Intervento del Patriarca alla XVIII Assemblea elettiva dell'Azione cattolica veneziana: “Testimoni di tutte le cose da Lui compiute” (Zelarino / Centro pastorale Card. Urbani, 21 gennaio 2024)
21-01-2024

Azione Cattolica del Patriarcato di Venezia  

XVIII Assemblea elettiva “Testimoni di tutte le cose da Lui compiute”

(Zelarino / Centro pastorale Card. Urbani, 21 gennaio 2024)

Intervento del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

Un cordiale saluto a tutti Voi – aderenti dell’Azione Cattolica del Patriarcato di Venezia – che partecipate a quest’Assemblea elettiva, evento fondamentale nella vita dell’associazione e che segna il passaggio da un triennio all’altro.

Vorrei soffermarmi con Voi sul testo degli Atti degli Apostoli che avete scelto come momento di confronto e di riferimento per questo cammino assembleare e, soprattutto, sulla frase che sintetizza e rappresenta questo vostro percorso: “Noi siamo testimoni di tutte le cose da Lui compiute” (At 10,39).

Avete scelto di andare al cuore del Vangelo, che è la “buona notizia” da comunicare. Appartengono al Vangelo sia la comunicazione sia lo strumento di cui si serve la comunicazione e che – trattandosi di rapporti umani – non può che essere la cultura.

La cultura è la sintesi fra le conoscenze e i valori; una sintesi capace di fornire una linea, una prospettiva, oltreché i contenuti di vita. La cultura può essere di una persona, di una famiglia, di una comunità, di una associazione e, in modo più ampio, di una società e di un’epoca.

Il testo degli Atti narra della conversione e del battesimo di chi ascolta l’annuncio del Vangelo da parte dell’Apostolo, ossia la Chiesa; siamo nella casa del centurione Cornelio e Pietro vi è stato condotto dallo Spirito Santo.

 

Trasportata nel nostro tempo, Cornelio è la figura di chi non ha ancora abbracciato il Vangelo e, quindi, la fede nel Signore Gesù, ma è portatore di un desiderio profondo che lo porta oltre (le cose terrene, le cose materiali ecc.) poiché avverte che l’uomo è chiamato continuamente ad andare oltre se stesso.

Il “vero” inizio degli Atti degli Apostoli è il capitolo secondo, con la Pentecoste e la discesa dello Spirito in quella piccola comunità fatta dai Dodici, più altre persone attorno a loro, e chiamata ad uscire e a confrontarsi con chi sta di fronte a loro.

“Siamo (1) Parti, Medi, (2) Elamiti e abitanti della Mesopotamia, (3) della Giudea e della Cappadòcia, (4) del Ponto e dell’Asia, (5) della Frìgia e della Panfìlia, (6) dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, Giudei e prosèliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio” (At 2,9-11).

Dodici sono gli apostoli, come dodici sono i popoli (Paesi) menzionati; i Romani, invece, sono menzionati da soli perché qui non indicano tanto un popolo ma la totalità del mondo che, allora, era sotto il dominio di Roma; il libro degli Atti, infatti, terminerà proprio a Roma (cap. 28). Infine sono un ulteriore richiamo all’universalità le due coppie finali, ossia Giudei e proseliti (universalità religiosa), Cretesi e Arabi (universalità geografica).

Dodici è il numero dell’universalità, intesa come pienezza del Vangelo (cattolicità) e come apertura universale a tutti gli uomini. Il numero dodici, infatti, è significativo sia per l’ebraismo (le dodici tribù d’Israele) sia per gli altri popoli (pagani), perché questo numero richiama i dodici punti dello Zodiaco (religiosità cosmica). Tutti, quindi, sono coinvolti e l’evento della Pentecoste ricorda alla Chiesa di ogni tempo questa universalità cattolica.

Il testo da voi opportunamente scelto riconduce a questo: l’incontro del Vangelo con le genti, con le diverse culture.

Gli Atti degli Apostoli parlano della vita della Chiesa dal suo inizio, ovvero a partire dalla missione ricevuta da Gesù. Il Vangelo di Matteo si concludeva proprio con queste parole di Gesù: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,18-20).

Il libro degli Atti si apre in modo analogo, con il Signore risorto che dice ai suoi: “…riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra” (At 1,8). Non dimentichiamo poi, nello stesso libro, le missioni di Paolo tra i pagani a cui il Signore dirà: “Va’, perché io ti manderò lontano, alle nazioni” (At 22,21).

La predicazione e missione apostolica ha sempre un carattere pubblico, c’è una salvezza universale da proclamare e trasmettere apertamente. La fede non è tanto (o solo) questione di coscienza personale, è una realtà visibile che genera un’antropologia, una cultura che ha da dire (e dare) qualcosa agli altri.

“Perché se con la tua bocca proclamerai: «Gesù è il Signore!», e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza” (Rm 10,9-10).

È un’illusione pensare che esista una società, una cultura o delle leggi “neutre”. Tutto ha un suo presupposto, una colorazione, un fine che proviene dalle risposte date alle domande fondamentali sull’uomo, ossia: chi è l’uomo, in cosa consiste il bene e il male, cosa vogliamo realizzare? E, ancora, circa i valori fondamentali: l’intangibilità e la centralità della persona umana, l’altro come valore, la condivisione, la solidarietà, ecc. Senza questa “base”, si lascia campo libero ad altre opzioni non solo diverse ma opposte.

