Intervento del Patriarca all'Assemblea diocesana dei catechisti (Zelarino, 16 aprile 2016) sul tema “Catechisti: una comunità di discepoli che vivono con Gesù”
16-04-2016

Assemblea diocesana dei catechisti (Zelarino, 16 aprile 2016)

“Catechisti: una comunità di discepoli che vivono con Gesù”

Intervento del Patriarca mons. Francesco Moraglia[1]

 

 

In un contesto come quello in cui viviamo o siamo in grado di dare le ragioni della nostra fede oppure, di volta in volta, saremo condotti dove l’interlocutore, la rivista, il programma televisivo, la rete… ci vorranno condurre.

 

Su questo punto si inserisce il tema dei “contenuti” della fede e della catechesi. Molte volte nel nostro mondo teologico-catechistico-ecclesiale esistono “slogan”, ossia parole molto usate – in senso positivo o negativo – che, in se stesse, risultano bisognose di chiarimenti.

 

La fede è incontro con Qualcuno: la storia reale e concreta di Gesù di Nazareth. Più si cresce nella vita di fede e più si capisce che la fede di per sé è semplice; si dà un “punto” che spiega il tutto e poi da ogni “punto periferico” è possibile raggiungere il centro, l’unità. Se non si incontra questo Qualcuno – la sua storia, il suo modo di essere uomo, di rapportarsi a Dio, di stare in mezzo ai fratelli, di valutare la quotidianità, quello che per Lui era bene o era male… -, se tutto ciò non esiste, la fede a cosa si riduce? All’incontro con me stesso…

 

Ognuno di noi appartiene a qualcuno o, purtroppo, a qualcosa. E i nostri ragazzi… a chi appartengono? A chi se li prende per primo! Chiediamoci come mai le grandi catene distributive di qualsiasi tipo destinano cifre ingenti alla promozione dei loro prodotti? Alcuni brevi “consigli” per gli acquisti (come oggi si ama dire) meriterebbero l’Oscar per come sono curati (musiche, suoni, immagine, tematiche…) e in 20 o 30 secondi ci danno una lezione di vita, ci dicono quello che conta e quello che non conta…

 

Ora, non esiste una realtà neutra. Sarebbe interessante, una volta, poter parlare in modo organico del tema dell’educazione, ossia trasmettere i valori, per noi trasmettere Qualcuno. Noi e la nostra società, con la sua cultura dominante e pervasiva, viaggiamo sempre insieme, siamo vasi comunicanti…

 

La nostra società, oggi, non genera più; è un fatto incontrovertibile, sotto gli occhi di tutti. In tale prospettiva non dobbiamo stupirci più di tanto se una tale società – non capace di generare – non sia neppure capace d’educare; c’è infatti un rapporto strettissimo fra generazione ed educazione. Ripeto, una società che non sa generare è una società incapace di educare e la cosa non deve sorprendere. Comunque, come abbiamo detto, la neutralità non esiste; anzi, spesso, chi dice di ragionare con la sua testa è proprio chi, di fatto, ragiona di più “a comando” altrui.

 

Si tratta, allora, di decidere se si appartiene a Gesù; se si risponde affermativamente, allora diciamo di appartenere – anche se dicendo questo gli facciamo un torto… – a una “buona umanità”, perché Lui esprime un progetto umano ed ha un progetto umano su di noi.

 

L’espressione “evangelizzazione e promozione umana” vuol fotografare, in modo sintetico, il tutto ma in realtà l’evangelizzazione – e ne dobbiamo essere convinti – è già promozione umana. Nel momento in cui evangelizzo io “suscito” l’umano.

 

Facciamo un esempio: una persona ha un brutto carattere, è risentito con un amico e non lo saluta. Lo mando dallo psicologo, confidando che lo psicologo riesca a ricostruirlo sul piano relazionale. Poi gli dico: andiamo anche avanti sul piano cristiano… Se io entro in dialogo spirituale e cristiano con questa persona e gli spiego che cos’è il saluto secondo il Vangelo – ricordate? «Se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?» (Mt 5, 42) -, se io riesco a interpellare la libertà di questa persona e a farle comprendere l’incongruenza cristiana di questo atteggiamento, io l’ho “ricostruito” anche sul piano umano e questa non è cosa di poco conto.

