Intervento del Patriarca all'Assemblea del clero diocesano (Zelarino / Centro pastorale card. Urbani, 21 febbraio 2019)
21-02-2019

Assemblea del clero diocesano

(Zelarino / Centro pastorale card. Urbani, 21 febbraio 2019)

Intervento del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

Come iniziare un confronto fraterno che sia anche concreto sul tema dell’esercizio del ministero oggi? Vivere oggi il ministero ordinato non è facile ed iniziamo, allora, affidandoci alla Madre del Signore che invochiamo sotto il nome della Madonna della Salute perché, da oltre due secoli, la Madonna della Salute veglia sul nostro Seminario, spazio non solo fisico dove si formano i preti.

Il primo luogo di ogni incontro non è, appunto, lo spazio fisico ma è il cuore dell’uomo ed è, quindi, uno spazio antropologico-spirituale; ogni autentico dialogo è l’incontro di due “io” che diventano un “noi”. Nel vero dialogo bisogna voler camminare insieme e – come dice la lettera ai Galati – saper portare gli uni i pesi degli altri (cfr. Gal 6,2).

Nella grande preghiera sacerdotale Gesù domanda al Padre l’unità e la comunione dei discepoli; è la preghiera di Gesù dell’ultima cena. Il giovedì santo è il giorno delle nostre radici che ci ricorda l’istituzione del ministero ordinato e dell’eucaristia. Ordine ed eucaristia sono sacramenti intimamente connessi ed interdipendenti; il proprio del prete è, infatti, presiedere l’eucaristia e offrirla, insieme alla sua comunità, per il mondo.

«Non prego – dice Gesù – solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato… Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo conosca che tu mi hai mandato e che li hai amati come hai amato me» (Gv 17, 20-21.23).

Desidero ringraziare, con voi, il Padre di Gesù che ci ha radunati nell’amore di suo Figlio e dello Spirito Santo e, insieme, chiediamo a Lui di vivere questo incontro di grazia in fraternità, con reciproca fiducia, con stima e con amicizia perché questo sia momento di crescita di tutto il presbiterio.

Unità e comunione non significano uniformità e mancanza di personalità, di creatività o non ascolto di singole istanze. Unità e comunione piuttosto dicono che la Chiesa particolare – vescovo, presbiterio, consacrati, laici – precede le singole aspettative e scelte personali e che la sacramentalità della Chiesa è dono per tutti. Facciamo nostro sulla Chiesa il pensiero e il sentire di Gesù.

Noi, piccoli operai della vigna del Signore nel ministero e soprattutto nel suo esercizio concreto, siamo chiamati – come ricorda la prima lettera di Pietro – a pascere il gregge di Dio non per forza ma volentieri, secondo Dio, non per interessi personali ma di buon animo, non spadroneggiando ma facendoci modelli del gregge (cfr. 1Pt 5,2-3).

Certo, le scelte e le aspettative personali, possono facilmente dividere come fu già, al tempo di Gesù, per i Dodici: «…quando fu in casa [Gesù], chiese loro: “Di che cosa stavate discutendo per la strada?”. Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande» (Mc 9,33-34).

Il tema – chi è il più grande? – chiede d’esser declinato in tutte le sue concrete ricadute, quelle di ogni momento. Le incomprensioni e la sfiducia generano separazioni e divisioni; d’altra parte, fanno parte dell’esercizio del ministero. Non sono, quindi, puri disguidi o fatti da addebitarsi per forza alla mala volontà di qualcuno; piuttosto, appartengono alla realtà stessa del ministero e se ben accolti e vissuti fanno crescere la nostra paternità e ci rendono più preti.

Cosa significa tutto questo? Vuol dire che il ministero ci relaziona con altri: confratelli, consacrati, laici cristiani. E non tutti sono sempre disponibili. Il ministero porta, anche, inevitabilmente a decidere e – solo chi è ingenuo se ne stupisce – non tutto viene accettato da tutti. Grazie a Dio abbiamo sensibilità e attitudini diverse per cui basta un nulla, una tensione, un disappunto, il non sentirsi capiti o semplicemente non sentirsi salutati come si desiderava perché nascano incresciosi dissapori. Talvolta magari si può arrivare anche a dar corpo alle ombre; al riguardo, lo stesso Carlo Maria Martini in un suo libro citava un fatto personale di cui, suo malgrado, fu protagonista.

