Intervento del Patriarca alla 31^ edizione del Campus estivo AGIDAE “Conoscenza – Competenza – Coraggio. Ambiente e innovazione nelle scelte del futuro” (Venezia / Centro Culturale Don Orione Artigianelli, 18 luglio 2022)
18-07-2022

31^ edizione del Campus estivo AGIDAE “Conoscenza – Competenza – Coraggio. Ambiente e innovazione nelle scelte del futuro”

(Venezia / Centro Culturale Don Orione Artigianelli, 18 luglio 2022)

 Intervento del Patriarca di Venezia Francesco Moraglia

 “La scuola cattolica nella prospettiva attuale del magistero: dialogo e identità”

 

 

Saluto le autorità, i relatori e coloro che partecipano a questo Campus dedicato alla formazione e all’aggiornamento di coloro che sono preposti a differenti attività negli enti ed istituti di cui fanno parte.

Ringrazio in particolare padre Francesco Ciccimarra, presidente dell’Agidae, per l’invito a parlare nella sessione di apertura ufficiale di questa settimana veneziana.

Sono molte e importanti le “parole di riferimento” che accompagnano questo Campus – si parla di conoscenza, competenza, coraggio, ambiente, innovazione, sfide e scelte per il futuro – come numerosi sono i settori di attività nei quali siete quotidianamente impegnati ed è ovviamente difficile addentrarsi nella molteplicità di questi temi.

Mi limiterò, quindi, ad offrire alcuni spunti di riflessione che le vostre stesse “parole di riferimento” e gli ambiti d’azione dell’Agidae (scuola, sanità, assistenza) mi hanno suggerito soffermandomi poi, nella seconda parte dell’intervento, più specificamente sul tema della scuola cattolica.

Parto da una considerazione che è un dato di fatto che attraversa ogni giorno le nostre vite ed anche il lavoro di tutti noi. Siamo consapevoli di vivere nell’era della tecnoscienza, con tutto ciò che questo comporta sia in termini di costante e rapido avanzamento tecnologico sia nell’anelito a superare l’uomo e che porta a pensare e parlare di postumano e transumano.

Nel rapporto tra politica, economia, finanza, tecnica, media emerge con sempre maggiore evidenza un “paradigma tecnocratico imperante” che prende il sopravvento imponendo un modello antropologico (una visione dell’uomo) che punta ad andare oltre l’uomo e, illudendosi di “potenziarlo” (come una macchina), non ne riconosce più la dignità che comporta anche il riconoscimento dei limiti che strutturalmente caratterizzano l’uomo.

È anche facile (purtroppo!) immaginare cosa voglia dire affidare il mondo e la sua governance a soggetti che non sanno o non intendono riconoscere i limiti della persona accettandoli come costitutivi.

Siamo, inoltre, immersi in una cultura che ha escluso Dio ed enfatizza nei riguardi dell’uomo la dimensione tecnica che finisce per assumere una specificità antropologica, anche perché incide sulla percezione che l’uomo ha di sé, sul senso attribuito alla realtà e sui diversi aspetti socio-culturali della vita.

Una delle caratteristiche più evidenti di tale “paradigma tecnocratico imperante” è il cosiddetto “conformismo computazionale” della cultura digitale che porta con sé il grave rischio della standardizzazione e dell’omologazione.

Il sociologo e teologo francese Jacques Ellul, nel suo “Il bluff tecnologico” (uscito nel 1988), si esprime così: “Il primo paradigma di questa assurdità è la volontà di standardizzare tutti. È una tendenza antica, rimasta tale fino ad oggi. Nella società tecnologica si cerca di creare standard per ogni cosa allo scopo di poter poi applicare tecniche di universalizzazione e modellazione. A questo scopo si standardizza il linguaggio (serve al computer per funzionare), l’idoneità al lavoro, la formazione scolastica, i prodotti, ecc. La standardizzazione globale che agisce attraverso i media e i prodotti tecnologici e informatici, non è più un semplice prodotto della rivoluzione industriale (il fordismo) ma lo spirito stesso della tecnicizzazione generale della società”.