 

La nostra realtà è vivere il Battesimo. Dobbiamo inscrivere la nostra vita nella vita di Gesù. Il momento sacramentale-celebrativo è finalizzato a questo: inscrivere Lui in me e questo rapporto con Gesù Cristo è fondamentale e indica, appunto, la soluzione alla “questione cristiana”.

 

Sono convinto che lo spessore del teologo nasca dalla spiritualità dell’uomo; per esempio, fra la teologia di Bultmann e quella di Barth – al di là dell’apparato critico e delle cognizioni dei due – c’è la “scelta spirituale” di Bultmann e di Barth… La teologia viene dopo, come “tecnica” (qui si usa il termine in senso riduttivo), come apparato critico, come documentazione, come cultura. Ci sono invece delle scelte strategiche, come quella del rapporto personale con Cristo. Questo è il punto fondante.

 

“Quando perdiamo il rapporto con Cristo… ci finisce per interessare la tecnica”: sì, è proprio così. Anche i teologi – non solo i catechisti – hanno tali momenti di crisi e più si perde il rapporto personale con Gesù Cristo, più si diventava dei “tecnici”, preoccupati del “metodo”; allora, prende il sopravvento il mezzo (la metodologia) sul fine, ovvero darti e dirti Gesù Cristo.

 

In questa prospettiva, una cosa deve risaltare con chiarezza: noi dobbiamo costruire, sempre di più e sempre meglio, la comunità dei catechisti. Non si entra una volta per sempre nella “casta” dei catechisti. Dobbiamo, piuttosto, trovare i modi per far crescere la comunità dei catechisti.

 

Il mandato, ad esempio, è qualcosa di essenziale che dice l’ecclesialità del vostro compito, del vostro “servizio”. Il mandato dice che voi appartenete alla Chiesa e avete un rapporto diretto con il Vescovo e la pastorale è della Chiesa locale. Nella lettera alla diocesi “Se la Chiesa non assume i sentimenti di Gesù” il vero e pieno soggetto pastorale evangelizzante ed evangelizzato è la Chiesa diocesana. E il mandato conferito dal Vescovo dà un compito preciso sul territorio.

 

Alla caratteristica riguardante il rapporto personale con Cristo, va aggiunta quella dell’ecclesialità. Lo scorso mandato cadeva il giorno del transito di San Francesco d’Assisi e la cerimonia si caratterizzava per un vers, guardando a Francesco; in lui il rapporto personale con Cristo è fondamentale ma è essenziale anche quello con la Chiesa.

 

Negli Atti degli Apostoli incontriamo poi la figura di Anania. Sì, nella vita del cristiano ci vuole una guida; bisogna avere una guida nella propria vita, come fu Anania per Paolo. Il rapporto personale con Cristo non lo si inventa; si attua nella Chiesa e si esprime nella Chiesa.

 

Quello che mi sembra rilevante è che per educare non basta un’idea o una teoria; c’è bisogno della vicinanza, di una vita vissuta insieme. C’è bisogno di una vicinanza vissuta quotidianamente nell’amore. Questo vale anche per il catechista, soprattutto per la catechesi dell’iniziazione cristiana, ma dovrebbe essere così anche per la catechesi degli adulti. Una vicinanza vissuta quotidianamente nell’amore: in famiglia, in parrocchia, nei movimenti, nelle associazioni ecc. Altrimenti diventiamo una Facoltà di Teologia, ma la catechesi non è questo…

 

Non dimentichiamo che l’educazione alla fede è, alla fine, il vertice dell’educazione. La rivelazione cristiana – come sappiamo – ritiene che l’antropologia sia esplicitazione della cristologia: il Cristo è il vero uomo e il Battesimo è l’immersione in Lui nella sua morte e risurrezione. Immersione in Lui, ossia inscrivere la sua storia nella mia storia e la sua vita nella mia.

 

Certo, quante voci dissonanti su questo punto! Lo abbiamo sentito anche nel Vangelo: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?» (Gv 6,60). E molti discepoli se ne tornano indietro e se ne vanno… L’educazione alla fede è il vertice dell’educazione dell’uomo.

