar, Maria. Chiesa nascente, Paoline 1981, 55-56).

Maria rappresenta la Chiesa nella sua totalità – fedeli laici, consacrati e ordinati – e ciascuno nella Chiesa è chiamato a portare in sé la dimensione mariana che sempre va custodita e promossa e della quale nessun discepolo può far a meno. Maria, nella sua persona, è il compiersi della “figura simbolica” e “profetica” della figlia di Sion; la vocazione “mariana” è, perciò, di tutti i discepoli.

Nella Chiesa la diversità delle vocazioni, dei carismi, dei ministeri è ricchezza per tutti; il popolo di Dio, però, non è un aggregato indistinto ma un organismo strutturato, un corpo vivente nella sua relazione sorgiva verso Chi dona vita, ossia lo Spirito Santo, il dono pasquale di Cristo, il compimento ultimo dell’Alleanza.

Nell’ecclesiologia di comunione della Costituzione conciliare Lumen gentium tutto nasce dalla comunione con Gesù; è dal suo sacerdozio che si origina il sacerdozio dei battezzati e dei ministri ordinati.

Dobbiamo annunciare e, prima ancora, vivere una Chiesa che promuove le differenti vocazioni all’interno dell’unico mistero ecclesiale senza del quale tutto si ridurrebbe all’esercizio dell’autorità e alla sua ricerca.

A questo punto si pongono alcune domande: come cambia la vita del diacono, del presbitero e del vescovo, nell’esercizio del proprio ministero, in base al principio mariano? In che modo la dimensione mariana della Chiesa contrassegna la vita e il ministero del diacono, del presbitero, del vescovo? Infine: il ministero diaconale, presbiterale ed episcopale come si “interseca” con il ministero petrino?

Domande che, in modi diversi, sono stimolate dai due principi ecclesiologici che interpellano tutti ma in modo particolare chi, nella Chiesa, esercita il ministero. Da solo il principio mariano rischia d’essere una bella ma vuota affermazione teologica che, invece, il principio petrino rende visibile e attuale. Il principio petrino da solo, non sorretto da quello mariano, finisce per “ridurre” il mistero della Chiesa ad una “ministerialità” che ridurrebbe indebitamente l’ampiezza e la profondità del mistero ecclesiale solamente ad una sua parte e, quindi, insufficiente.

La devozione alla Madonna della Salute – che unisce le nostre Chiese – ci chiede di riscoprire l’importanza del mistero della Chiesa e dell’Alleanza, ossia il volto mariano della Chiesa che è un “tutto” rispetto a quello che è solo una parte e viene in un momento successivo, ossia la realtà e l’esercizio del ministero.