Ora con voi, desidero soffermarmi su un episodio del Nuovo Testamento, tratto dagli Atti degli Apostoli, che potremo denominare “I malintesi nel ministero” e trarne spunto. I protagonisti sono: Paolo, Barnaba e Marco, figure di spicco nella Chiesa apostolica.

All’inizio del primo viaggio missionario li troviamo insieme. Ad un certo momento, però, Marco, a Perge di Panfilia, abbandona gli altri e ritorna a Gerusalemme (cfr. At 13,13); tale scelta produrrà, in seguito, nel secondo viaggio missionario, la divisione traumatica di Paolo e Barnaba.

«Barnaba voleva prendere con loro anche Giovanni, detto Marco, ma Paolo riteneva che non si dovesse prendere uno che si era allontanato da loro, in Panfilia, e non aveva voluto partecipare alla loro opera. Il dissenso fu tale che si separarono l’uno dall’altro. Barnaba, prendendo con sé Marco, s’imbarcò per Cipro. Paolo invece scelse Sila e partì, affidato dai fratelli alla grazia del Signore» (At 15,37-40).

Capiamo subito che è una separazione non da poco, se si pensa che proprio Barnaba aveva presentato il neo convertito Saulo agli apostoli.

È, quindi, una separazione clamorosa che si protrarrà nel tempo. È  poi vero che, in seguito, troveremo Marco e Paolo di nuovo assieme – in un momento difficile per Paolo, vecchio e in carcere – ma ora c’è la divisione.

Tale vicenda dolorosa ci consegna un messaggio valido sempre: le incomprensioni, se non sono frutto di pura polemica o di un “io” fuori controllo, possono aiutare a crescere. E allora, quando tali fratture si ricompongono (per aiuto di Dio e buona volontà degli uomini), si vede che sono una ricchezza per l’intera comunità.

La vera ricomposizione però non è l’esito di parole scaltre, dette per accomodare una situazione. Certo, dobbiamo spiritualmente lavorare, smussare le angolosità ed occorre un quotidiano lavoro di ascesi. Ricordiamo, inoltre, che Dio salva gli umili: “humilitas omnia resolvit”!

È decisivo il modo in cui ci riferiamo agli altri: muoviamo addebiti o parliamo in modo polemico? Quante mail andrebbero rilette prima d’esser inviate e quante parole o quanti testi scritti andrebbero ripensati prima d’essere esternati! Solo un colloquio sereno, un tono pacato, evitando di mettere in piazza risentimenti ed animosità, raggiungono una intesa. Il Vangelo indica il metodo difficile della correzione fraterna (cfr. Mt 18, 15-17).

La divisione avvenuta a Perge segna così il rapporto fra Paolo e Marco, ma anche quello tra Paolo e Barnaba. Ed è quindi motivo di gioia leggere quanto Paolo scrive nella lettera ai Colossesi: «Vi salutano Aristarco… e Marco, il cugino di Bàrnaba, riguardo al quale avete ricevuto istruzioni – se verrà da voi, fategli buona accoglienza -…» (cfr. Col 4,10).

Paolo e Marco, dopo una divisione traumatica avvenuta nell’esercizio del ministero, alla fine sono di nuovo insieme, uno accanto all’altro; Paolo è vecchio, in catene, e per lui è il tempo di “sciogliere le vele” e ricevere il premio di chi ha annunciato il Vangelo. Scrivendo a Timoteo raccomanda: «Prendi con te Marco e portalo, perché mi sarà utile per il ministero» (cfr. 2Tim 4,11).