 

Per un cristiano qual è la forma più alta di educazione che un genitore può dare a suo figlio? Insegnargli a pregare. Questo non vuol dire tralasciare le altre cose, perché insegnare a pregare è educare secondo la dimensione più alta dell’uomo.

 

L’esperienza che l’uomo fa – anche al di là della fede, prima della fede, al di fuori della fede – è quella di cogliersi “contingente”. Da dove vengo? Dove vado? Questo se lo chiede il teologo credente, il credente non teologo e se lo chiede anche l’agnostico e l’ateo. Dentro la domanda umana fondamentale l’uomo scopre la sua dimensione teologica. Come ci spiegheremmo, altrimenti, talune personalità presenti nei grandi circuiti mediatici che continuano a parlare di fede – anche se specificano bene che loro non sono credenti… – o di tematiche legate al cristianesimo e, in genere, alla domanda religiosa?

 

Il modello che noi abbiamo, come educatori nella fede, è Gesù; per questo, per noi, il rapporto con Gesù è fondamentale. Noi siamo chiamati ad essere testimoni della fede e chi è il testimone per eccellenza? E’ il martire (= testimone), colui che – nel modo più radicale, anche perdendo se stesso – dice: è Lui il mio salvatore! Gesù, da parte sua, non dice nulla da sé perché è il grande testimone del Padre.

 

Bisognerebbe rileggere, in tal senso, tutta la cristologia della fede della Chiesa. Consiglio, in proposito, di leggere Alois Grillmeier – autore di “Gesù il Cristo nella fede della Chiesa” (ed. Paideia) – che mostra come la caratteristica della fede della Chiesa nei primi secoli non sia l’ellenizzazione del cristianesimo ma la fedeltà a Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo.

 

Se voi andate a fondo dell’io “umano” di Cristo, trovate l’io “filiale”: “Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera” (Gv 4,34), “Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10,30). Il rapporto educativo è questa testimonianza, sull’esempio della Sua testimonianza, ed è un rapporto che chiama in causa la libertà.

 

Mi rendo conto, qui, della grande difficoltà per l’età in cui si prepara al sacramento dell’eucaristia e della cresima… Sappiamo bene che se a una persona domandate una cosa obbligandola, non la fa o la fa malvolentieri perché è obbligato, ma se gliela chiedete lasciandolo libero o vi dice sì o vi dice di no… Però, se dice sì, si mette in gioco.

 

Nella proposta educativa è anche questione di vicinanza, è avere tempo per gli altri senza, per quanto è possibile, fissare orari in modo rigido. Il catechista deve avere tale disponibilità e insieme fare sempre appello alla libertà delle persone. La proposta cristiana – ce lo insegna Dio, che ci ha creati liberi e rispetta la nostra libertà – interpella fino in fondo il nostro “io” e attende.

 

L’episodio del giovane ricco è eloquente. Gesù si rivolge a lui dicendo: “Se vuoi…” (Mt 19,21). Ma attenzione bene: si rivolge ad una persona che è ancora in cammino, che è fragile, che deve ancora costruirsi. E, quindi, “se vuoi….” non possiamo dirlo con rabbia, non possiamo dirlo per “evadere” la pratica, non possiamo dirlo prima del momento giusto. Quella persona, infatti, è allettata da proposte più “facili”.

 

Ricordate tutti, immagino, le avventure di Pinocchio e, in particolare, il racconto del “Paese dei balocchi”? Un luogo dove tutto è facile e nulla costa fatica: «Lì non vi sono scuole, lì non vi sono maestri, lì non vi sono libri. In quel paese benedetto non si studia mai. Il giovedì non si fa scuola, e ogni settimana è composta di sei giovedì e di una domenica» (Carlo Collodi).

 

La proposta, però, dev’essere fatta. La libertà chiama alla decisione. E l’insegnamento della fede non è trasmissione di cose astratte, perché Gesù è il vivente e la Chiesa è viva! Guai se noi prescindiamo dalla realtà.

 

Una cosa mi sento di consigliarvi, perché penso possa farvi bene spiritualmente: riprendere in mano i Vangeli della Pasqua. Sono testi “difficili”, perché sono insieme testi teologici e storici, dove l’elemento storico si inserisce nel teologico. E sarebbe bello poter commentare alcuni Vangeli della Pasqua, alcuni testi delle apparizioni; voi trovate, ad esempio, in Luca e in Giovanni delle caratterizzazioni teologiche che non trovate in Matteo o in Marco…

 

Poniamoci alcune domande anche senza voler obbligatoriamente rispondere ad esse: che idea avete della risurrezione? È risorto… ma come? È risorto con il suo corpo? È risorto nella comunità? Dove è “entrato” il Risorto? E che rapporto ha con me? E con la Chiesa? Che cosa sono le apparizioni?

