Dies academicus della Facoltà Teologica del Triveneto
(Padova, 19 novembre 2019)
Intervento del Gran Cancelliere e Patriarca di Venezia Francesco Moraglia
Saluto le autorità, il preside, i docenti, il personale amministrativo-tecnico e gli studenti.
Il più cordiale benvenuto al cardinale Louis Francisco Ladaria Ferrer, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, che ci onora con la sua presenza.
Il tema che ha scelto per la prolusione è stimolante – “L’obbedienza della fede” – ed è un chiaro riferimento alla lettera ai Romani dove l’apostolo Paolo scrive: “per mezzo di lui (Cristo) abbiamo ricevuto la grazia di essere apostoli, per suscitare l’obbedienza della fede in tutte le genti, a gloria del suo nome” (Rm 1,5).
Si tratta, infatti, d’entrare in un’obbedienza della fede che sia fondata antropologicamente, degna dell’uomo, e di un atto di fede che risulti libero, motivato e responsabile; un atto pienamente umano non solo dell’uomo.
Desidero qui far cenno – seppur brevemente – a due grandi teologi che prima di tutto, però, furono uomini di fede e che, in epoche molto diverse, sono diventati esempi per l’intera Chiesa.
Sono Agostino d’Ippona – il doctor gratiae (IV-V secolo) che porta in sé i caratteri della modernità – e John Henry Newman (XIX secolo) – canonizzato lo scorso 13 ottobre da Papa Francesco e che volle come cifra dell’intera sua esistenza “Ex umbris et imaginibus ad veritatem”, parole che riassumono tutta la sua esistenza di uomo, credente e teologo ed anche il suo confronto fra obbedienza e intelligenza della fede -.
Agostino e Newman hanno percorso l’arduo cammino della conversione tra grazia, fede e ragione, in spirito di obbedienza all’autorità e secondo un’intelligenza responsabile.
Le Confessioni ci narrano questo cammino verso l’obbedienza della fede da parte di un uomo che, nella grazia e nella cultura, pensa e ama. Nel commento a san Giovanni – che, dopo il De Trinitate, è la riflessione teologica più alta di Agostino su Dio – si legge: “Per mezzo della fede ci uniamo a lui, per mezzo dell’intelligenza veniamo vivificati. Prima uniamoci a Lui per mezzo della fede, per essere poi vivificati per mezzo dell’intelligenza” (Agostino d’Ippona, Commento al Vangelo di san Giovanni, Omelia 27,7).
Troviamo poi lo stesso tema – fede e conoscenza -, in prospettiva diametralmente opposta, in un altro discorso: “…nessuno ricusa di conoscere, mentre non tutti vogliono credere” (Discorso 43,4). Come a dire: se tutti vogliono capire, non tutti vogliono credere.
Agostino – come sappiamo – non pone ragione e fede in alternativa; al contrario, la ragione si muove all’interno della fede e non si dà opposizione tra ratio e auctoritas. La fede è l’incipit, l’inizio di un cammino, il punto di partenza che ha come sua meta l’intelligenza piena della fede (cfr. Agostino d’Ippona, De vera religione 24,25; Contra Academicos, 3,4,10).
Tra i battezzati i più si fermano al credere e pochi compiono il laborioso passaggio che porta il credente a “sapere” la fede, ossia il passaggio da homo credens a homo credens et intelligens.
Egli, comunque, riconosce che nella fede si percepisce una luce che domanda all’intelletto di applicarsi per comprendere ciò che crede.
Chi crede, in tal modo, non si poggia solo sull’autorità (auctoritas) del Dio rivelante ma si serve delle categorie umane (ratio), così da rifuggire ogni dualismo ragione/autorità oppure scienza/fede.
John Henry Newman – come Agostino – è un convertito ed è un grandissimo teologo. Giovane fu tutor, nel prestigioso “Oriell College” di Oxford, e qui conobbe i noetics (razionalisti) e gli evangelicals (fideisti). Gli uni e gli altri – lo comprese presto – non esprimono la retta obbedienza della fede.
Newman si applica così allo studio dell’atto di fede e lo concepisce in una ragione credente. L’espressione “God and myself” indica la relazione salvifica in cui, seppur in modi disomogenei, s’instaura il rapporto Dio- uomo nell’esperienza di fede, per cui l’atto di fede è atto del credente che non si situa al di sopra della ragione ma all’interno dell’esperienza razionale della fede. Così, con la Rivelazione, il cammino verso la fede non è un percorso tattico, una ragione disincarnata, ma una ragione nell’esperienza della fede.
Nella delicata questione dell’obbedienza della fede, soprattutto oggi – lo esige la cultura in cui siamo -, si deve porre attenzione alla libertà e alla coscienza. Newman affronterà la questione, rispondendo alle critiche mosse ai sudditi cattolici di Sua Maestà in “A letter addresed to his grace the duke of Norfolk, on occasion of Mr. Gladstone’s recent expostulation”.
Newman così rispose alle contestazioni mosse dall’ex primo ministro che, dopo i decreti del Concilio Vaticano I, accusava i cittadini cattolici del Regno Unito di non poter esser leali sudditi della Corona.
Egli rimarcò come l’obbedienza delle fede rifiuti ogni concezione che riduca la coscienza al sentimento di sé, appagato a prescindere dal rapporto con la Verità oggettiva e percepita come altro dal soggetto conoscente.
Newman, in tutta la sua vita, espresse consonanza fra coscienza e verità; per lui il diritto e la libertà di coscienza non consentono di “ignorare il Legislatore e Giudice, nell’essere indipendente da obblighi che non si vedono” (John Henry Newman, Lettera al Duca di Norfolk, V. Gambi, Milano 1999, 221).
La coscienza, così, conduce – con il suo solo esserci – a cercare l’inizio in un Altro che sta di fronte e che è percepito superiore a noi. Se così non fosse, non lo si avvertirebbe in modo perentorio e non percepiremmo, quindi, il mistero della coscienza che, ad un tempo, chiede ed impone d’uscire da sé nell’ascolto di Colui di cui la coscienza rappresenta la voce (cfr. John Henry Newman, Sermoni cattolici, XIII, Milano, 1984).
Eminenza, grazie per quanto vorrà dirci, l’ascoltiamo con attenzione.