26-10-2014
Incontro diocesano delle famiglie
La famiglia accompagna all’incontro con Cristo
“Identità e missione degli sposi e della famiglia nella società e nella Chiesa”
(Istituto San Marco / Gazzera – Mestre, 26 ottobre 2014)
Intervento del Patriarca mons. Francesco Moraglia[1]
Ringrazio per la disponibilità della vostra presenza ed entro subito in argomento, cercando anche di riprendere alcune cose che sono state dette ed inquadrandole, per quanto possibile, in un discorso di pastorale diocesana.
Credo che tanti segnali ci dicano ormai che questa è l’ora della famiglia. È l’ora della famiglia perché il Signore ci esorta sempre a scrutare i segni dei tempi e ci rimprovera dicendo: «Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: “Arriva la pioggia”, e così accade. E quando soffia lo scirocco, dite: “Farà caldo”, e così accade. Ipocriti! Sapete valutare l’aspetto della terra e del cielo; come mai questo tempo non sapete valutarlo?» (Lc 12, 54-56).
Sento questo rimprovero rivolto a me, non a voi. Perché il vescovo è colui che serve precedendo e il compito del vescovo è quello di servire non in qualche modo ma come vescovo. E la parola vescovo vuol dire “colui che guarda dall’alto” e già più di una volta ho detto non dal basso all’alto, ma dall’alto che è Cristo. Guardando Cristo il vescovo dà un indicazione.
Credo di dover dire, quindi, che questa è l’ora della famiglia. Mi spiego subito. La famiglia è chiamata ad essere soggetto di pastorale. In molte circostanze ci siamo limitati a parlare della vocazione alla famiglia e ci siamo dimenticati di dire che ogni vocazione ha una missione. La vocazione è compiuta quando si traduce in una missione, altrimenti è una vocazione interrotta, non piena, non vera, non reale.
Tutt’al più, in passato, si diceva il compito della famiglia cristiana è quello di educare bene i figli e di appoggiarsi – nel senso migliore del termine – gli uni gli altri (sposo-sposa). Oggi si chiede qualche cosa di più, di diverso. Il Vangelo della famiglia è affidato alla Chiesa, certamente, ma nella Chiesa in modo particolare alle famiglie.
Vi esorto oggi a leggere Avvenire e, inoltre, ringrazio Giorgio Malavasi di Gente Veneta perché ci ha richiamato quanto sia importante avere un discernimento sulla nostra realtà locale ed ecclesiale e sul territorio a partire da chi ci può aiutare a riflettere, informandoci in un modo attento e nello stesso tempo capace anche di una originalità che è lo sguardo cristiano, lo sguardo che viene da Cristo.
Vi cito un articolo che trovate su Avvenire di oggi, 26 ottobre 2014. Vengono citate alcune espressioni del Papa che ieri ha incontrato il movimento apostolico di Schoenstatt nel 100° anniversario della sua nascita. Il titolo dell’articolo è «La famiglia è sotto attacco». Il Papa: «Non servono bei discorsi ma accompagnare chi è in crisi». Dialogo con i partecipanti del movimento apostolico di Schoenstatt.
Ne leggo alcuni passi: “La famiglia e il matrimonio sono sotto attacco. Un attacco senza precedenti. «Mai attaccati come al giorno d’oggi», ripete il Papa col suo periodare che sottolinea sempre, con alcune ripetizioni di parole, i concetti più importanti. «In questo momento, da un punto di vista sociologico e dal punto di vista dei valori umani, c’è una crisi della famiglia, crisi perché la bastonato da tutte le parti e la lasciano molto ferita!». Francesco fa riferimento ai «drammi familiari». Ma anche alle nuove convivenze: «Sono nuove forme totalmente distruttive e limitative della grandezza dell’amore del matrimonio». Il Papa ricorda che «Maria è madre, e non si può concepire nessun altro titolo di Maria che non sia “la madre”». Perciò nessun cristiano ha diritto di «avere una psicologia da orfani». Inoltre, a un giovane che gli chiede come portare l’annuncio del Vangelo negli ambienti più difficili – alcune domande sono uscite fuori anche qui, mi pare –, Papa Bergoglio, citando Benedetto XVI, raccomanda la «testimonianza». «Vivere in modo tale che altri abbiano voglia di vivere, come noi» e si chiedano «perché?». Non c’è nulla che «supera la testimonianza». «Noi non siamo salvatori di nessuno, siamo testimoni di un “alieno” che ci salvo tutti e questo possiamo trasmetterlo soltanto se assumiamo nella nostra vita, nella nostra carne e nella nostra storia la vita di questo “alieno” che si chiama Gesù».