 

Come noi rispondiamo a queste domande è davvero fondamentale. E le risposte ci consentono di avere un differente rapporto di fede col Signore, perché il Signore non diventi per noi mai una “cosa”, un’astrazione, un’illusione o sia solo secondo la mia misura… La Chiesa è l’attualizzazione permanente della presenza viva del Signore risorto in mezzo ai suoi discepoli.

 

I criteri della catechesi, allora, quali sono? Spetta al catechista – incarico non da poco – fare in modo che coloro che gli sono affidati incontrino Gesù Cristo e la sua Chiesa, Cristo come presenza viva, presenza del Risorto, la Chiesa come spazio dell’incontro con Lui e col mondo. Cristo è risorto: che cosa vuol dire? L’escatologia cristiana: cosa vuol dire? La Pasqua è un fatto “prolettico”: cosa vuol dire?

 

Sì, le parole o siamo capaci di coglierle come vere e sensate – seppur inadeguate a dire il mistero – oppure è… inutile dirle. Il rischio è che diventino slogan e che dicano tutto e il contrario di tutto e, quindi, alla fine, niente.

 

Se un catechista invece, attraverso l’ascolto della Parola di Dio, riesce a cogliere la realtà della Pasqua nella sua vita, allora cambia il suo modo di fare il catechista; sì, tutto cambia incominciando dal suo modo di pregare! Quante volte andiamo in chiesa per pregare e non sappiamo cosa dire…

 

Un bel testo di esercizi spirituali del card. Danielou – in cui cita Santa Teresa d’Avila e Sant’Agostino – spiega cosa succede nella preghiera: è l’incontro con Dio che abita nel profondo del cuore. Se riesci a raggiungere quel punto iniziale, quel fondamento, allora tu incontri Dio.

 

Agostino fa scuola. In un certo momento confessa con tutto il suo io: Ti ho cercato fuori, nelle tue creature, e Tu eri dentro. Santa Teresa d’Avila costruisce il castello interiore e nella stanza più intima di questo castello c’è Dio. Il card. Danielou dice: nella preghiera o noi riusciamo a inabissarci fino all’apice ultimo del nostro cuore e lì incontriamo Dio, oppure cosa succede? Esce fuori il nostro malumore, il nostro scontento, le nostre recriminazioni, le nostre ansie, le angosce, i timori, le paure, le nostre patologie. Sì, incontriamo noi stessi e non Dio. E, per questo, non sappiamo dare risposte sulla vera preghiera.

 

Spetta al catechista non insegnare una tecnica ma fare in modo che ognuno – e lui per primo – acceda a Cristo e conosca la sua verità, bellezza e bontà. La catechesi riguarda non solo la bellezza intellettuale della verità, ma anche la bellezza dell’arte. Dire Gesù, quindi, con tutte le nostre facoltà intellettuali, volitive ed estetiche.

 

Il catechista deve avere una profonda preparazione spirituale. Non basta una preparazione teologica, non basta una preparazione liturgica, catechetica, pedagogica… Ci vuole una reale e profonda formazione del cuore. Catechesi non è solo metodologia, è “raggiungere” Cristo e trasmetterlo agli altri una volta che si è “raggiunto”.

 

Dio è Creatore. Possiamo, allora, insegnare a gioire – con i bambini è più facile – della creazione e qui il genio femminile della catechista può essere avvantaggiato. Richiamiamo qui san Francesco che noi spesso abbiamo distorto nei suoi tratti fondamentali riducendolo a una caricatura di quello che è stato. Io mi ero impegnato – quando avevo la possibilità di dedicare più tempo allo studio – a leggere le fonti francescane; per esempio, Francesco vedeva un agnellino e si commuoveva, perché in lui scorgeva Gesù, il suo Signore, l’agnello che toglie i il peccato. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, ma l’importante è ricordare il principio che in Francesco tutto partiva dal Cristo e al Cristo ritornava!

