Incontro nella Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani
(Venezia / Basilica di S. Marco, 23 gennaio 2015)
Intervento del Patriarca mons. Francesco Moraglia
Carissimi fratelli e sorelle,
ringraziamo il Signore per questa preghiera comune; è, infatti, una vera grazia incontrarci durante la Settimana per l’unità dei cristiani ed è un dono che arricchisce le nostre comunità.
Ricordiamo le commoventi parole con cui Gesù chiede al Padre di custodire i suoi discepoli afinchè permangano nell’unità: “Io prego… per coloro che tu mi hai dato, perché sono tuoi. Tutte le cose mie sono tue, e le tue sono mie, e io sono glorificato in loro. Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi” (Gv 17, 9-11).
Sostenuti dallo Spirito Santo e nell’ascolto umile della Parola di Dio guardiamo all’unico Signore; la comunione è dono che viene dall’alto e che solamente Dio può concedere. Noi, come servi umili della Sua Vigna, impegnamoci nel cammino di conversione poiché questa Settimana di preghiera ci chiama, prima di tutto, proprio a convertirci all’unico Signore; guardiamo di più a Lui.
In questo anno 2015 – cinquantesimo dalla conclusione del Concilio Ecumenico Vaticano II – ci è stato affidato il vangelo della samaritana; qui Dio assume il volto di Gesù. In tal modo, in Gesù, Dio non è più idea astratta, una tesi filosofica, una scelta etica ma la realtà più vera e più bella; soprattutto, Dio diventa accessibile ad ogni uomo. Gesù è, in pienezza, il volto umano di Dio.
Così, in Gesù che dialoga con la donna samaritana al pozzo di Sicar, so che Dio ha tempo per me e viene incontro all’umanità; questo è il primo messaggio che mi è dato. E quindi anche noi dobbiamo, a nostra volta, aver tempo per gli altri, vale a dire esprimere amore per gli uomini.
Dio non dimentica il suo popolo, lo ama più di una madre. Ricordiamo le parole del libro di Isaia: “Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai” (Is 49,15).
In questo testo – che appartiene agli oracoli scritti durante l’esilio babilonese (587-538 a.C.) – vi è una tacita profezia dell’evangelo cristiano; l’immagine è quella della tenerezza di una madre che non può dimenticare il frutto del suo grembo. In Gesù – rivelatore e rivelazione di Dio – siamo chiamati ad accogliere, nella fede e nell’amore, il mistero che ci salva, prendendo le distanze dai saperi mondani e dalle loro molteplici forme.
Nel dialogo con la Samaritana, Gesù – la forma umana di Dio – ci viene incontro con l’amore che è capace d’andare oltre i pregiudizi degli uomini e, nel dialogo, propone alla donna l’amore esigente di chi chiama a conversione.
Le parole di Gesù la scavano dentro: «Hai detto bene: “Io non ho marito”. Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero» (Gv 4, 17-18). Poi, prima d’annunciare il nuovo culto in spirito e verità, aggiunge: “Voi adorate quello che non conoscete, noi adoriamo quello che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei ” (Gv 4,22).
Gesù si rivolge a una donna samaritana, che appartiene a un popolo che si è separato dall’alleanza sinaitica e che si trova in una situazione matrimoniale alquanto problematica. Gesù parla alla Samaritana e le parla in verità; non la condanna ma le chiede ciò che di più esigente e arduo si può domandare a un uomo o a una donna, ossia la conversione.
La lunga pericope del quarto vangelo può essere racchiusa in questi pochi versi in cui cogliamo la piena e totale libertà di Dio a partire dalle parole e dai gesti di Gesù: “Intanto una donna della Samaria viene al pozzo a prendere acqua. Gesù le dice: «Dammi un po’ d’acqua da bere». …. Risponde la donna: «Perché tu che vieni dalla Giudea chiedi da bere a me che sono Samaritana?» (Si sa che i Giudei non hanno buoni rapporti con i Samaritani). Gesù le dice: «Tu non sai chi è che ti ha chiesto da bere e non sai che cosa Dio può darti per mezzo di lui. Se tu lo sapessi, saresti tu a chiederglielo, ed egli ti darebbe acqua viva» ” (Gv 4,7. 9-10).
Il teologo cattolico Hans Urs von Balthasar ci aiuta a cogliere il valore delle parole e dei gesti di Gesù, ci aiuta a leggere quelle e questi come luoghi ove si manifesta la piena e definitiva rivelazione di Dio, quel Dio che il teologo Karl Barth – nella sua teologia dialettica o della crisi – dice essere il “totalmente Altro”.
“La libertà tuttavia che appare in Cristo è quella – scrive Balthasar – del Dio che non è necessitato da niente, assoluto e riposante in sé, ma il quale si unisce per libero beneplacito alla creatura (grazia n.d.r.) in maniera indissolubile e definitiva nell’unione ipostatica, per apparire e rappresentarsi in essa … Nella finitezza di Gesù e di tuto ciò che è dato con la sua forma ed è ad essa connesso, noi teniamo l’infinito; attraverso la finitezza di Gesù e dentro la sua profondità noi incontriamo e troviamo l’infinito, o meglio siamo attratti da esso…” (Hans Urs von Balthasar, Gloria. La percezione della forma, Jaka Book 1975, p. 140).
Siamo condotti, in tal modo, nel mistero stesso di Dio che si dona rimanendo se stesso e, allo stesso tempo, offrendo realmente se stesso nella storia e per la storia.
