Intervento del Patriarca alle giornate di studio della Settimana sociale 'Ritornare cittadini oggi nel Nordest in un mondo globalizzato' (9 febbraio 2004)
Pieve di Soligo, 9 febbraio 2004
09-02-2004

DIOCESI DI VITTORIO VENETO
SETTIMANA SOCIALE ‘RITORNARE CITTADINI OGGI NEL NORDEST IN UN MONDO GLOBALIZZATO’

Pieve di Soligo
9 febbraio 2004, ore 20,30

L’IMPEGNO DELLA CHIESA NEL SOCIALE CON LA SUA DOTTRINA E L’AZIONE DEI LAICI

Angelo Card. Scola
Patriarca di Venezia

Una tragica indifferenza?

Qualche giorno dopo i terrificanti attentati dell’11 settembre, lo scrittore americano Richard Ford ha firmato un breve commento sul New York Times dal titolo The way we live now , che risulta ancora oggi di bruciante attualità. L’autore stabilisce un paragone tra l’improvvisa morte per infarto di suo padre – avvenuta tra le sue braccia quando aveva 16 anni – e la morte delle migliaia di persone nelle Twin Towers. Ford afferma che a suo padre era stata tolta la vita, ma il suo morire tra le braccia del figlio aveva in qualche modo salvato la sua personale morte (Rilke). Alle vittime dell’11 settembre, invece, non solo è stata tolta la vita, ma è stata pure rubata la morte. Annota Ford a proposito di quei morti: «il fatto che delle esistenze siano state strappate o, peggio, rubate tanto repentinamente, violentemente, impersonalmente, insensatamente, oscenamente deve impedirci di restare nella posizione di chi, pur conducendo una vita razionale ed operosa, non fa posto alla testimonianza. Se così fosse non solo le loro vite sarebbero perse, le loro morti rubate, ma tutti noi, tutto dell’uomo sarebbe perduto! Tocca a noi, dice, farci carico, aver cura di quelle vite e di quelle morti».
La Vostra Settimana Sociale celebrata in diretta connessione con la grande figura di Giuseppe Toniolo si inscrive in questa prospettiva. Egli ebbe infatti ad affermare: «Noi credenti sentiamo, nel fondo dell’anima, che chi definitivamente recherà a salvamento la società presente, non sarà un diplomatico, un dotto, un eroe, bensì un santo, anzi una società di santi» .
Il titolo proposto per questa lezione di apertura della Settimana Sociale ‘Ritornare cittadini oggi nel Nordest in un mondo globalizzato – L’impegno della Chiesa nel sociale con la sua dottrina e l’azione de laici’ – mette in campo elementi fondamentali per il ripensamento del compito dei fedeli laici nell’ampio ed articolato ambito della societas.
Per farci carico di questa esigenza intendiamo questa sera delineare, sia pur sommariamente, i tratti dell’odierno panorama culturale (Prima parte); per poi mettere in luce la necessità di quell’antropologia adeguata che apre ad un’azione sociale nella prospettiva della Dottrina Sociale della Chiesa (Seconda Parte).