 

Insegniamo, allora, ai bambini a gioire della bellezza della Creazione, a gioire di essere creature. Nel momento in cui insegniamo loro questo, apriamo ad un bambino gli occhi e gli abbiamo implicitamente detto: guarda che, come creatura, non puoi fare tutto quello che vuoi o che ti pare, a capriccio, ma puoi e devi gioire nel riconoscerti proveniente dalle mani sagge e sapienti di un Padre che è anche il tuo creatore! E’ solo un esempio ma – come detto – gli esempi potrebbero essere numerosi.

 

Dio non solo è Creatore, ma è Salvatore e la storia è storia di salvezza! Un catechista deve avere il coraggio di testimoniare la propria fede e più è capace di farlo in maniera adeguata, articolata e saggia meglio è! Il coraggio di testimoniare la propria fede, di educare alla fede, implica innanzitutto l’educarsi costante alla fede.

 

La prima forma di apostolato e di preparazione dell’incontro con i ragazzi è la preghiera, è iniziare la giornata pregando, è avere spazi di preghiera nella settimana. Questo vale per un catechista ma anche per un vescovo, un prete, un religioso. Chi prega non sta perdendo tempo. Dice qualcuno: è un dovere che devo fare e poi incomincio la giornata. Non è proprio così; si inizia la giornata pregando perché, se si tratta di vera preghiera, allora, si acquista una capacità sapienziale di leggere la vita. E sapere significa sia “conoscere” che “gustare”.

 

Chi ha sapienza “sa” e “gusta” Dio, perché la sapienza è quel dono che permette d’essere caritatevoli, perché la sapienza, appunto, dà oltre che la “conoscenza” anche il “gusto” delle cose di Dio e, quindi, è il dono di cui si ha bisogno per esprimere la vita di Dio che è carità, amore. Chi fatica a vivere la virtù, la scelta, l’atteggiamento dell’amore, ha bisogno di un dono: il dono della sapienza che viene da Dio. Il re sapiente per eccellenza era Salomone, Dio si rivolge a lui e gli dice: «Chiedimi ciò che vuoi che io ti conceda». E lui risponde: «Concedimi saggezza e scienza, perché io possa guidare questo popolo; perché chi governerebbe mai questo tuo grande popolo?» (2Cr 1, 7-10).

 

Il catechista deve poi in modo tutto particolare educare alla fede eucaristica. C’è un rapporto strettissimo fra Risorto ed Eucaristia; educare alla fede eucaristica (compimento dell’iniziazione cristiana) è priorità assoluta.

 

Circa il mistero noi abbiamo, non di rado, una concezione sostanzialmente “illuminista”: il mistero è ciò che non capisco. Invece il termine mistero originariamente – in greco [μυστήριον / mystērion – si traduce in latino con la parola sacramentum e quindi, il mistero in realtà è il farsi presente di qualcosa che sta oltre, che è oltre la storia. È necessario esser capaci di corrispondere personalmente al mistero, in un rapporto fra interiorità e esteriorità. La liturgia è il vertice della vita della Chiesa: “…la liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia” (Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione Sacrosanctum Concilium, n. 10). Quand’è che la Chiesa è più Chiesa? Quando celebra. Basterebbe celebrare bene e lì si manifesterebbe sia la catechesi, sia la spiritualità, sia la carità.

 

Il ministero del diacono è il ministero del servizio; il diacono è l’uomo dell’altare e della carità, perché la carità nasce dall’altare e ritorna all’altare. Ecco che anche qui ritorna la necessità di esprimere nella celebrazione eucaristica la corrispondenza tra interiorità ed esteriorità, tra mente, cuore e gesti.

 

La liturgia è fatta di segni, ossia, parole e gesti e sono proprio questi a parlare e a dire il mistero che si celebra e che va oltre quei segni, ossia quelle parole e quei gesti. Pure il silenzio è un segno, ed è un segno eloquentissimo, eppure lo si è in gran parte abolito… Anche il canto è un segno molto importante. La parola proclamata, la parola ascoltata, la parola pronunciata submissa voce, la parola ripetuta con l’assemblea… La liturgia “plasma” la comunità, le dà la forma del mistero che celebra, sempre che lo celebri bene… Per questo la celebrazione non è recitazione a soggetto né di chi presiede né dell’assemblea, perché la liturgia non è mai una questione privata del prete o di un singolo gruppo: è un atto ecclesiale.

