Intervento del Patriarca all'Assemblea diocesana dei Gruppi di Ascolto (Istituto Salesiano S. Marco - Mestre, 25 febbraio 2017)
25-02-2017

Assemblea diocesana dei Gruppi di Ascolto

(Istituto Salesiano S. Marco – Mestre, 25 febbraio 2017)

Intervento del Patriarca Francesco Moraglia[1]

 

 

Ringraziamo, intanto, don Lucio Cilia per le cose che ci ha ricordato e che ha approfondito. Ascoltando con attenzione le cose dette e il dialogo svolto in quest’assemblea, io mi sentirei di mettere in evidenza almeno un punto.

È sempre fondamentale – in quello che noi facciamo – porsi una domanda: perché la faccio? Qual è lo scopo, qual è il fine? Anche noi, forse, in modo molto sintetico, dobbiamo chiederci: perché ci incontriamo come Gruppi di Ascolto (GdA)? Cosa ci proponiamo?

Ho sentito parlare bene, con dovizie di particolari, anche del metodo. Il metodo è la casa, è fatto da ruoli di persone che ospitano, che visitano, che animano… La domanda è: come facciamo a far funzionare il metodo? Qual è l’ “anima” del metodo, al di là dei ruoli e del luogo? Ebbene, chi fa funzionare il metodo dei GdA sono sempre i singoli.

C’è un “edificio spirituale” nella Chiesa e abbiamo sentito dei nomi che possiamo leggere nelle lettere di San Paolo, nomi di uomini e donne. La Chiesa di Roma e di Corinto sono quelle persone, quei nomi.

Io mi chiedo: come si può leggere un libro della Bibbia? In mille modi. Mi ricordo, ad esempio, che uno degli amici più grandi di Nietzsche – Franz Overbech – ha insegnato teologia protestante a Basilea pur essendo completamente ateo. Ci sono delle persone che tengono sulla scrivania la Scrittura e non sono credenti, ma trovano magari nella Scrittura libri come il Qoelet che hanno una sapienza umana riconosciuta ben al di fuori della Chiesa.

Il punto fondamentale, qui, è la lectio divina. E la lectio va preparata non solo nei suoi “momenti”, a seconda delle diverse metodologie della lectio divina. Qui, ad esempio, si è parlato di leggere, scrutare, lodare, supplicare… Bisogna però tenere conto che quando io entro nel gruppo lo faccio con la mia storia, con quello che ho fatto e non ho fatto.

Credo, quindi, che sia molto importante legare la missionarietà all’atteggiamento di ascolto. Vi faccio degli esempi: la regola di San Benedetto inizia con “Ascolta, o figlio”; la vicenda del profeta Samuele nell’Antico Testamento inizia con un invito: “Se sentirai di nuovo quella voce, dì: parla o Signore perché il tuo servo ti ascolta”; San Francesco apre il Vangelo e per tre volte cade sul discorso: “Vendi tutto quello che possiedi e donalo ai poveri”; Sant’Antonio Abate apre il Nuovo Testamento: “Vendi tutto e seguimi”; Sant’Agostino dice: sento una voce, ma non nelle orge…

L’atteggiamento è questo: quando noi ascoltiamo la Parola di Dio, l’ascoltiamo come la può ascoltare e spiegare un professore di esegesi biblica? O è la Parola che cambia la nostra vita? Perché questo diventa fondamentale.

Al di là della metodologia molto concreta di comunicazione e del fatto che certamente l’esperienza va sempre meglio coordinata, è la spiritualità che dice il metodo. Alla fine: perché facciamo i GdA? Li facciamo con uno spirito missionario? Perché è quest’ultimo che rigenera il gruppo stesso!

Io sono molto contento se nascono gruppi di giovani ma va molto bene anche se c’è una presenza di età differente – intergenerazionale – nei gruppi. E questo richiede una saggezza, un fare in modo che l’altro si trovi a proprio agio… Uno viene, partecipa ed è invogliato a rimanere.

Credo che questa formula dei GdA – di cui dobbiamo ringraziare sempre il Patriarca Marco – sia ancora attuale ma non debba essere una struttura rigida. Il vetro è durissimo, ma proprio per questo è fragile e le strutture rigide prima o poi si rompono. Noi dobbiamo avere un metodo che si radichi su alcuni punti, che sono stati presentati bene, e poi va tenuta presente anche una certa elasticità nel gestire il metodo, una certa duttilità nel capire – ad esempio – come agire se si tratta di un gruppo appena nato o di un gruppo che cammina da tanti anni o che si ritrova in una determinata zona della diocesi… Al di là del riconoscersi in un minimo comune denominatore, ci può essere poi anche una conduzione locale che non si distacca dalla visione di comunione ma che rende – direi – più “familiare” e soprattutto aperto l’ascolto della Parola di Dio.

Io mi fermerei su questi due punti e vi lascerei, quindi, due domande: Come io personalmente e come il mio gruppo ascolta la Parola di Dio? E ancora: qual è il fine che io e il mio gruppo, di fatto, ci diamo quando ci incontriamo?