PRIMA PARTE
TRATTI SALIENTI DELL’ODIERNO PANORAMA CULTURALE

1. Res publica e cultura contemporanea

Per proporre una sintetica ricognizione della mentalità odierna circa i problemi connessi alla cosiddetta res publica – ben consapevole del carattere schematico e fin grossolano della mia analisi – intendo alludere, in modo realistico-critico, a tre fattori distintivi dell’odierno panorama culturale.
Dal punto di vista che ci interessa più direttamente – quello dell’azione sociale – un primo elemento s’impone con una notevole forza persuasiva. Mi riferisco alla eclisse di quella concezione adeguata, perché vera, dell’azione umana – e quindi la filosofia morale, la filosofia politica, la filosofia del diritto ‘ per cui ogni azione di ogni uomo deve essere armonicamente tesa a perseguire la ‘vita buona’ di tutto l’uomo e di tutto il popolo, senza dualismi e false separazioni tra dimensione personale e dimensione sociale dell’azione stessa.
Invece, oggi ci troviamo davanti ad un’immagine dell’azione che divide il ‘privato’ dal pubblico, che contrappone l’etica pubblica dall’etica cosiddetta privata, fedele riflesso della divisione esistente fra libertà personale e libertà civile e giuridica. Un’etica pubblica sempre più formale e basata solo sulle norme, dalla quale si esclude, come osserva giustamente MacIntyre, la dimensione della virtù, abbandonata al ‘privato’, al puro arbitrio di un individuo pensato come separato dalla società .
Si produce una dialettica insanabile fra la sfera dell’interesse soggettivo e il campo delle esigenze morali obiettive, creando una artificiosa opposizione tra desiderio e compito, tra volere e dovere .
Facciamo qualche esempio. Nell’ambito della famiglia constatiamo questo dualismo nell’opposizione tra il desiderio di paternità e di maternità, da una parte, e il figlio come soggetto personale capace di autonomia socio-giuridica, dall’altra. Il figlio non viene più considerato come un frutto gratuito dell’amore dei coniugi, bensì come un oggetto sottoposto alla volontà sovrana dei genitori. Sia nella coscienza individuale che nell’immaginario collettivo (come si vede nelle legislazioni approvate dalle democrazie cosiddette avanzate), il figlio ha perso rilevanza. Se non è desiderato si ricorre all’aborto. Se invece esistono problemi per procrearlo, tutto è permesso, purché venga soddisfatto il desiderio soggettivo dei genitori (basti pensare alla fecondazione cosiddetta ‘procreazione medicalmente assistita’ che trasforma il figlio in oggetto di un processo produttivo).
Un secondo esempio è la dicotomia tra economia e diritto. Non è necessario far riferimento al dibattito, particolarmente attuale e presente in tutte le società occidentali, sullo stato di benessere (Welfare), per riconoscere che il rapporto fra diritti ed economia sta attraversando oggi un grave conflitto. Paradossalmente la riduzione sempre più accentuata dei diritti della persona alla sfera dell’individuo, conseguenza di una lettura formalistico-kantiana della regola d’oro «non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te», può spiegare questo conflitto. Sostenere, infatti, i diritti della persona svincolando la libertà di coscienza (che si pretende assoluta) dal suo necessario riferimento alla verità, finisce di fatto col favorire la logica della riduzione di ogni bene in termini di denaro e di mercato, che diventano le chiavi per interpretare qualsiasi desiderio-necessità dell’uomo. In questo contesto, i diritti fondamentali finiscono per essere rilevanti solo in quanto si riferiscono alle necessità alle quali il mercato è in grado di rispondere in termini monetari. Da questo punto di vista, il conflitto fra economia e diritti presuppone un’ulteriore radicalizzazione della dicotomia fra libertà personale e libertà civile, che è a sua volta riflesso della separazione fra pubblico e privato.
Dal punto di vista politico, infine, assistiamo alla dialettica tra forme utopistiche non conclamate (segnate dall’ideologia) ed una sorta di ideologia pragmatica del mercato come modalità di affermazione egoistica dell’io, del proprio gruppo o lobby, della propria nazione, del proprio popolo o della propria zona di influenza mondiale (nord-sud).
Invece l’uomo – in quanto soggetto razionale – tende normalmente ad agire secondo fini e beni precisi, ai quali si sforza di proporzionare i mezzi. L’uomo di per sé – al di là dei suoi limiti e delle sue fragilità – cerca una vita buona.
Senza artificiose separazioni tra privato e pubblico la vita buona ‘ in cui ogni azione umana è ordinata – deve avere di mira, simultaneamente, tutti i comportamenti personali e sociali dell’uomo.
