Cerimonia di apertura del processo di beatificazione del Servo di Dio Pietro Mechitar di Sebaste,
Abate fondatore della Congregazione Armena Mechitarista
(Venezia / Chiesa S. Martino, 8 settembre 2020)
Intervento del Patriarca Francesco Moraglia
Eccellenza Reverendissima, gentili autorità,
Reverendi Padri Mechitaristi, presbiteri diocesani,
religiosi e fedeli tutti qui convenuti,
La presente circostanza – che si verifica ancora una volta l’8 di settembre (data emblematica nella vita del Servo di Dio Pietro Mechitar) – rappresenta per tutti noi, per l’intera Chiesa – quella universale e quella particolare che è in Venezia – e per la Congregazione Armena Mechitarista un momento di vera grazia, di cui rendere gloria e lode a Dio, nostro unico Signore e fonte di ogni santità che fiorisce nel cuore della storia.
Ringrazio coloro che si sono fatti parte attrice della riapertura o, meglio, della ripresa del processo di beatificazione del Servo di Dio Pietro Mechitar di Sebaste, Abate fondatore della Congregazione Armena Mechitarista. Innanzitutto esprimo riconoscenza a Sua Eccellenza Boghos Levon Zekiyan, Arcieparca di Costantinopoli degli Armeni e Delegato Pontificio della Congregazione Armena Mechitarista, ai monaci dell’Abbazia di San Lazzaro e, infine, alla Postulatrice la dottoressa Valentina Vartui Karakhanian.
Con l’odierna ripresa del processo, in un certo senso, questa storia ecclesiale di santità viene a riavviarsi. Esso era stato aperto per la prima volta il 9 settembre 1844, presso il Palazzo Patriarcale di Venezia, sotto la presidenza dal Patriarca Iacopo Monico, ma subì varie interruzioni e incontrò tante fatiche, dovute per lo più all’accavallarsi di grandi e amare vicende storiche – guerre, epidemie, genocidi, persecuzioni – che hanno toccato (anche molto duramente nei secoli scorsi) la vita del mondo, della Chiesa e dello stesso popolo armeno e che, del resto, hanno contraddistinto sempre l’intera esistenza del Servo di Dio che, battezzato con il nome Manuk, nacque il 7 febbraio 1676 a Sebaste nell’Anatolia centrale ed assunse il nome di Mechitar a quindici anni all’inizio della sua vita religiosa e all’ingresso in monastero; la sua morte avvenne a Venezia il 27 aprile 1749 e il suo corpo fu sepolto sotto il pavimento del presbiterio di San Lazzaro.
Ci ritroviamo nella chiesa veneziana di San Martino – e ringrazio per la cortese disponibilità il parroco monsignor Agostino Manente – perché proprio in una casa ad essa adiacente Mechitar e i suoi confratelli trovarono la prima sistemazione e accoglienza nella nostra città quando, nel 1715, vi giunsero dalla cittadina di Modone, nella Morea veneziana, nell’imminenza della conquista ottomana.
Due anni dopo, l’8 settembre del 1717 – esattamente trecento e tre anni fa – Mechitar e i suoi compagni faranno poi ingresso nell’isola di S. Lazzaro, offerta in concessione dalla Serenissima quale definitiva residenza della giovane congregazione che era stata di fatto già fondata nel 1700 a Costantinopoli ed ivi consolidata, nella drammatica decisione dell’abbandono della capitale ottomana, l’8 settembre del 1701, con speciale atto di affidamento alla protezione della Vergine Maria.
La Congregazione – modellata da Mechitar operando una sintesi originale tra la Regola di San Benedetto, l’antichissima tradizione monastica, liturgica e spirituale della Chiesa armena e alcuni elementi dei moderni istituti di perfezione della Chiesa latina di costituzione post-tridentina – impiantata a Venezia, diverrà in pochi decenni un punto di riferimento spirituale e culturale autorevole e influente, a livello internazionale, al punto da costituire – a partire dalla seconda metà del Settecento – la fucina della rinascita culturale del popolo armeno in tutto il mondo.
Oggi, in quella stessa festività della Natività di Maria che ha segnato tanti momenti importanti della vita della Congregazione, nei secoli, provvidenziale segno dell’incessante accompagnamento e tutela della Santa Vergine, con il giuramento degli officiali veniamo a riaprire questa causa di beatificazione che ci pare abbia oltretutto un valore e un significato speciale per i tempi che stiamo vivendo.
