Intervento del Patriarca alla "Cattedra di San Giusto" sul tema "Io credo, noi crediamo" (Trieste, 20 febbraio 2013)
20-02-2013

Trieste – Cattedrale di S. Giusto, 20 febbraio 2013

 

‘Io credo, noi crediamo’

 

Intervento del Patriarca di Venezia mons. Francesco Moraglia

 

 

 

 

All’inizio dell’atto di fede c’è la grazia divina e l’adesione libera dell’uomo a Dio: si tratta del consenso personale che, in maniera libera, l’uomo deve dare alla vicenda storica di Gesù Cristo, morto e risorto. La fede cristiana si caratterizza, quindi, come il dell’uomo a Dio in Gesù Cristo e, conseguentemente, è proprio Lui – il Signore Gesù – a determinare la forma e la struttura dell’atto di fede.

 

A tal proposito è opportuno rimarcare il passo in cui l’autore della lettera agli Ebrei delinea l’atteggiamento del credente servendosi dell’immagine di chi volge lo sguardo ad un altro e si orienta verso di lui. Il testo così s’esprime: tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento. Egli in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce, disprezzando il disonore l’ignominia, e siede alla destra del trono di Dio’ (Eb 12,2).

 

Qui, insieme alla descrizione del credente colto come colui che è rivolto al Signore, ci viene anche consegnata la totalità dell’Evento cristiano: Gesù morto e risorto, alla destra del Padre, ossia la pienezza dell’atto di fede.

 

Per introdurre in modo conseguente il tema della conversazione – ‘Io credo, noi crediamo‘ – ci fermiamo sulla prima parte del passo appena citato della Lettera agli Ebrei. In esso siamo invitati a guardare a Gesù considerato come Colui che dà origine e porta a perfezione la fede. E, proprio in quanto origine e compimento della fede, Gesù è in grado di dare forma interiore ed esteriore alla fede.

 

Tenere fisso lo sguardo su di Lui, da parte del credente, significa considerare e far proprio il modo in cui Gesù proponeva la fede a coloro che incontrava e a quanti si rivolgevano a Lui poiché, attraverso tale modalità, si delineano le stesse caratteristiche della fede.

 

 È indicativa la frase che troviamo alla fine di un breve ma significativo testo di Pierre Rousselot intitolato ‘Gli occhi della fede’ e divenuto un classico della teologia del XX secolo. Leggiamo: ‘Abbiamo insistito a sufficienza sul ruolo degli indizi estrinseci’ Ciò che manca alle prove sono piuttosto le intelligenze, e si può riprendere qui ciò che sant’Agostino dice commentando la pagina evangelica: Niente è privo di significato, in ogni cosa c’è riferimento; basta, però, saperlo cogliere‘ (P. Rousselot, Gli occhi della fede, Milano 1977, pag. 106).

 

Muoviamo, però, con ordine dall’inizio e quindi dal primo incontro di Gesù con Andrea e Giovanni, sulle rive del fiume Giordano. Alla domanda dei futuri apostoli, Gesù risponde in modo inatteso. Noi non avremmo risposto così.

 

Gesù, infatti, invita e coinvolge. La sua risposta va al di là della domanda che gli è stata posta: ‘«Rabbì – che, tradotto, significa Maestro -, dove dimori?». [E Gesù] Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio’ (Gv 1, 38-39).

 

Gesù non risponde alla domanda ma, piuttosto, coinvolge i suoi interlocutori proponendo loro un’esperienza di vita. Gesù esorta i futuri discepoli con parole essenziali: ‘Venite e vedrete’. In maniera semplice ma reale, egli propone – fin dal primo incontro – il nucleo iniziale della Chiesa. La risposta di Gesù è un invito; anzi, è l’invito a rimanere con Lui, poiché solamente attraverso tale incontro si farà chiaro, in loro, che cosa cercavano e cosa avevano tentato d’esprimere con la loro domanda iniziale: ‘Maestro, dove dimori?’.

 

Abbiamo detto come il nucleo primordiale della Chiesa appaia già all’inizio della narrazione evangelica; i primi discepoli, infatti, sono chiamati a rispondere all’invito di Gesù e tutto avviene, subito, in modo comunionale e comunitario. Emerge così che Gesù, nei suoi incontri, non mira a un rapporto individuale ed esclusivo ma, piuttosto, considera ciascuno nella sua capacità relazionale con Dio e con il prossimo.

 

Egli pone, così, uno ‘spazio’ d’incontro e di comunione tra sé e gli interlocutori; un ‘luogo’ in cui non solo non si esclude il prossimo ma, al contrario, se ne considera la presenza come essenziale. Nell’incontro è Gesù a condurre, personalmente, gli eventi e qui già appaiono, in modo chiaro, i caratteri comunitari dell’atto di fede. Certo, la fede è e rimane atto personale ma, insieme, è un atto che strutturalmente ci lega gli uni agli altri. Il credere, per i discepoli, non è un gesto individualistico e che si pone in solitudine: non siamo noi, da soli, a credere ma crediamo con gli altri e, con loro, partecipiamo di un comune sapere.

 

 Ora – come già sul piano meramente umano – il prossimo, con la  sua  semplice presenza e con l’apparire del suo volto, diventa richiamo dell’Altro e all’Altro, ossia richiamo di Dio e a Dio. Così, in pari tempo, il credente, nel rispetto e nell’accoglienza del prossimo qualunque esso sia, manifesta e dichiara il suo aprirsi all’Altro, cioè a Dio. Il fatto che la persona sia strutturalmente in relazione si ripercuote sul piano della natura ma anche sul piano della grazia perché gratia supponit naturam…

(il testo integrale dell’intervento è nel file allegato in calce)