L’uomo, insomma, è ridotto a numero o a una serie di numeri (un codice). Noi sappiamo che nei campi di concentramento l’uomo non aveva un nome, non aveva un volto: era un numero.

L’ultimo libro della Bibbia, l’Apocalisse, ci presenta l’avversario dell’uomo, anzi l’avversario dell’intera umanità, con un numero: “Qui sta la sapienza. Chi ha intelligenza calcoli il numero della bestia: è infatti un numero di uomo, e il suo numero è seicentosessantasei” (Ap 13.18).

Questo “impianto” tecnoscientifico in sé non va demonizzato ma esso assume pure connotazioni di tipo “politico” ed è, quindi, fondamentale (ecco la questione) sapere quale “visione” ci guida, quale “progetto”, quale idea di uomo sta alla radice dell’agire, del pensare, del lavorare, del progettare il futuro. È interessante notare come le grandi aziende della Silicon Valley riconoscano, oggi, uno spazio più ampio alle lauree in filosofia, scienza che ha una qual certa affinità con la teologia.

Non è una questione o un problema recente. Infatti,  già il santo papa Giovanni Paolo II, nella sua prima enciclica Redemptor hominis (del 1979), osservava: “…esiste già un reale e percettibile pericolo che, mentre progredisce enormemente il dominio da parte dell’uomo sul mondo delle cose, di questo suo dominio egli perda i fili essenziali, e in vari modi la sua umanità sia sottomessa a quel mondo, ed egli stesso divenga oggetto di multiforme, anche se spesso non direttamente percettibile, manipolazione, mediante tutta l’organizzazione della vita comunitaria, mediante il sistema di produzione, mediante la pressione dei mezzi di comunicazione sociale. L’uomo non può rinunciare a se stesso, né al posto che gli spetta nel mondo visibile; non può diventare schiavo delle cose, schiavo dei sistemi economici, schiavo della produzione, schiavo dei suoi propri prodotti” (Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Redemptor hominis, n. 16).

Alcune domande, allora, si pongono con forza. Le acquisizioni della tecnologia offrono innumerevoli possibilità strumentali, generano autentici cambiamenti d’epoca e, spesso, risolvono problemi importanti ma quale visione, quale proposta, veicolano? Questa visione “tecnocratica” è – è nel tempo – umanamente sostenibile ed è sostenibile per il bene comune di tutti? L’uomo rimane sempre il vero centro (e fine) di tutte queste realtà?

Sarebbe da riscoprire un testo di papa san Paolo VI, che già nel 1967 – nell’enciclica Populorum progressio – rigettava l’idea che lo sviluppo (dell’uomo e di una società) fosse solo di tipo economico. Per essere vero, lo sviluppo deve essere “integrale”, ossia coinvolgere tutto l’uomo e tutti gli uomini (cfr. Paolo VI, Lettera enciclica Populorum progressio, n. 14).

Perciò è urgente recuperare il senso umano del limite e il senso autentico della libertà che non è autonomia assoluta – e, alla fine, capriccio – ma è fatta di responsabilità, una parola su cui ritorneremo.

Anche Benedetto XVI, nell’enciclica Caritas in veritate del 2009, ha sottolineato pericoli e ambiguità di una tecnica che si fa “autosufficiente” rispetto all’uomo: “Chiave dello sviluppo è un’intelligenza in grado di pensare la tecnica e di cogliere il senso pienamente umano del fare dell’uomo, nell’orizzonte di senso della persona presa nella globalità del suo essere… La tecnica attrae fortemente l’uomo, perché lo sottrae alle limitazioni fisiche e ne allarga l’orizzonte. Ma la libertà umana è propriamente se stessa solo quando risponde al fascino della tecnica con decisioni che siano frutto di responsabilità morale…” (Benedetto XVI, Lettera enciclica Caritas in veritate, n. 70).