Il “ritardo” e i rallentamenti storici, infatti, non solo non hanno offuscato ma, anzi, lo scorrere del tempo ha quasi reso ancor più brillante e attuale la fama di santità di Mechitar che è tuttora ben viva in particolare nel popolo armeno che lo ama e lo considera uno dei rifondatori della propria cultura e spiritualità, una sorta di secondo Illuminatore della Nazione – titolo tradizionalmente riservato a san Gregorio, l’Apostolo dell’Armenia al quale risale la conversione del re Trdat e di tutto il popolo all’inizio del IV secolo –, riconoscendovi un uomo di fede profonda animato dalla grazia di Dio e, per questo, dotato di uno spirito di singolare fraternità che operò per riportare dialogo e unità tra la Cattedra di Pietro e la Chiesa Apostolica d’Armenia.
Sono più che mai valide oggi le finalità che hanno guidato e via via “formato” il carisma di Mechitar trasmesso alla sua Congregazione: l’insegnamento e la diffusione del Vangelo e dell’amore per Gesù Cristo e per la Vergine Maria; l’attività pastorale – a vantaggio in particolar modo, sebbene non soltanto, del popolo armeno – per la salvezza delle anime dei fedeli; la promozione umana, soprattutto attraverso l’educazione cristiana e l’istruzione della gioventù nonché, in modo davvero peculiare, l’ecumenismo e il dialogo tra le Chiese, a riguardo del quale l’Abate ebbe sempre a cuore l’unità della Chiesa e in termini che possiamo veramente ritenere precorritori dello spirito ecumenico sviluppatosi a seguito delle linee impostate dal Concilio Vaticano II, nella sua espressione più solida e matura: unità concreta della Chiesa, nel pieno rispetto dell’integrità delle tradizioni teologico-spirituali e liturgiche, con un esemplare senso di devozione e amore verso la Cattedra di Pietro quale sua garante.
Come è noto, molti Pontefici hanno attestato – anche in tempi relativamente recenti – la particolare stima nei confronti di Mechitar di Sebaste. Sappiamo che Giovanni Paolo II sottolineò come «a Mechitar ed ai suoi monaci va riconosciuto in particolare il merito di aver operato e di operare per la piena ricomposizione dell’unità tra la Chiesa d’Occidente e le Chiese d’Oriente. La comunione con la Sede di Roma era per Mechitar un elemento imprescindibile della fede» (Discorso ai monaci della Congregazione Armena Mechitarista, 7 luglio 2001).
Mechitar, fin dalla sua giovinezza, ebbe un legame fortissimo con la Vergine Maria e a Lei, alla Madre del suo Signore, ha affidato sempre e totalmente i passi della sua esistenza, ben consapevole che, attraverso il riferimento alla Madonna, egli poteva trovare la strada per adempiere, in piena dedizione e fedeltà, la volontà di Dio e i suoi disegni per lui e per suscitare e sostenere l’opera che via via stava portando avanti.
Le fonti biografiche narrano che nel 1692, di passaggio nell’eremo dell’isola di Sevan, il giovane monaco – ancora inquieto e deluso nelle sue aspirazioni di conoscenza teologica inseguita nelle sue peregrinazioni -, mentre è raccolto in preghiera davanti all’immagine della Madonna, è rapito in estasi e vede la Vergine Maria, che gli rivolge la parola e gli chiede: “Cosa vuoi, Mechitar? Dimmelo e l’avrai!”. A una tale offerta, nel pieno della tensione di tante aspirazioni ancora non pienamente definite, Mechitar non trova di meglio che rispondere: “Madre del Signore, chiedo quel che tu vuoi”, un atto di piena confidenza col quale rimette totalmente il corso della sua esistenza nelle mani della Santa Vergine. Un atto che è insieme consapevolezza della perfetta identità di quanto è sommamente desiderabile per sé con la pura volontà divina. Al che la Vergine Maria risponde “E sia!”, e la visione si dissolve. È a partire da questa esperienza che si rapprenderà e chiarirà l’originale carisma di Mechitar, come a partire da un sì che prendeva a proprio modello il sì di Maria al disegno di Dio su di Lei.