Passiamo al secondo elemento. La separazione indebita tra pubblico e privato trova un forte sostegno nell’ideologia dell’universalismo scientifico oggi assai diffuso nelle società occidentali. I risultati raggiunti dal connubio scienze/tecnologie, nei più svariati campi e a ritmo incalzante, forniscono un giudizio legato alle scienze empiriche che pretende di essere indiscutibile (incontrovertibile) su qualunque aspetto del reale. Per questo io sono solito definire il linguaggio comune a diversi saperi ‘ il cui statuto, ovviamente, è ben differenziato ‘ con la parola universalismo. Qualifico poi il sostantivo, con il suo voluto sapore negativo (-ismo), con l’aggettivo scientifico proprio per indicare l’esclusivo privilegio accordato da tale linguaggio al modello algebrico di misurazione. La sua fortuna – favorita dai processi di globalizzazione nell’economia – è esplosa negli ultimi decenni, per il dominio – a livello della comunicazione – della cosiddetta società delle reti. Nel linguaggio dell’universalismo scientifico lo Zeus (il nuovo dio) dell’algoritmo , attraversando scienze tra loro così disparate, sembra in grado di convincere le masse che, su ogni aspetto del reale, non esiste giudizio che non venga ricondotto al calcolo algebrico, sia esso quello della tavola pitagorica o quello dell’algebra di Boole.
Invece questo universalismo scientifico è radicalmente contestato dall’esperienza elementare dell’uomo. L’amore che mi portano mio padre e mai madre non si può ridurre ad un giudizio di calcolo, non è come 2+2=4, ma è più importante di questo giudizio di calcolo. Chi di noi potrebbe negare che in ambiti decisivi della vita come il bene della persona, della famiglia, della patria, della pace mondiale, dello sviluppo dei popoli non tutti i giudizi sono riconducibili al modello algebraico-matematico?
La conseguenza dell’universalismo scientifico è molto subdola e molto diffusa. È una sorta di imperativo che qualcuno ha definito tecnologico: tutto ciò che si può fare, perché la tecnologia e le scienze lo consentono, si deve fare.
Per quali straordinari meriti l’algoritmo è potuto assurgere al più alto trono dell’Olimpo? Proprio perché fornisce gli elementi-base necessari per formulare simili giudizi ‘universali’, consentendo loro di presentarsi come neutri, svincolati da qualunque criterio di valore ultimamente riferito all’etica e all’antropologia .
Ragionando così è ovvio che divenga inevitabile separare il privato dal pubblico – il pubblico individuerebbe l’ambito dei giudizi forniti dall’universalismo scientifico mentre il privato resterebbe il campo dell’ultimamente a-razionale. Da qui ad esaltare l’equivoco principio pragmatico, purtroppo sempre più acriticamente sbandierato, del ‘vietato vietare’ il passo è assai breve. Chi tenta di opporsi a questo linguaggio viene considerato peggio del celebre tronco cui Aristotele riduceva il negatore del principio di non contraddizione e, se si tratta di gruppi, questi vengono di fatto relegati in una sorta di ‘riserva indiana’.
Dall’imperativo tecnologico nasce uno strano imperativo etico-giuridico: il vietato vietare. Questo riceve ulteriore rinforzo da un altro dato che sfida la nostra identità culturale. Introduco così il terzo elemento della mia analisi.
Mi riferisco alla minaccia portata all’identità della persona da quell’androginismo culturale che è in continua e preoccupante ascesa . Androgino è, per definizione, il mito dell’uomo che ha in sé i due sessi, un essere che racchiude in sé entrambe le potenzialità sessuali. Quando parlo di cultura androgina mi riferisco ad una cultura per la quale la differenza sessuale non è, come tra l’altro sostiene la più avveduta psicologia del profondo, insuperabile ed indeducibile . Al contrario, ogni uomo – si dice – può scegliere a piacimento il proprio sesso o addirittura trascorrere, nell’arco della stessa esistenza, dall’uno all’altro sesso.
Un altro tratto distintivo dell’esperienza umana elementare, quello del rapporto uomo/donna, è così minato alle radici. Per descrivere tale fenomeno, cogliendo così un altro elemento del trend culturale dominante nel nostro tempo, potremmo impiegare – anche correndo il rischio di essere tacciati di moralismo – l’espressione ‘erotismo pervasivo’ . La rivoluzione sessuale ha diffuso a livello delle masse una concezione ed una pratica della sessualità che mescola elementi libertini ad elementi romantici . L’altro, nel suo corpo, viene ridotto a pura macchina per tenere acceso il fuoco del piacere: in tal modo la figura femminile, nel suo essere simbolo eminente dell’Altro, rischia di essere abolita. L’affezione – cioè quella dimensione per cui l’amore modifica il soggetto – è romanticamente trattata come una malattia mortale da cui non si ci può difendere .
Descrivere nei termini detti il quadro della cultura in cui siamo immersi non significa in nessun modo indulgere a moralismi pessimistici né, tanto meno, perderci nello sterile rimpianto di epoche passate, acriticamente considerate migliori solo perché passate. È soltanto realismo.