Nessuno di noi dubita su quanto il Papa abbia uno sguardo ottimista, fiducioso, missionario e direi anche “di attacco” nei confronti di una Chiesa che vuole sempre “in uscita”. Le sue frasi, dette appena ieri pomeriggio, vanno messe insieme a quanto accennavo prima: nella nostra Chiesa noi dobbiamo ripartire di più, o meglio con più consapevolezza, dalla famiglia. La famiglia come soggetto evangelizzatore, come soggetto della pastorale e non fruitore di un servizio ecclesiale.
Noi dobbiamo partire da una novità e non dobbiamo avere paura dei piccoli numeri. Gli inizi sono sempre – come ci ricorda il Vangelo – come il chicco di senape, che è il più piccolo dei chicchi ma poi diventa l’albero grande su cui vanno a riposare gli uccelli del cielo (cfr. Mt 13, 31-32). Non dobbiamo avere paura di tutte le difficoltà che sono uscite.
Nella loro testimonianza Valentina e Leonardo hanno parlato di un ritorno: “Noi siamo quello che abbiamo vissuto”. E questo è fondamentale. Ognuno di noi è anche la sua storia e il ritorno ci può essere perché c’è stata un’esperienza passata. Ci siamo conosciuti in parrocchia, ci siamo fidanzati in parrocchia, ci siamo sposati in parrocchia, la parrocchia ci ha aiutato, le nostre figlie hanno vissuto e continuano a vivere in parrocchia. Ed ecco l’idea di restituire qualcosa, non come singoli ma come coppie, come famiglie, andando dai nostri parroci – che sono certamente d’accordo ma sono anche loro alla ricerca di una disponibilità – dicendo: noi siamo pronti, noi siamo disponibili.
L’inizio è sempre difficoltoso perché – come diceva Papa Francesco citando Benedetto XVI – si tratta di “vivere in modo tale che altri abbiano voglia di vivere, come noi e si chiedano «perché?. Non c’è nulla che supera la testimonianza”. Ad un certo punto Leonardo ha detto: “Quante volte ci sentiamo dire dai nostri coetanei, a loro volta sposati, con un certo imbarazzo: ma non avete altro da fare? Ma avete il tempo di fare queste cose?”. Noi abbiamo bisogno, nelle nostre comunità parrocchiali,di persone che portino altre persone a porsi questa domanda.
Come è possibile che ci sia qualcuno che si mette a disposizione nell’attività frenetica di questo nostro mondo contemporaneo, in cui abbiamo mille possibilità per facilitare la comunicazione? E proprio per questa facilità di comunicazione aumentano gli impegni e… ci mordiamo la coda! Quante cose possiamo fare ora col cellulare che non potevamo fare 20 anni fa? E quante cose si sono moltiplicate a causa del cellulare? Tra cellulare, mail, messaggi, internet… quante opportunità che generano a loro volta altre opportunità! Ma poi rischiamo di essere esauriti…
Credo sia molto importante la domanda che una vita di coppia può generare nella comunità: ma avete tempo di fare questo? Le 24 ore le abbiamo tutti, i figli li abbiamo tutti, il lavoro lo abbiamo tutti e poi magari ci sono anche i nostri genitori che non stanno sempre bene e che vanno aiutati… Sì, però, noi crediamo in questo: la famiglia deve tornare ad essere un soggetto, non più un oggetto fruitore di servizi, perché il Vangelo della famiglia è annunciato bene dalle famiglie, da chi fa vedere – come è stato detto in una testimonianza – che vivere la fede cristiana è bello ed è possibile, non è semplicemente un utopia o un auspicio. Il problema più importante che abbiamo e sul quale richiamo la vostra attenzione è questo: trovare delle coppie capaci di formare altre coppie.
E’ il problema di formare i formatori che, in questa settimana, mi è stato ribadito anche da altre e differenti realtà. Noi dobbiamo riuscire a costituire quei nuclei di partenza per arrivare a qualcosa che, al momento, mi pare non ci sia ancora e, cioè, che la pastorale della famiglia diventi pastorale ordinaria, quella pastorale che scandisce, accompagna e ritma la vita delle nostre parrocchie durante l’anno. Ecco la grande sfida e ciò su cui noi dobbiamo cercare veramente di investire: due, tre o quattro coppie che possano costituire il punto di partenza.