Questa intesa “ritrovata” dice, quindi, come una frattura tra due persone che amano il Signore possa essere risanata e come, in caso di divergenze nel ministero, mai si debba cedere a toni e parole ostili, sfogando l’animosità di cui dovremmo comprendere la vera origine. Soprattutto se sono reazione eccessive, frequenti e che, alla fine, vanno ben oltre i motivi che possono averla originata, allora, bisogna chiedersi: come mai? Perché? Che parte ho avuto in tutto questo?

L’episodio di Perge domanda comunque che nel ministero la personalità, il temperamento, le diverse valutazioni o scelte pastorali non intacchino le relazioni personali e la carità. L’episodio che vede protagonisti Paolo, Marco e Barnaba è paradigmatico, destinato a ripetersi sempre nella Chiesa.

E Paolo, scrivendo ai Colossesi, ci indica l’unica strada percorribile: «…rivestitevi dunque di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri, se qualcuno avesse di che lamentarsi nei riguardi di un altro. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi. Ma sopra tutte queste cose rivestitevi della carità, che le unisce in modo perfetto. E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete stati chiamati in un solo corpo. E rendete grazie!» (Col 3,12-15).

Paolo, qui, riprende la preghiera di Gesù nell’ultima Cena, dopo la lavanda dei piedi, istituendo l’eucaristia, mentre consegna ai discepoli il suo nuovo comandamento.

L’eucaristia che noi siamo chiamati a presiedere è il pane spezzato e il sangue effuso per la salvezza del mondo; così la croce e la risurrezione di Gesù devono plasmare di più il nostro stile di vita perché è proprio dalla croce che Gesù, dando il perdono, giudica il nostro modo d’essere suoi ministri (cfr. Lc 23,34).

Amore e perdono sono, per i discepoli, il comandamento più semplice e più arduo, vera pietra d’inciampo, perché umanamente non abbiamo la forza di adempierlo. Noi siano spontaneamente inclini a puntualizzare, ricordare e chiarire e, così, scaviamo un solco più grande.

La richiesta dell’amore reciproco – perdono, pazienza, accettazione, dono di sé – vale con gli amici, vale in famiglia, vale fra le generazioni, vale fra popoli, etnie, culture ma per Gesù è l’inizio di ogni evangelizzazione. E, così, il perdono e l’amore hanno valore soprattutto nella Chiesa e sono il segno dei veri discepoli del Signore (cfr. Gv 13,24-35).

La lettera ai Colossesi ha una premessa importante quando dice che tutto è possibile se ogni cosa avviene nel nome di Gesù, come un atto di culto, attraverso l’ascolto credente, così che la sua Parola renda il nostro ministero non efficienza ma carità pastorale: «La parola di Cristo abiti tra voi nella sua ricchezza. Con ogni sapienza istruitevi e ammonitevi… E qualunque cosa facciate, in parole e in opere, tutto avvenga nel nome del Signore Gesù, rendendo grazie per mezzo di lui a Dio Padre» (Col 3,16-17).

Le diversità e le legittime differenti scelte pratiche non possono e non devono arrivare a dividere i discepoli del Signore. L’episodio degli Atti ci aiuti dunque a considerare come nella Chiesa – se non si tratta di scandali, di colpevoli silenzi sulla verità e la carità, ossia di cose incompatibili col Vangelo – tutto va vagliato con semplicità, misericordia, verità e, infine, volontà di perdono. E ricordiamoci che – come spesso ripete Papa Francesco – dobbiamo evitare come peste quel “chiacchericcio” distruttivo e il giudicare ad ogni costo e malevolmente tutto e tutti.

Nella Chiesa ogni cosa si compone o decompone a partire dalla comunione di cui Gesù è il vero modello: «Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato. E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano una sola cosa come noi siamo una sola cosa. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo conosca che tu mi hai mandato e che li hai amati come hai amato me» (Gv 17, 20-23).

Viviamo insieme la Parola di Gesù e rendiamo visibile il contenuto della Sua preghiera sacerdotale nella nostra vita e in quello delle nostre comunità. E, guardando all’imminente Quaresima, poniamo tutto fiduciosi nelle mani della Vergine Addolorata!