In conclusione possiamo chiederci: a quali risultati conduce un tale panorama culturale? La sfera del ‘pubblico’ finisce per coincidere con una società civile costruita su pure convenzioni formali, sempre più dominata da uno Stato inteso come il motore che ne garantisce l’efficace funzionamento mediante il moltiplicarsi asfissiante di norme, concepite more geometrico, che in realtà denunciano un vuoto di contenuti. Tutto ciò che non rientra in questa sfera anche se ha una forte rilevanza sociale è trattato privatisticamente. Semplicemente non conta. La stessa famiglia è ridotta ad una joint-venture di carattere privato.
Questo rischia di essere l’esatto contrario di quella democrazia sostanziale che la Dottrina sociale della Chiesa giudica irrinunciabile.
Che posto hanno, qui, le persone, i soggetti ed i corpi intermedi?

2. L’urgenza: il riscatto della persona

Cosa emerge da questo quadro? Proverò a formularlo con un interrogativo che poi cercherò di illustrare. Non viene forse riproposta, in campo sociale, l’equivoca riduzione, propria delle scienze moderne, che impone, in nome di un’impossibile neutra oggettività, l’esclusione del soggetto? E questo con tutti i problemi che ne derivano, non ultimi quelli tipici dello scontro tra le ideologie i cui risultati nefandi sono sotto gli occhi di tutti.
A ben vedere, infatti, tanto l’universalismo scientifico quanto l’androginismo culturale, amalgamati da quella potente colla che è la riduzione dell’etica a politica, così come viene vissuta nella separazione radicale tra pubblico e privato, sono accomunati da una drammatica esclusione del soggetto. È questo singolo uomo, concretamente esistente in una comunità, ad essere sacrificato.
Quando parlo di soggetto lo intendo come persona e come comunità ai suoi vari livelli: da quello primario della famiglia, alle forme più elementari di comunità civile per passare a quelle nazionali e giungere fino all’organizzazione di un qualche governo mondiale (la cui esigenza, in questo nostro tragico inizio di millennio, è fortemente sentita, anche se è ben lontana dall’aver trovato adeguata realizzazione).
Il Magistero della Chiesa, ha sviluppato il suo pensiero sociale – nella linea dell’economia della salvezza e della redenzione operata da Cristo in favore dell’uomo ‘ opponendo alla tesi che giunse nel post-moderno a parlare di morte del soggetto quella della promozione della ‘persona’. Nel delineare un’antropologia, individua l’uomo non nella realtà generica di ‘natura umana’, ma in quella specifica ed esistenziale di persona concreta in relazione con gli altri, che sempre agisce dentro una comunione di ‘valori’, connessi alla condizione umana e alla civiltà.
Il discorso sociale della Chiesa giunge ad affermare quei principi che ispirano un assetto politico-economico che tiene conto del fatto che «’l’uomo è la prima via che la Chiesa deve percorrere nel compimento della sua missione» (CA 53 ‘ RH 13).
Il carattere sociale dell’uomo, non viene definito prioritariamente dal suo inserimento nello Stato, che non è l’espressione originale del sociale nell’esperienza umana, ma dalla natura stessa dell’uomo, dove trovano il loro contesto naturale i principi di sussidiarietà e di solidarietà (CCC 1883), riferiti ai diritti fondamentali della persona, considerata come individuo in relazione.
Per il pensiero sociale cristiano l’errore di fondo sta nel non vedere che la politica, l’economia, l’organizzazione sociale domandano, prima ancora che un’etica, un’antropologia. Non possono fare a meno di una concezione dell’uomo e della comunità sociale. L’etica, infatti, si dà solo dentro un’antropologia ed un’antropologia adeguata. Pertanto gli attori sociali non si possono limitare a costruire dal basso un quadro convenzionale di regole di comportamento agile e rispettoso delle libertà individuali e sociali, delle sensibilità culturali, delle peculiarità religiose di uomini e di popoli . Devono mirare ad una antropologia adeguata. Il Servo di Dio Giuseppe Toniolo l’ha profeticamente affermato con tutta la sua vita prima ancora che nei suoi numerosi scritti. È in questo quadro che si inscrive l’azione sociale del fedele laico. Per approfondirne i fondamenti dobbiamo anzitutto tracciare molto sommariamente le linee di una antropologia adeguata.