Capisco bene che è già laborioso trovare una casa disponibile e non è da sottovalutare il fatto di riuscire a trovare persone che guidano l’incontro, che visitano, che ospitano ma… il fine è solo trovare queste “condizioni per” oppure il gruppo è aperto ed è finalizzato a portare quella Parola che è stata meditata, riflettuta, pensata e sulla quale abbiamo fatto l’esame di coscienza (per usare i vari passaggi della lectio divina)? Uso questa immagine: se noi vogliamo costruire una barca – il che è faticoso… – dobbiamo avere la passione del mare. Ma una barca si costruisce per navigare, non per metterla in porto.

Sottolineerei, dunque, questo aspetto: GdA e missionarietà. A livello dei singoli membri – che vivono animano, costituiscono il gruppo (con quei nomi, quei volti, quelle storie…) –- e poi, al di là dei singoli, il nostro gruppo concreto: cosa può fare per rigenerarsi, per vivere la missionarietà, per trovare anche degli spazi in cui quella Parola ci provochi?

Le virtù, sapete, vanno sempre insieme. I santi, perché avevano una carità più grande della nostra? Perché sapevano fare cose che noi non sappiamo fare? Perché, piuttosto, avevano una fede più grande della nostra! E allora bisogna che quella Parola ci provochi, ci stani, ci tiri fuori. Se credi non puoi continuare a non vedere, a non sentire, a non parlare. La missionarietà nasce dal fatto che io sono toccato interiormente da quella Parola.

Per questo ritengo importante chiedersi: io come vado al gruppo? E ritengo importante il momento “iniziale”. Si può leggere un testo della Scrittura come una scuola parrocchiale di catechesi, come chi frequenta l’Istituto di Scienze Religiose, come la leggono al Biblico a Roma… Ci dev’essere, dunque, uno specifico vostro (dei GdA) e lo specifico vostro è quello della Parola che cambia la vita. Alla fine di un incontro io dovrei uscire avendo in mente – a livello personale e comunitario – uno stile di vita e determinate scelte che non avrei avuto prima. Da qui si genera quella missionarietà che non è una vuota parola e neanche l’applicazione di un metodo materiale ma è – come dice il Papa quando parla dell’evangelizzazione – una missionarietà per “irradiazione”.

Vi è mai capitato – penso di sì, più volte – di vedere una persona e dire: “Che bella persona!”. Magari ha i capelli bianchi e le rughe, magari è un po’ storta ma si rimane colpiti perché, appunto, è “una bella persona”! La fede ci deve rendere delle “belle persone”. Noi dobbiamo riscoprire – con molta umiltà – questo animus e questa finalità.

Ci sono, dicevo, tanti modi di approcciare la Parola di Dio. Noi dobbiamo trovare, difendere e dilatare lo specifico dei GdA. Perché, allora, in questa prospettiva ci si irradia.

È chiaro, poi, che si possono fare gli avvisi diocesani – io credo che sia un bene richiamare queste realtà anche nella comunità parrocchiale – però penso che molto del GdA dipenda da questa originalità dell’ascolto della Parola di Dio, che non è mai supponenza o un volersi distinguere dagli altri. E, dato che la Parola di Dio ha una ricchezza così ampia e infinita, emerga questo modo primario di ascoltare la Parola di Dio a beneficio della conversione nostra, personale, e del nostro gruppo. Vi consiglio, quindi, di verificare come assumere sempre più questa peculiarità – che appartiene già alla storia dei GdA nella nostra Diocesi – e che può donare una carica notevole.

Se poi ci sono esperienze di gruppi di giovani e c’è qualche guida e animatore capace di suscitarli… benissimo! Non escluderei però ed anzi evidenzierei anche – come è stato detto da alcuni – la possibilità di un ascolto che attraversa le generazioni, perché credo che questo sia il modo migliore di educare i nostri giovani, inserendoli in una comunità nella quale chi ha qualche anno di più testimonia la propria fede.

L’ultima cosa che vi dico è quella di fare attenzione all’autoreferenzialità, al guardare solo se stessi. Una Chiesa che non sa più parlare agli altri di Gesù Cristo è una Chiesa che ha dei problemi perché la Chiesa è finalizzata esclusivamente a essere segno efficace di Gesù Cristo. E, allora, il nostro gruppo non può non avere questa spinta missionaria e non deve ripiegarsi su se stesso.

I GdA devono allora salvaguardare sempre più la loro specificità, perché questo è ciò che mantiene “giovane” un gruppo, ed anche quella elasticità del metodo a cui si faceva riferimento precedentemente. Dove elasticità non vuol dire distaccarsi da quello che è la linea generale diocesana ma è ciò che ci permette di arricchirci e di essere più umani (ovvero aderenti alla realtà) e, quindi, che vale la pena ricercare ed esprimere.

[1] Il testo qui riportato, non rivisto dall’autore, mantiene il tono informale e di conversazione dell’intervento.