In questo quadro Papa Francesco –  soprattutto nelle encicliche Laudato si’ e Fratelli tutti – ci spinge oggi ad un radicale “cambiamento” di pensiero, di paradigmi, di progettazione e di stili di vita. È un processo di cambiamento che ha uno scopo preciso, quello di “unire tutta la famiglia umana nella ricerca di uno sviluppo sostenibile e integrale” (Papa Francesco, Lettera enciclica Laudato si’ n. 13), ovvero “transitare” positivamente dai sistemi di produzione e di consumo attuali a forme che preservino e facciano crescere, insieme, tutte le risorse del creato e, quindi, dal capitale economico a quello sociale, dal capitale naturale a quello umano. E questo perché “tutto è connesso”, come ricorda la “Laudato si’” quando lega strettamente la difesa dell’ambiente alla difesa della vita dell’uomo, sia che si tratti di un povero, di una persona con disabilità o di un embrione (cfr. Papa Francesco, Lettera enciclica Laudato si’ n. 117).

E qui si inserisce anche la sfida educativa che è, sempre più, impegno prioritario che contraddistingue il nostro tempo nel quale sia la famiglia sia la scuola vedono ridotta la loro rilevanza, quali agenzie educative, e sono affiancate da nuove realtà, spesso non controllabili e di configurazione ambigua. E questa deve risultare, allora, una nostra precisa attenzione.

Si tratta di una sfida dura e impegnativa, ma ricca ed esaltante, perché – come diceva Papa Francesco quando era ancora arcivescovo a Buenos Aires –  «educare è di per sé un atto di speranza, non solo perché si educa per costruire un futuro, scommettendo su di esso, ma perché il fatto stesso di educare è attraversato da una prospettiva di speranza» (Card. Jorge Mario Bergoglio, Mensaje a las Comunidades Educativas, 23 aprile 2008).

La sfida educativa esige oggi che ognuno dia il suo contributo per superare ostacoli e barriere: la frammentarietà degli interventi, lo smarrimento delle famiglie, la burocratizzazione della scuola, l’inganno della “neutralità” educativa – a cui solo gli ingenui credono -, la sfiducia nella possibilità stessa di educare, la marginalità a cui viene troppo spesso relegata la formazione professionale, per rimanere solo ad alcuni esempi.

Alla Chiesa sta a cuore la scuola come bene “sociale”, come bene comune da valorizzare e promuovere. La Chiesa è per la scuola, per tutta la scuola; infatti, solo una società che sa investire risorse economiche e umane nella formazione e nell’innovazione, in ambito scolastico, può prepararsi ad un futuro nel quale la persona non venga subordinata alle scelte scientifiche, economiche e finanziarie per cui, alla fine, lo stesso lavoro non è più al servizio dell’uomo ma ne diventa il padrone.

Nella scuola c’è in gioco, innanzitutto, la grande questione della libertà; una libertà sancita ed anzi tutelata dalla Costituzione italiana che riconosce alla famiglia il dovere e il diritto di educare e istruire i figli, secondo libertà.

Rileggiamo, allora, l’art. 33, spesso citato in maniera parziale ed equivoca: “La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato. La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali” (Costituzione italiana, art. 33).

Poniamolo ora in rapporto all’art. 118 che, nell’ultimo comma, evoca uno dei principi fondamentali della dottrina sociale della Chiesa: “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà” (Costituzione italiana, art. 118).

Intuiamo bene quanta strada vi sia ancora da compiere per realizzare in modo pieno e adeguato – nel campo della scuola e della formazione professionale – quell’istanza di sussidiarietà che potrebbe valorizzare al meglio i contesti e le risorse locali, allargare le opportunità didattico-formative e dare finalmente attuazione all’autonomia e alla libertà scolastica. Entra qui in gioco, in modo insostituibile, la scuola paritaria.