SECONDA PARTE
UN’ANTROPOLOGIA ADEGUATA

Una buona antropologia, come scienza (sapere di ‘secondo grado’), poggia sull’esperienza umana elementare. Quando parlo di esperienza umana elementare mi riferisco ad un dato che accomuna l’uomo di ogni tempo, a qualcosa di ben riconoscibile ‘sulla propria pelle’ da parte di ogni persona. Il fatto che tale esperienza non sia normalmente tematizzata, non significa che, sentendola descrivere, non si possa riconoscerla come vera. Così è proprio l’esperienza elementare a fornirci le categorie portanti di quella che possiamo denominare un’antropologia adeguata. Il senso dell’aggettivo adeguata riferito all’antropologia sta ad indicare una visione critica dell’uomo, un tentativo di risposta alla domanda «ed io che sono?» formulata da Leopardi, in modo ineguagliabile, nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Qui la geniale scelta del pronome neutro ‘che’, mostrando il nesso che l’uomo intrattiene con tutta la realtà, rivela che la domanda aperta è, simultaneamente, una domanda antropologica, cosmologica ed ontologica. E per i cristiani ovviamente soprannaturale e teologica, come diceva Toniolo.
In questa sede non possiamo ovviamente descrivere i lineamenti di quella antropologia che è alla base della Dottrina Sociale della Chiesa. Ci limitiamo a fare qualche notazione preliminare.

1. Un’antropologia drammatica

Il primo dato con cui dobbiamo a fare i conti è il fatto che sempre l’uomo riflette sulla propria essenza ‘ cioè elabora un’antropologia – dall’interno della propria esistenza. Ogni uomo, infatti, quando riflette su di sé, è già sulla scena del gran teatro del mondo . Sul palcoscenico della vita l’io può interrogarsi sulla sua natura solo dall’interno della trama che già si sta svolgendo. Per questo – azione, viene dalla radice greca drao – un’antropologia può essere solo drammatica (non tragica!) .