Valentina e Leonardo dicevano appunto: “Per noi è un ritorno, siamo quello che abbiamo vissuto e le nostre stesse figlie ci hanno stimolato a un ritorno”. Dobbiamo fare in modo che le nostre famiglie siano veramente aperte, non solo all’importantissima educazione dei figli.
La prima testimonianza di Antonella e Francesco ha ripercorso un percorso segnato anche da tante difficoltà: veniamo da Vicenza, siamo andati ad abitare per motivi lavorativi in una realtà che, in un certo senso, ci sradicava… e poi quando i nostri figli avevano qualche piccola patologia legata all’età bisognava gestire la giornata garantendo, in qualche modo, una presenza… e così via.
Ci sono periodi strutturali nella famiglia in cui – immagino – ci debba anche essere un doveroso concentrarsi nelle pareti domestiche ma questo può anche diventare una tentazione. Noi ci sentiamo cristianamente a posto quando ci siamo impegnati nell’educazione dei figli, quando abbiamo cercato di creare la pace familiare e la fedeltà con tutto quello che ciò comporta, ma sono convinto che il battesimo e il sacramento del matrimonio ci aprano ad una dimensione ecclesiale, di testimonianza, di evangelizzazione e di apostolato a partire proprio dal fatto che si è sposi, si è marito e moglie e, quindi, si hanno un carisma e delle grazie particolari non solo per vivere il sacramento ma anche per annunciare il sacramento.
Dalla testimonianza di Antonella e Francesco ricavo un’altra cosa che ritengo importante. A un certo punto hanno detto che la vita delle persone si misura con le gioie e soddisfazioni ma anche con le difficoltà, i problemi, le sofferenze… La vita è fatta di luci e di ombre, di momenti in cui si cammina in una strada larga e pianeggiante e altri in cui la vita di una persona o di una famiglia si inerpica come una strada di montagna. Come sempre accade, a chi si mette in un ascolto più profondo della realtà, i momenti difficili sono quei momenti in cui siamo chiamati a entrare dentro noi stessi, a guardare dentro noi stessi e a fare un esame di coscienza. Sono i momenti in cui il Signore ci propone delle opportunità diverse.
Il messaggio importante che ci è venuto da Antonella e Francesco è, secondo me, questo: noi dobbiamo lasciarci interpellare personalmente dal rapporto con Gesù. Personalmente, tenendo conto che siamo uniti in matrimonio come coppia. E come partner di una coppia dobbiamo sempre guardare la nostra vita a partire dal Signore. Dicevo qualche sera fa a Venezia, in S. Marco, che il dialogo è fondamentale per superare le difficoltà anche pastorali.
Quando si tratta di ripensare la pastorale – passando, ad esempio, da una dimensione parrocchiale ad una interparrocchiale – il dialogo è importante. Il dialogo di un cristiano, però, è sempre a tre: io, l’altro, a partire da Gesù Cristo che è il vero riferimento del mio dialogo. L’indicazione che ci è venuta da Antonella e Francesco è proprio questa: andare a fondo nella nostra vita, andare a fondo nel rapporto col Signore perché è solo guardando negli occhi il Signore che ognuno di noi è chiamato a riscoprirsi e, quindi, anche a riscoprire il suo matrimonio.
In questa prospettiva vorrei citare adesso il testo di un autore che vi inviterei a conoscere – Charles Péguy – e che parla del padre di famiglia come “vero avventuriero”. Questo testo mi è stato trasmesso da un padre di famiglia, con il quale ogni tanto mi trovo a colloquiare, una persona molto impegnata che attende il quarto figlio, una persona molto ricca interiormente ma anche molto realista. Mi ha indicato questo scritto, di cui io vi leggerò solo alcune righe. L’autore è molto famoso e, tra l’altro, siamo proprio nel centenario della sua morte che risale alla prima battaglia della Marna (5 settembre 1914). È stato riscoperto in tanti suoi scritti e pensieri anche geniali.