La scuola paritaria collabora al bene comune e contribuisce a costruire il bene di tutti. La libertà dei genitori, la libertà delle associazioni, la libertà della Chiesa si realizzano e offrono il loro contributo al bene comune attraverso il principio della sussidiarietà: questa è la scuola paritaria, questa è la scuola cattolica.

Tale principio di sussidiarietà esclude ogni forma di monopolio scolastico, che contraddice il diritto della persona di trasmettere e generare cultura in modo libero. I monopoli sono sempre delle strade pericolose, che giovano a qualcuno ma non al bene comune.

I contributi delle varie realtà associative e delle differenti identità culturali – compresa quella cattolica – arricchiscono la società con la proposta di un insegnamento rigoroso e originale ma rispettoso dei piani ministeriali. Si allargano così le opportunità per tutti e in questo pluriforme arricchimento culturale e formativo si opera davvero per il bene comune.

Occorre dunque riscoprire, da parte di tutti, la consapevolezza che la scuola paritaria non chiede sconti o rivendica privilegi ma è impegnata – concretamente, ogni giorno – per costruire il bene comune in quello che è uno degli ambiti più importanti della vita sociale: l’educazione e la formazione che, senza retorica, sono il futuro del nostro Paese.

Anche in riferimento al campo scolastico ed educativo, unisco perciò alle vostre “parole chiave” – conoscenza, competenza, coraggio ecc. – un’altra che è la parola “responsabilità”, che domanda d’essere associata sempre a “libertà”. Non si tratta di una questione puramente “filosofica” o che si riferisce a principi disincarnati, ma va declinata nei differenti e concreti ambiti: personale, familiare, sociale, politico-istituzionale, economico, mediatico.

Si tratta di recuperare il primato della persona ed un nuovo e più corretto rapporto tra persona, ambiente, lavoro, finanza; tutto ciò chiede che le persone siano considerate non come “individui” (o prolungamenti di macchine) ma in relazione fra loro e col creato, esseri unici e irripetibili, contingenti (e perciò fragili) e aperti alla relazione con Dio. C’è una nuova visione di progresso e di innovazione che deve essere perseguita: “uno sguardo diverso (allargato), un pensiero, una politica, un programma educativo, uno stile di vita e una spiritualità” da costruire, come ancora sottolinea la Laudato si’, così da permettere alla libertà umana di “limitare la tecnica, di orientarla, e di metterla al servizio di un altro tipo di progresso, più sano, più umano, più sociale e più integrale” (Papa Francesco, Lettera enciclica Laudato si’, nn. 111-2).

C’è bisogno di un cambio di paradigma che consenta di dare spazio – nel rapporto con se stessi, con gli altri e con il creato – alla gratuità, alla creaturalità e alla fraternità; c’è da far proprio un rinnovato legame tra libertà e responsabilità dove – riprendendo la lezione di Emmanuel Lévinas – la libertà non è mai desiderio o delirio di onnipotenza (e quindi qualcosa di illimitato), ma ha un confine che è la relazione con l’altro e la responsabilità nei confronti degli altri per un bene comune superiore, una “responsabilità che oltrepassa la libertà”. E qui, poi, si apre un ulteriore cammino per scoprire e cogliere meglio la specificità di questo bene superiore.

Tra libertà e responsabilità si potrà, infine, trovare una risposta convincente a quelle domande fondamentali che l’enciclica Laudato si’ contiene e che qui rilancio: “Che tipo di mondo desideriamo trasmettere a coloro che verranno dopo di noi, ai bambini che stanno crescendo? (…) A che scopo passiamo da questo mondo? Per quale fine siamo venuti in questa vita? Per che scopo lavoriamo e lottiamo? Perché questa terra ha bisogno di noi?“ (Papa Francesco, Lettera enciclica Laudato si’ n. 160).