2. Le polarità costitutive

Dove si attesta il carattere drammatico dell’antropologia adeguata? Il teologo svizzero Hans Urs von Balthasar, sulla scia di quanto afferma Gaston Fessard, lo individua in quelle che chiama le polarità costitutive . L’esistenza concreta di ogni uomo si presenta sempre segnata dalla triplice polarità di anima-corpo, uomo-donna, individuo-comunità. Non esiste uomo e non esiste donna sulla faccia della terra che non sperimenti, da quando viene alla luce fino alla morte, la natura drammatica del suo io attraverso queste tre dimensioni costitutive. Faccio notare che queste polarità (dramma) individuano una unità duale e non invece una dualità unificata. Le tre polarità non pregiudicano l’indissolubile unità dell’io (mi riferisco a quello che i classici chiamavano la dottrina del sinolo ).
Semplificando all’estremo si può dire che il cuore dell’antropologia adeguata è in un certo senso molto semplice (elementare, appunto!) ed è il seguente: ogni uomo ogni giorno gioca la propria libertà in ogni circostanza ed in ogni rapporto, all’interno delle due ineliminabili coordinate degli affetti e del lavoro. Proprio attraverso il concatenarsi delle polarità costitutive (anima-corpo, uomo-donna, individuo-comunità), egli scopre il posto dell’altro nella sua vita. L’altro non gli è puramente esterno ma è, in un certo senso, anche interno al proprio io. Infatti l’altro, senza cessare di essere altro, è in qualche modo originariamente implicato dall’io. (Basti pensare al peso che ha per me il come i miei genitori mi hanno desiderato, concepito, aspettato prima che nascessi!). L’alterità dice relazione. Soprattutto dice una relazione che non teme la differenza. La differenza è sempre un positivo. I Tre che sono l’unico Dio non rivelano forse il positivo assoluto della differenza? Qui la Dottrina Sociale si rivela addirittura ancorata alla Trinità. In questa interezza sta la profonda genialità del pensiero sociale cristiano.

3. Le vie della proposta cristiana

Chiediamoci allora: con quali modalità i cristiani come singoli e come comunità sono oggi chiamati a comunicare il fascino di questa esperienza umana elementare che Gesù Cristo compie (GS 22)? La verità del pensiero sociale della Chiesa, infatti, non può essere ultimamente documentata che dalla sua capacità di generare persone e comunità rinnovate. E lo può fare solo attraverso la testimonianza dei cristiani. Questa è la possibilità reale che l’eredità della fede cristiana – anche come è stata culturalmente espressa nella nostra società – sia effettivamente consegnata alle generazioni future.
Vorrei ora accennare a due contenuti a mio giudizio oggi più che mai essenziali di questa testimonianza nella cultura odierna. Essi a mio parere possono offrire una valida risposta alla mentalità dominante descritta all’inizio. Il primo si situa a livello strettamente antropologico, il secondo a livello socio-politico.

a) A livello antropologico: la bellezza del mistero nuziale

Di particolare importanza mi sembra il richiamo, che il Magistero della Chiesa non si stanca mai di riproporre, a riconoscere integralmente il mistero dell’amore umano nell’indissolubile intreccio costitutivo di differenza sessuale, amore come dono di sé e vita (procreazione). Tale mistero viene illuminato e si compie nel sacramento del matrimonio e nella famiglia aperta alla vita che ne deriva.
In che modo cogliere, sinteticamente, i termini di tale ‘mistero nuziale’? Ognuno di noi, uno di anima e di corpo, nella propria differenza sessuale si riconosce strutturalmente orientato all’altro modo, irraggiungibile rispetto al suo, di realizzare l’identità umana (quello femminile se è maschio e quello maschile se è femmina). Quale altro obiettivo significato potrebbe avere questa unità duale di uomo e di donna che, per la differenza sessuale, si attesta in ogni singolo, se non quello di rivelare lo strutturale carattere autodonativo di ogni persona? Così per il mistero nuziale ognuno di noi è spontaneamente orientato a comunicarsi all’altro nel dono di sé. Anzi, ognuno di noi si compie proprio in questo dono di sé. Per l’uomo poi che è uno di anima e di corpo, tale dono non può non tendere a generare vita.
I rapporti di cui è intessuta la nostra vita trovano allora, nel mistero nuziale che si realizza nelle famiglie cristiane, la più alta possibilità di educazione dell’uomo, nelle due dimensioni costitutive degli affetti e del lavoro. Il fedele laico attuando responsabilmente la dimensione nuziale della propria persona realizza una solida alternativa alla cultura dominante dell’androginismo e dell”erotismo pervasivo’. Nello stesso tempo afferma la bellezza densa di rilevanza sociale, della famiglia fondata sul matrimonio stabile ed indissolubile ed aperta alla vita.