 

Chi introduce i ragazzi nel mistero è un testimone. Il catechista è questo testimone capace di testimoniare nella preghiera, nella carità e nella catechesi. Catechesi è far risuonare una parola detta, una parola che hai ascoltato, che non è tua e tu la fai “risuonare”. La grande catechesi dei Padri della Chiesa era “mistagogica”, come quella di Ambrogio e degli altri grandi padri d’Occidente e d’Oriente. E Ambrogio aveva questa grande dote che è propria del liturgo, ossia condurre la Chiesa di Milano nel mistero attraverso la celebrazione.

 

Un breve accenno sull’anno liturgico; certamente si possono avere tante spiritualità ma la spiritualità cristiana è presente nell’Anno Liturgico ed anzi, potremmo ben dire, è l’anno liturgico! Dobbiamo riscoprire, allora, le tante ricchezze dell’Anno Liturgico e pensiamo anche solo al periodo che va dalla Pasqua alla Pentecoste, dove si dava una vita particolarmente “intensa” e anche “visibile” da parte della comunità cristiana. La liturgia è una forma di catechesi privilegiata, tanto che una vera catechesi non potrà mai prescindere dalla liturgia.

 

Il vescovo, infine, è il primo responsabile della catechesi diocesana e, quindi, i catechisti devono sentire sempre l’affetto, la stima e la vicinanza del vescovo. Sì, il Patriarca vi vuole bene e intende sempre più vivere gli incontri coi catechisti come specialissimi “momenti di Chiesa”.

 

Il catechista, insomma, sa che ha fatto una scelta che è personalissima ma che è anche profondamente ecclesiale, non una scelta individuale. In tal modo si è catechisti vivendo la comunione col vescovo e con gli altri catechisti; il catechista sa di far parte di una realtà in cui profondamente respira una vita di Chiesa, sa di non essere un battitore libero ma di far parte della comunità del Risorto e questo avviene a partire proprio dal legame col Vescovo. Questo è vivere la comunione ecclesiale!

 

La catechesi nella Chiesa locale non coincide, in definitiva, con scelte e impostazioni “teologiche”, “pedagogiche” o con “tecniche” comunicative lasciate nelle mani dei singoli operatori o delle differenti scuole di pensiero; al contrario, nelle sue linee portanti, richiede una scelta comune. È questo il carisma e il ministero del vescovo per una comunione di fede e di vita che siano realmente tali, cosicché le differenti collaborazioni pastorali, parrocchie, associazioni, movimenti e gruppi trovino quell’unità che non cede alle suggestioni dei particolarismi.

 

Il vescovo è il pastore della Chiesa particolare e, quindi, dopo aver ascoltato, dà – con l’autorevolezza umile che gli deriva dal suo ministero – le indicazioni che ritiene migliori per la crescita dell’intera comunità locale, confidando che esse siano corrisposte.

 

La Chiesa universale è “veramente presente” nella Chiesa particolare (cfr. Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen gentium, n.26), ma la Chiesa particolare è chiamata a vivere la comunione con la Chiesa universale. Il Papa non esercita un “ministero” d’onore, non è una “bella figura” ma colui che, in ultima istanza, garantisce l’ecclesialità nello spazio (dimensione sincronica) e nel tempo (dimensione diacronica). La nostra Chiesa – come tutte le Chiese particolari – vuole esprimere in sé questo mistero dell’unità.

 

Catechesi, in conclusione, è far risuonare una parola detta non da noi e che noi abbiamo ascoltato. La catechesi non è far risuonare “qualcosa”, ma rendere presente nella fede annunciata in modo compiuto Lui, il Signore Gesù; è far risuonare quindi nel cuore di ogni uomo l’invito: “Seguimi!” (Gv 21,19). Questa è, in fondo, la sintesi dell’impegno della catechesi. Grazie.

[1] Il testo – non rivisto dall’autore – riporta la trascrizione dell’intervento pronunciato dal Patriarca in tale occasione e mantiene volutamente il carattere colloquiale e il tono del “parlato” che lo ha contraddistinto.