“Benedetta Vergine Maria, Madre di Dio, noi indegni tuoi servi ci offriamo di essere tuoi figli adottivi, e con somma fiducia ricorriamo alla tua materna compassione, affinché tu ci guidi in un rifugio sicuro. Promettiamo a te, Santissima Madre, di onorare solennemente il giorno della tua Natività…”: così si esprimeva, tra l’altro, alcuni anni dopo, in quel drammatico quanto illuminato 8 settembre del 1701, facendo nascere in tale occasione la denominazione di “Figlio adottivo della Vergine, maestro di penitenza”, rimasto quale motto della Congregazione.
Non fu una vita facile, quella di Mechitar, ma fu certamente un’esistenza nella quale il pieno investimento e l’offerta di tutto il proprio essere alla volontà di Dio, perseguita in un sincero desiderio di fondervi interamente la propria, trasformò tutte le difficoltà incontrate in fattori di rigenerazione e crescita spirituale, pure in termini di concrete opportunità operative e di esercizio della propria missione.
Veramente a lui sembrano particolarmente adattarsi le parole meliora sequentur scolpite su uno stallo del refettorio antico dell’Abbazia benedettina di Praglia. Basti pensare a quando il Servo di Dio dovette abbandonare Modone dove si era rifugiato e dove, dopo anni di sacrifici, ottenuta nel 1711 dal Papa l’approvazione delle Costituzioni della giovane Congregazione, nel 1714 aveva appena finito di edificare il suo monastero. La conquista ottomana di quei possedimenti, fino ad allora dominio della Serenissima, lo mise in breve nella necessità di portarsi a Venezia in un nuovo esilio che, vissuto in totale spirito di remissione alla volontà di Dio, gli aprì orizzonti e prospettive che nella città lagunare non ebbero confronti con quelle che avrebbe trovato nell’angusto e defilato piccolo porto della Morea al quale era, in un primo tempo, approdato.
Di Mechitar, come ha scritto uno storico a noi contemporaneo, «colpisce sopra ogni cosa la serena mitezza con cui egli affrontò ogni prova e che risulta procedere coerentemente dalla combinazione di uno spirito di profonda umiltà con una saldissima fiducia nella Provvidenza divina che lo accompagnò per tutta la vita. In tutte le gravi difficoltà attraversate, con la Congregazione e la sua stessa vita messe più volte a rischio di sopravvivenza, nulla sembra turbarlo, consapevole com’è che ciò che viene veramente da Nostro Signore non è contrastabile da nessuna circostanza o agente esterno, e un eventuale fallimento non farebbe che rivelare l’inconsistenza di un progetto non sostenuto da Dio».
Eccoci, allora, in questo giorno mariano così caro a Mechitar, la festa della Natività di Maria, in questo nuovo 8 settembre che segna ancora la vita e la santità di Mechitar e la sua opera. Oggi possiamo fare davvero nostre le parole di un altro santo Papa, Paolo VI, che lo definì «tenace e geniale realizzatore di opere e di iniziative feconde, … un precursore nei disegni di Dio, perché sentì imperiosa la sollecitudine di un’invocazione ancora inascoltata «Ut omnes unum sint»”, come si desume dalla preghiera da lui composta per l’unità della Chiesa” e volle quindi “onorare, in quest’ora della Chiesa, l’insigne Uomo di Dio, consci come siamo che il suo insegnamento echeggerà più che mai attuale alle Chiese sorelle e al mondo in ascolto» (Paolo VI, Messaggio del Santo Padre ai Mechitaristi, 8 settembre 1977).
Che il riavviato processo di beatificazione dell’Abate Mechitar di Sebaste dischiuda nuovi orizzonti di santità esemplare per l’intera vita della Chiesa, per il caro popolo armeno, per la Chiesa che è in Venezia e, infine, auspico che apra anche nuovi orizzonti in ambito ecumenico. L’unità della Chiesa, che stette sempre a cuore al servo Dio l’Abate Pietro Mechitar, dice il suo desiderio d’esser fedele alla preghiera di Gesù al Padre, nell’Ultima Cena: <<Perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato>> (Gv 17,22).
La beatificazione – ne sono convinto – sarà per tutti un luminoso faro nella via dell’amore per la Vergine Maria come Colei che ci guida, via privilegiata, a Cristo Signore.