b) A livello socio-politico: un civis universale

Il contenuto della proposta cristiana nella cultura di ogni giorno, a livello socio-politico, consiste nel riproporre con forza l’ideale concretissimo della vita buona. Charles Péguy, nel suo stile inconfondibile, afferma che i cristiani sono «i più civici fra gli uomini (…), eredi degli antichi civici, universalmente, eternamente civici» . Anche – e, forse soprattutto, in Occidente – si tratta di mostrare la fecondità dell’esperienza della fede del popolo di Dio per l’edificazione di una società civile in cui le differenze non siano solo tollerate, ma sinfonicamente valorizzate. Ciò sarà impossibile senza mettere in conto la virtù della fortezza.
Infatti, l’ideale di edificazione della polis è perseguire quella vita buona simultaneamente esigita dal singolo e dalla comunità senza artificiose separazioni tra pubblico e privato. Questa visione riconosce l’insuperabile polarità tra persona e comunità, tra individuo e società. Non si può dunque partire dall’individuo e dalla società come da due elementi separati, da ricomporre poi in unità. Così facendo non sarebbe possibile né riconoscere la persona né edificare la società. La dimensione comunitaria (sociale) è, infatti, interna all’io.
Il cristianesimo integra la nozione di cittadino con quella di persona (espressione di libertà e, nello stesso tempo, soggetto di rapporto, di relazione). Individuo e comunità sono così trattenuti all’interno dell’originaria unità duale a partire da una concezione di persona come essere comunionale e sociale artefice di ‘questa’ cultura e di ‘questa’ civiltà: «non si tratta mai dell’uomo astratto, ma dell’uomo sempre reale, concreto, storico» . Lo Stato, in quest’ottica, accetta di esistere in funzione della società civile animata dalla pluriformità dei corpi intermedi.
Da questa visione del civis scaturisce un quadro di riferimento per pensare all’impegno politico del fedele laico.
Il primo fattore distintivo della moralità dell’azione politica e del potere esercitato dalle istituzioni statali possiede un carattere paradossale. L’azione politica e il potere delle istituzioni hanno dei precisi limiti. L’affermazione di Cristo: «Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mt 22, 21) rappresenta, in quest’ottica, la più potente demitizzazione del potere politico mai sollevata nella storia. Il potere politico e dello Stato non è sacrale e quindi non è onnipotente. Con la distinzione del divino da Cesare, la fede cristiana ha indicato all’ambito del potere politico il suo limite intrinseco: nessun potere politico può abbracciare tutta la speranza umana. In tal modo si afferma, indirettamente, la dignità della persona fondata nella sua capacità di trascendenza. Essa non deriva da alcun potere politico e da alcuna istituzione.
Questo positivo ridimensionamento è reso possibile dal cristianesimo in quanto, fondandosi sulla promessa del compimento escatologico del regno di Dio, protegge l’impegno politico dal mito di una società perfetta. Dove la fede rinuncia (o è impedita) ad esercitare questa coscienza critica della politica è facile notare l’insinuarsi di una mentalità che può essere definita utopica, che del resto ha ampiamente dominato tragicamente anche nel nostro secolo.
Il tragico scrittore Ceronetti lo riconosce a proposito del contagio degli uomini-bomba che sta investendo ormai tutto il mondo: «Finché tiene la discussa, la rudemente franta scheletratura cristiana che soggiace a tutto quanto diciamo Occidente, il terrorista suicida resterà qui uno di fuori, il contagio non attecchirà. Cautela nel demolire le immunità superstiti» .
Per concludere, tornando al tema dell’azione sociale del cristiano, possiamo dire sinteticamente quanto segue: in politica ‘ nazionale e internazionale -, in campo educativo, nelle questioni legate al matrimonio, alla famiglia e alla vita, nella società civile come nel mercato, nel mondo dell’emarginazione e della povertà’ in sintesi, dentro tutta la realtà i laici, illuminati dal giudizio di fede, possono concorre all’edificazione di una societas a misura d’uomo. E, lo abbiamo già detto, la misura dell’uomo è Cristo.
Una tale possibilità è data ‘ innanzitutto come dono di cui essere grati ‘ dall’appartenenza ecclesiale, fondata su un fatto di popolo che articola materialmente in forme di vita l’esperienza neo-testamentaria della comunione a partire dai sacramenti, in particolare dal Battesimo. In quest’appartenenza, caratteristica della comunità cristiana, i legami interpersonali sono segnati dall’incontro con Cristo e, per questo, tendenzialmente al riparo da ogni riduzione ideologica.
Non sarà inutile notare, a questo proposito, che l’indebolirsi, nelle nostre comunità, del senso dell’appartenenza spiega perché il soggetto ecclesiale vada sempre più perdendo la propria radicazione nella società civile – e con ciò la sua natura popolare – e tenda ad articolarsi come soggetto separato, quasi una contro-società. Una Chiesa come soggetto separato produce la figura del cristiano militante (senza enfatizzare la critica ormai nota alla categoria di militanza). Il soggetto militante elabora strategie e cerca tecniche efficaci per riprendere il nesso con la società da cui, forse senza accorgersi, si era appunto separato, come uno che taglia dall’albero il ramo su cui sta seduto. E la logica non cambia se la strategia militante sceglie la strada trionfalistica piuttosto che quella della diaspora. La domanda da porsi è: la missione potrà mai venire dalla militanza?

