Intervento del Patriarca sul tema “Dalla pandemia una nuova coscienza sociale?” alla seconda edizione del convegno “La salute dei cittadini” (Venezia / Scuola Grande di S. Marco, 23 ottobre 2021)
23-10-2021

Seconda edizione del convegno “La salute dei cittadini” sul tema “Innovazione, cura, assistenza nel tempo di pandemia”

(Venezia / Scuola Grande di S. Marco, 23 ottobre 2021)

Intervento del Patriarca Francesco Moraglia

“Dalla pandemia una nuova coscienza sociale?”

 

 

Saluto i presenti e il Comitato Promotore, ringrazio il presidente Paolo Pasini per l’invito. Il tema che mi è stato assegnato è “Dalla pandemia una nuova coscienza sociale?”.

Si tratta, quindi, di ragionare sulla responsabilità sociale in ordine al bene comune, tenendo presente che “le esigenze del bene comune derivano dalle condizioni sociali di ogni epoca e sono strettamente connesse al rispetto e alla promozione integrale della persona e dei suoi diritti fondamentali” (Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa n. 166).

È una questione che tocca e riguarda la persona, le comunità, gli Stati e, oggi in particolare, le istituzioni e gli organismi transnazionali in ambito politico, economico, finanziario, della comunicazione, della tecnoscienza e delle multinazionali, in specie quelle farmaceutiche.

Tali realtà sono coinvolte non più solo in ambito di pace ed equa distribuzione delle risorse ma – e la pandemia ce l’ha mostrato – anche della salute. E tutto ciò richiede l’acquisizione di una nuova coscienza.

La salute è realtà “integrale” e la pandemia, ancora una volta, ce l’ha detto. Vi è la salute fisica, che abbiamo il diritto / dovere di curare sempre e di guarire (fin quando è possibile). E c’è una attenzione doverosa alla profilassi (prevenzione /protezione) ricorrendo a ciò che la medicina indica.

La salute riguarda poi il corpo, l’anima e la psiche perché l’uomo è una totalità dotata d’intelligenza, volontà, sentimento, memoria. Così l’uomo è chiamato a prendersi cura dell’intero microcosmo che lo costituisce, compresa la capacità di relazione. Quante solitudini ha evidenziato la pandemia!

Entra a far parte della “salute” dell’uomo anche la capacità di far maturare la coscienza, la cultura, l’apertura verso Dio grazie alla preghiera, la vita di fede, l’esercizio delle virtù morali e teologali poiché tutto fa parte della salute dell’uomo considerata nella sua “integralità” e che non può essere disattesa per il reale benessere dell’uomo.

La salute dipende da molti fattori ed ha, pure, connotazioni “politiche”; a livello globale pensiamo alla ingiusta distribuzione della ricchezza, alla malnutrizione, alla disponibilità o meno dei medicamenti e dei vaccini e come tutto ciò influisca sulla salute di milioni di uomini, donne e bambini.

La medicina contemporanea è diversa anche da quella di un recente passato, grazie alle nuove possibilità eziologiche e terapeutiche; pensiamo, appunto, agli attuali mezzi oggi spendibili per contrastare la pandemia in atto.

Maggiore conoscenza equivale a maggiore potere. Ecco perché tale avanzamento – risultato della stretta alleanza tra scienza e tecnica – domanda che tutto sia gestito con coscienza e giudizio; in altre parole, in modo etico. E tutto ciò riconoscendo e ponendo l’uomo e il bene comune come riferimenti per l’impegno di ognuno nel proprio ambito.

Il potere, infatti, può essere usato bene o male, per o contro l’uomo. E questo vale oggi, in particolare, nell’ambito della scienza e della tecnica che possono considerare l’uomo, gli esseri viventi e la natura come oggetti da misurare e pesare, in una sorta di cosificazione del tutto. Se così accade, la scienza e la tecnica non solo non progrediscono ma fanno sì che l’umanità venga deturpata e, alla fine, liquidata.

Bisogna ritornare a quello che la saggezza degli antichi denominava aretè, parola greca che indica la capacità di assolvere bene al proprio specifico compito; il latino usa la parola virtus che richiama il valore di chi assolve in modo retto, ossia virtuoso, i propri impegni personali, familiari e professionali in ordine alla vita personale, comunitaria e pubblica.

Oggi di aretè e virtus c’è tanto bisogno. Certo, in passato, la vita era immersa in un contesto che richiamava una realtà invisibile, non materiale, e che, seppure non vista e toccata, rimaneva la più grande, una realtà che oggi pare essere svanita o del tutto trascurata. Al fondo di questa concezione c’era la convinzione che non si vive per caso ma secondo una ragione, un logos e un fine.

L’uomo, quindi, è chiamato a riscoprire il senso delle cose e ad esercitare aretè, ossia la virtus, e così realizzare al meglio il progetto con cui, poi, intervenire sulla stessa realtà.

Ricordo che lo Stato ideale, secondo Platone, è costituito dai sapienti – i filosofi che governano la comunità -, dai guardiani – che hanno il compito di difenderla e mantenerne l’ordine – e, infine, dagli artigiani – che lo devono costruire e far prosperare -. Per adempiere a tutto ciò bisogna guardare alle virtù pertinenti a tali diverse categorie di cittadini: la sapienza (per ben governare), il coraggio (per affrontare i pericoli) e la temperanza (per frenare il desiderio e rispettare il bene comune).