E’ un testo piuttosto lungo e variegato, che richiederebbe di essere pensato e meditato, perché – in un certo senso – mi sembra riproporre quello che il Papa diceva ieri in modo positivo e uscendo un po’ da certi slogan secondo i quali sembra che la famiglia, adesso, sia qualcosa che ormai appartiene al passato…
Péguy, col suo stile, dice che il padre di famiglia – ma io prego di mettere qui anche la madre di famiglia – è il vero avventuriero. Dobbiamo avere il coraggio di rompere certi luoghi comuni. Mettere su famiglia vuol dire avere coraggio, soprattutto in questo contesto, in questa società… Dobbiamo, anzi, ricreare una società nuova. Il vero coraggio è oggi dire “sì, per sempre” a una persona, rendendosi disponibili al dono della vita e facendo un servizio grande alla Chiesa e alla società civile.
Leggo solo alcuni pensieri di Péguy: “C’è un solo avventuriero al mondo, e ciò si vede soprattutto nel mondo moderno: è il padre di famiglia. Gli altri, i peggiori avventurieri non sono nulla, non lo sono per niente al suo confronto. Non corrono assolutamente alcun pericolo, al suo confronto. Tutto nel mondo moderno (eravamo nel 1914), e soprattutto il disprezzo, è organizzato contro lo stolto, contro l’imprudente, contro il temerario, Chi sarà tanto prode, o tanto temerario? Contro lo sregolato, contro l’audace, contro l’uomo che ha tale audacia, avere moglie e bambini, contro l’uomo che osa fondare una famiglia (ma, ripeto, leggiamolo anche in termini femminili). Tutto è contro di lui. Tutto è sapientemente organizzato contro di lui. Tutto si rivolta e congiura contro di lui. Gli uomini, i fatti; l’accadere, la società; tutto il congegno automatico delle leggi economiche. E infine il resto (noi oggi, ad esempio, abbiamo un sistema fiscale per il quale conviene essere separati… E la Francia, pur molto laica, ha tutele più grandi per la politica familiare). Tutto è contro il capo famiglia, contro il padre di famiglia; e di conseguenza contro la famiglia stessa, contro la vita di famiglia. Solo lui è letteralmente coinvolto nel mondo, nel secolo. Solo lui è letteralmente un avventuriero, corre un’avventura” (Charles Péguy, Véronique. Dialogo della storia e dell’anima carnale, Piemme, 2002, pp. 103-104).
Penso poi al fatto che, probabilmente, è facile essere papà e mamma quando i nostri figli sono molto piccoli, quando si indicano loro determinate cose e loro le accolgono. E com’è poi più difficile invece essere padri e madri, educare, sapere quando parlare e quando tacere, scoprire il modo in cui parlare, interrogandosi se una parola può essere eccessiva o se un silenzio può essere comodo, quando i figli entrano nell’adolescenza in un contesto, in una cultura e con dei messaggi mediatici che vanno in gran parte in senso opposto rispetto ai valori che abbiamo cercato di trasmettere, ai valori del Vangelo.
Se prendete il Vangelo secondo Luca trovate l’episodio di Gesù smarrito nel tempio e ritrovato (cfr. Lc 2,41-52). Qui c’è una domanda posta sulle labbra di Maria e sulle labbra di Giuseppe; anzi, se ne fa portatrice Maria ma è certamente la domanda di tutti e due. Il Vangelo conclude che, di fronte alla risposta di Gesù, Maria “custodiva tutte queste cose nel suo cuore”.
Gli aveva detto: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». Maria aveva vissuto giorni di trepidazione e Gesù era rimasto a disquisire nel tempio su Dio e sull’alleanza con i saggi di Israele, i dottori della legge. E la risposta di Gesù è: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?».
Cosa vuol dire? Che i figli, che derivano dalla nostra carne e dal nostro sangue, non sono nostri. Nel caso di Gesù non si tratta di tradire i valori che, a Nazareth, Maria e Giuseppe gli avevano comunicato, ma di andare oltre quella che poteva essere la sapienza di Maria e Giuseppe. Molte volte nella nostra realtà ciò avviene, ad esempio, quando un figlio abbraccia una vocazione spirituale o di altro tipo rispetto a quella che poteva essere un’aspettativa dei genitori. E allora c’è bisogno di fare una sorta di esame di coscienza, perché il rischio di impossessarsi del figlio è sempre in agguato.