Che fare allora? La proposta è affascinante, ma radicalmente impegnativa: si tratta di rigenerare il popolo di Dio attraverso la paziente educazione all’esperienza cristiana integrale, così da rendere ogni persona, in quanto parte di questo popolo santo, soggetto in grado di incarnare la Chiesa, ambito della nuova vita dell’uomo, negli «ambienti dell’umana esistenza» .
Vorrei accennare a tre condizioni imposte da questo compito:

a) Mostrare nei fatti quanto sia perniciosa la tendenza, oggi purtroppo assai diffusa, a disincarnare l’esperienza cristiana, confondendola con una delle tante e sempre più diffuse forme di generico spiritualismo. Invece se non incide sulle due dimensioni elementari della esistenza umana – affetti e lavoro ‘ il cristianesimo viene inesorabilmente ridotto ad essere un optional. Qualcosa che sta a lato della vita e, come tale, facilmente esposto ad essere giudicato inutile e gettato via.
b) La seconda condizione consiste nella disponibilità a lasciarci educare («erunt semper docibiles Dei») per educare coloro che ci sono affidati alla testimonianza, e non alla militanza. Dalla militanza viene la strategia – che può essere massimalista o minimalista – dalla testimonianza la missione. Cioè il gratuito e spontaneo comunicarsi di una vita cambiata per grazia. In quest’ottica il soggetto, personale e comunitario, non può mai essere separato dalla missione, perché sperimenta che, nell’umanissima esperienza cristiana, desiderio e compito, volere e dovere, non si elidono ma si integrano.
c) Terza condizione: il soggetto cristiano – così come abbiamo tentato di descriverlo – non teme di porsi in modo esplicito in tutti gli ambienti e situazioni di vita, in tutte le circostanze ed in tutti i rapporti – il cui spessore sacramentale non sarà mai sottolineato a sufficienza – come comunicatore del dono straordinario dell’incontro con Cristo. Egli perciò è teso ad investire, con la forza di novità scaturita da tale incontro, tutti i processi culturali e sociali. Ovviamente cercherà di indagarli con la massima criticità possibile senza però cadere nel vizio, tanto radicato nell’intelligenza dell’Europa occidentale, di stimare la critica più della creatività (poièsis), perdendo il gusto di cogliere e comunicare la res. Il cristiano si rapporta a persone, organismi ed istituzioni senza complessi, ma con parresia e genuina baldanza. La baldanza, magari ingenua, di chi ha trovato il tesoro della famosa parabola evangelica (Mt 13, 44) e vuole che tutti prendano parte alla sua gioia. E la gioia è fonte di speranza certa per sé e per tutti i fratelli uomini.