“Noi siamo testimoni di tutte le cose da Lui compiute” (At 10,39): il Vangelo incontra non solo le persone ma anche le culture.

Il profeta Amos, parlando della sua vocazione, si definisce “allevatore di pecore, di Tekòa” (Am 1,1) e poi, più avanti, specifica: “Non ero profeta né figlio di profeta; ero un mandriano e coltivavo piante di sicomoro. Il Signore mi prese, mi chiamò mentre seguivo il gregge. Il Signore mi disse: Va’, profetizza al mio popolo Israele” (Am 7,14-15). La traduzione greca dei Settanta, in realtà, dice più esattamente: “ero uno che incide i sicomori”. Il frutto selvatico del sicomoro ha bisogno, infatti, di essere inciso perché solo così, nel far fuoriuscire il liquido che contiene, diventa gradevole e acquista sapore.

Quest’immagine può essere trasferita oggi a tutti coloro che si trovano ad “dialogare” con le culture per tirare fuori da esse il meglio, lasciando cadere gli elementi superati o che non rispettano la dignità della persona umana – e in particolare della donna – o che esprimono valori ancora bisognosi di “purificazione”.

Il raccoglitore, anzi, l’incisore di sicomori non è colui che distrugge o sciupa il frutto ma, appunto, lo sa “incidere” e questa incisione sarà, alla fine, opera del Logos che “immette” nelle culture – in modo umano, ossia rispettando le coscienze – la parola, il gesto e lo stile di vita che scaturiscono dal Vangelo.

La fede in Gesù – rileggiamo il prologo del quarto Vangelo – porta con sé questo elemento di senso, sapienza, luce. Gesù Cristo non è solo l’uomo di Nazaret, ma il Logos incarnato. Le culture – potremo dire così – vengono bonificate dall’incisione operata dal Logos incarnato che è sapienza di Dio.

Per fare tutto ciò ci vogliono i raccoglitori o, meglio, degli incisori di sicomori che siano disponibili come lo è stato il profeta Amos. Raccogliendo un’altra bella immagine evangelica potremmo, allora, rifarci a quanto Gesù dice sulla vite e sui tralci (Gv 15,1-8): la vite è una sola e i tralci sono molti ma mai possono sostituirsi alla vite o fare a meno di essa, perché vivono della vite e fanno frutto solo a partire da essa e rimanendo sempre legati alla vite.

Ci sono, quindi, alcune opzioni essenziali per annunciare il Vangelo alle culture. Innanzitutto è necessario uno sguardo empatico – la fede cristiana è aperta all’incontro con tutti – ma ci vuole anche uno sguardo costruttivamente critico, ossia aperto a tutti ma non a tutto. Come dice la lettera ai Filippesi: “…quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode, questo sia oggetto dei vostri pensieri” (Fil 4,8). Siamo chiamati, insomma, a raccogliere e incidere.

Il cristiano è persona dallo sguardo empatico ma, insieme, capace di discernimento evangelico, ovvero radicato nel Battesimo che è strutturalmente una scelta che si esprime nelle promesse e nelle rinunce da parte del catecumeno. Sono scelte anche “drammatiche” (nel senso etimologico del termine) che toccano profondamente la vita: “Rinunciate al peccato, per vivere nella libertà dei figli di Dio? Rinunciate alle seduzioni del male, per non lasciarvi dominare dal peccato? Rinunciate a satana, origine e causa di ogni peccato?”. E poi ci sono le tre domande in positivo: “Credete…?”.

In una versione liturgica precedente del rito del Battesimo, al momento della rinuncia a satana, si faceva espresso riferimento “al diavolo e alle sue pompe” e c’è un bel libro in cui Hugo Rahner spiega che il diavolo e le sue pompe indicano una cultura, un modo di pensare o un modo di agire che, nell’antichità in maniera particolare, si esprimeva con chiara evidenza nei luoghi ove si metteva in scena – nel teatro, nei giochi del circo – la brutalità, la crudeltà e il disprezzo nei confronti dell’uomo.

Il Vangelo, infine, si trasmette non in modo intellettuale e tantomeno elitario né attraverso una semplice lettura di testi; la lettura dei testi, comunque, avviene sempre nella Chiesa all’interno di una vita di comunione. Per questo è essenziale, oggi più che mai, costituire comunità vive e vitali, educanti, evangelizzate ed evangelizzanti; questo solamente permette di “aprire” e risanare il vivere delle persone. E tutto ciò può avvenire solo in un contesto di comunità.

L’evangelizzazione deve diventare catecumenato: abbiamo belle figure nell’antichità – da Agostino a Cipriano di Cartagine – che compiono un notevole salto qualitativo, a partire dalla vita e dalla cultura che appartenevano loro prima dell’incontro con Cristo e con la capacità di esprimere al meglio le ricchezze che già avevano prima e che il diventare cristiani ha permesso di far fiorire, perché i cristiani – come aveva sottolineato Benedetto XVI all’inizio dell’enciclica “Spe salvi” – hanno avuto in dono una speranza affidabile su cui poggiare e con cui affrontare il presente e il futuro. E hanno davanti una meta grande a cui guardare.

“«Spe salvi facti sumus» – nella speranza siamo stati salvati, dice san Paolo ai Romani e anche a noi (Rm 8,24). La «redenzione», la salvezza, secondo la fede cristiana, non è un semplice dato di fatto. La redenzione ci è offerta nel senso che ci è stata donata la speranza, una speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto ed accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino” (Benedetto XVI, Lettera enciclica Spe salvi, n. 1).