Dio compie questo gesto senza domandarsi in modo previo se verrà accolto o no; tale è l’agire di Dio che, alla fine, si traduce nel mistero della croce-risurrezione e, quindi, della sapienza cristiana. Così, per pura fede, siamo abilitati, nel più profondo di noi stessi, a esser cristiani.
Pavel Nikolaevic Evdokimov- nella sua densa meditazione intitolata “Lo Spirito Santo nella tradizione ortodossa” – riprende il medesimo tema: “Alla soglia del mistero trinitario, san Giovanni Damasceno riepiloga i tre grandi principi della Tradizione. Ogni conoscenza di Dio dipende interamente dall’atto libero della di lui volontà. E’ il Verbo incarnato, che rivela poi alla Chiesa, di cui egli è il Capo, il Mistero delle Tre Persone divine. Infatti la Chiesa conosce il Cristo storico crocifisso, risuscitato e glorificato… Al di là di ogni speculazione o filosofia, la Chiesa annuncia l’economia trinitaria della salvezza nel suo kèrigma” (Pavel Nikolaevic Evdokimov, Lo Spirito Santo nella tradizione Ortodossa, Roma 1983, p. 39).
Ma ritorniamo ora, seppur per brevi istanti, alla pericope giovannea. Le parole divine e umane di Gesù, al pozzo di Sicar, mettono in crisi le sicurezze di questa donna e dell’intera umanità perché la samaritana è il ritratto degli uomini e delle donne di ogni tempo, anche il nostro. Così, gradualmente, poco alla volta, nel cuore della donna tutto viene riconsiderato alla luce della Parola di Dio che risuona sulle labbra di Gesù; in lei, davvero, tutto viene rivisitato a partire dalla pura Parola di Dio che è Gesù Cristo.
Alcuni temi qui espressi ci appartengono in modo particolare perché, come detto, tutti – seppur in modi diversi – siamo quella donna di Samaria che con la sua storia, le sue ferite, le sue attese e il suo inconscio bisogno di salvezza si reca al pozzo di Sicar.
Ella si reca al pozzo, quasi di nascosto, a mezzogiorno, nell’ora più calda del giorno, quando nessuno vi va; è l’ora in cui si sta a casa, al riparo dai raggi roventi del sole. E invece questa donna, proprio in quel momento, va al pozzo ignara di chi la sta aspettando.
In Gesù avviene il superamento delle idee religiose vigenti, soprattutto si dà ciò che per l’uomo è impossibile, ossia l’incontro con Dio. Gesù si rivolge a una donna – sì, una donna! – che appartiene a una stirpe diversa dalla sua – sì, ad una razza diversa! -, una donna samaritana, mentre Gesù è giudeo e, quindi, a una donna che appartiene a un’etnia che ha tradito l’alleanza, ad un’eretica.
Eppure qui Gesù si pone come il dono per tutti, nessuno escluso; in Lui, veramente, Dio si dona al di là della logica umana e solamente l’incontro con Gesù segna l’inizio del nuovo cammino che è via di salvezza. Poco alla volta, infatti, la donna di Samaria percepisce il suo bisogno di salvezza, un bisogno che solo progressivamente scopre aprendosi a quanto Gesù le narra; poco alla volta, per pura grazia, coglie l’invito di Dio.
Karl Barth ci ricorda come la centralità di Cristo si ponga, oltre che sul piano salvifico, anche su quello teologico; infatti, ogni nostra affermazione che voglia essere realmente cristiana non può non iniziare da tale nome che è in grado di dissolvere ogni ambiguità e insufficienza del nostro “dire umano”. Gesù è il volto, l’evento che troviamo a fondamento di ogni successivo discorso che voglia essere cristiano.
Scrive Barth nella Dogmatica ecclesiale: “Ogni ambiguità ed ogni oscurità sul nostro cammino sono state rischiarate nella misura in cui ci siamo attenuti a questo nome e abbiamo lasciato che esso fosse il primo e l’ultimo, secondo quanto ci testimonia di Lui la sacra Scrittura. Se solo noi lasciamo che il nome di Gesù Cristo si affermi nella nostra mente come l’inizio e la fine di ogni nostro pensiero, Dio si afferma contro tutte le fantasie e gli errori dei quali, quando vogliamo parlare di Lui, siamo prigionieri in modo apparentemente inevitabile” (K. Barth, Dogmatica ecclesiale II/II,2 s., Antologia a cura di Helmut Gollwitzer, Bologna 1968, p. 92).
In conclusione, desidero ritornare su quanto detto poco sopra, ossia sul fatto che nel 2015 ricorreranno i cinquant’anni dalla solenne conclusione dei lavori del Concilio Ecumenico Vaticano II che – in particolare con il decreto Unitatis redintegratio – segna un momento fondante per l’ecumenismo nella Chiesa Cattolica.
Lascio, quindi, alla nostra comune orazione e riflessione un significativo passo di tale testo: “Non esiste un vero ecumenismo senza interiore conversione. Infatti il desiderio dell’unità nasce e matura dal rinnovamento dell’animo, dall’abnegazione di se stessi e dal pieno esercizio della carità. Perciò dobbiamo implorare dallo Spirito divino la grazia di una sincera abnegazione, dell’umiltà e della dolcezza nel servizio e della fraterna generosità di animo verso gli altri” (Concilio Ecumenico Vaticano II, Decreto Unitatis redintegratio, n.7).
Sì, un sincero dono reciproco in una comune riscoperta dell’altro ma, soprattutto, nella nuova riscoperta di Gesù Cristo, pienezza della rivelazione di Dio.