Tali virtù vanno lette nel complesso di ciò che è l’uomo, cercando di equilibrarne le facoltà che – sempre seguendo il pensiero platonico – è fatto di corpo, ragione, pensiero, coraggio ed impulsività, di concupiscenza e desiderio.

Inoltre è necessaria la virtù fondamentale della giustizia, la quale chiede che ognuno faccia al meglio il proprio mestiere e, così, la comunità ne trarrà prezioso vantaggio.

Tutto ciò esige una grande capacità di relazione. Nondimeno è oggi più che mai necessaria una spiccata capacità di ascolto e l’ascolto è arduo anche perché non ci si può limitare a dare la possibilità di esprimere un’opinione o un’impressione.

L’ascolto richiede, soprattutto, di dare la possibilità di far emergere situazioni, motivazioni, paure, le aspirazioni e i sentimenti più profondi di ogni persona. È importante che la persona si senta davvero ascoltata e tenuta in considerazione.

L’idea di aretè / virtus rimanda, perciò, a questa capacità di assolvere bene il proprio compito, esercitando le virtù e formando la libertà umana a partire dalla considerazione che l’uomo è relazione. Solo l’esercizio di tali virtù – che si stagliano sullo sfondo dell’istanza della giustizia – realizza il vero bene comune.

È necessaria la capacità di accogliere il tutto della realtà, rendendoci conto di esserne parte (solo una parte) e ponendoci di fronte alla realtà e agli altri in modo oggettivo. Se così non fosse, se prevalesse il disinteresse, la mancanza di adeguate relazioni sociali e una costante disattenzione per il bene comune, allora si arriverebbe a disattendere una caratteristica antropologica fondamentale che caratterizza l’uomo a livello personale e comunitario.

Ecco perché possiamo parlare dello sviluppo di una nuova coscienza sociale solo se si chiama in causa la “responsabilità” e, come intuiamo, una persona può essere definita “responsabile” se è in grado di compiere azioni e scelte coscienti e libere di cui si assume, appunto, piena responsabilità.

Sappiamo peraltro che la violenza, il timore, la passionalità, il peso delle abitudini e le ferite che segnano le persone – a livello psichico, spirituale ed anche fisico – possono condizionare grandemente la libertà e la responsabilità dei diversi soggetti arrivando a ridurre di molto tale libertà e responsabilità o perfino ad escluderle (quasi) del tutto.

Responsabilità ma anche solidarietà, perché l’uomo è un essere in relazione, un “animale sociale” come già affermava Aristotele. Non siamo mai isole ma un arcipelago e Venezia – di cui ricordiamo, anche attraverso questo convegno, le singolari origini fatte risalire a 1600 anni fa – lo attesta con i suoi 430 ponti che uniscono le 120 isole che la costituiscono.

Ognuno di noi nasce e vive in un contesto preciso – una famiglia, una comunità, una cultura, una società ecc. -; tutti noi siamo frutto di relazioni. Anche nella nostra vita noi riceviamo e diamo ed interagiamo perché il vivere degli uomini è sempre convivere (e qui gli esempi, anche solo nel campo della sanità, potrebbero moltiplicarsi).

Tutto questo porta con sé ed impone diritti e doveri reciproci. “Essere uomo è precisamente essere responsabile”, diceva Antoine de Saint-Exupéry: “La sua grandezza è di sentirsi responsabile. Responsabile di se stesso (…) e dei compagni che sperano, poiché la loro gioia o il loro dolore sono nelle sue mani. Si sente responsabile nei confronti di quanto si va edificando di nuovo laggiù, nel mondo dei vivi, avendo egli il dovere di prendervi parte; e, nei limiti del suo lavoro, si sente un poco responsabile del destino degli uomini (…). Essere uomo significa appunto essere responsabile. Significa provare vergogna in presenza d’una miseria che pur non sembra dipendere da noi. Esser fieri d’una vittoria conseguita dai compagni. Sentire che, posando la propria pietra, si contribuisce a costruire il mondo” (Antoine de Saint-Exupéry, Terra degli uomini, 1939).

Ognuno è responsabile, in rapporto al proprio ruolo e compiti. Questa “responsabilità” non ci abbandona ed esprime una coscienza sociale condivisa. E, in quanto responsabile degli altri, l’uomo è anche e sempre responsabile dinanzi agli altri.

La pandemia ha evidenziato ed accelerato l’imporsi di questioni e domande che la modernità e la postmodernità avevano evidenziato facendo emergere una questione che l’uomo pensava aver già superato e risolto, ossia la presenza di un “io” senza limiti e scevro da ogni fragilità.

Ma limiti e fragilità appartengono all’uomo e, per questo, è essenziale costruire e sostenere nelle persone una rinnovata coscienza sociale e un discernimento condiviso sulla realtà odierna, secondo quell’antropologia e quel concetto di salute “integrale” di cui si è fatto cenno; è una sfida che ci sta dinanzi e che vale la pena di considerare e intraprendere in tutte le sue dimensioni e in tutte le sue sfaccettature.