Esiste poi anche un altro versante, quando un figlio o una figlia – arrivati ad una certa età – sembrano prendere strade diverse. Qui c’è un altro modo di stare vicino ai nostri figli, un modo più difficile, non scontato e più eroico. Bisogna continuare, in queste circostanze, a testimoniare e a saper dire, chiedendo al Signore di trovare i momenti giusti per il parlare e i momenti giusti per il tacere, perché ci può essere una frase inopportuna, una frase detta sotto l’impeto della rabbia o un silenzio comodo che corrisponde a un mio disimpegno dicendo “tutti fanno così”…
E’ un modo diverso, in cui si vede veramente la qualità del genitore nello stare vicino al figlio. C’è qui da riscoprire qualcosa di fondamentale: il valore della preghiera. C’è un pensiero che ogni tanto cito: quando non si può parlare di Dio a una persona, parla a Dio di quella persona. Il momento dell’educazione – molte volte – è il parlare, il tacere, il soffrire e il pregare per questi nostri figli.
L’altra cosa che mi sento di dire – la dico con molta sicurezza ed è uscita fuori anche da una delle vostre domande – è che le cose che si sentono in famiglia, comunque sia, sono importanti anche e soprattutto quando non ce la danno vinta, perché appartiene a quella stagione della vita che è l’adolescenza porsi non solo alla ricerca di qualcosa ma anche contro qualcosa o contro qualcuno.
Quand’ero un ragazzino di 6/8 anni, io avevo diviso le persone in due categorie: quelle che non stavo a sentire e quelle che stavo a sentire. Il criterio era molto semplice: non stavo a sentire le persone che mi accostavano solo per rimproverarmi; invece stavo a sentire, ma non la davo loro vinta, quelle persone che – anche quando mi rimproveravano in modo forte e ogni tanto capitava in famiglia… – si accorgevano dei momenti in cui ero triste oppure notavano i miei sforzi nel fare qualcosa.
Quando il rimprovero mi arrivava in modo anche forte da quelle persone, l’atteggiamento era quello di essere provocante, di sfidarle e di rispondere ma, nello stesso tempo, già mentre rispondevo incominciavo a pensare: “Perché mi dice questo?” oppure “Ha ragione di dirmelo”… Anche la sofferenza appartiene all’educazione.
Vi cito ora un autore illuminista, molto famoso e molto citato, Jean-Jacques Rousseau. Ha scritto un’opera che ha fatto epoca – “Emilio o dell’educazione” – strutturata in cinque parti: parla della prima fase del bambino fino a quando è in grado di parlare, la seconda fase arriva poi fino ai 12 anni, la terza dai 12 ai 15 anni, la quarta dai 15 ai 20 e infine quando l’allievo – come lui dice – è ormai pronto per entrare nella società.
Rousseau ha fatto scuola come pedagogista, come educatore; si sposò con una donna che gli diede cinque figli e che furono, uno dopo l’altro, tutti affidati all’orfanotrofio. Educare non è conoscere scientificamente qualcosa, non è avere la laurea in pedagogia; l’educazione è un’arte, è una vita, è una dedizione, è quello che le nostre famiglie devono cercare di fare e possono cercare di fare con l’aiuto del Signore.
Per quello che riguarda il rapporto delicato e difficile con la società, come rapportarci ad una cultura e allo strapotere dei mezzi di comunicazione sociale – che ci portano a ragionare e pensare in un determinato modo senza nemmeno rendercene conto, anzi credendo di essere liberi e autonomi… – vi dico che bisogna costruire delle reti, con scelte coordinate, con un rapporto tra le famiglie e un legame forte con una parrocchia che abbia un programma e un progetto educativo per il patronato che, qui in Veneto, è ancora una bella realtà. E bisogna pensare ad un’alleanza anche col mondo della scuola, dove è possibile.
Dobbiamo cercare di arrivare a reimpossessarci delle scelte culturali; molte volte abbiamo preferito – nei nostri gruppi ecclesiali – puntare a dei gesti concreti, molto preziosi, ma così abbiamo dimenticato l’importanza del modo di pensare, di valutare, di ragionare, della cultura.
Cultura non è sapere il greco, il latino o la filosofia… Oggi fanno cultura le fiction televisive, i film, i romanzi, la moda, il modo di vestirsi, gli spot pubblicitari che veicolano messaggi legandoli a determinati prodotti… Che cos’è la cultura di una società, allora? E’ la sintesi tra le conoscenze e i valori.
Dobbiamo essere più capaci di tornare a dare cultura ai nostri figli. E forse nei nostri gruppi ecclesiali, negli ultimi decenni, questo terreno non è stato battuto a sufficienza.
[1] Il testo – non rivisto dall’autore – riporta la trascrizione dell’intervento pronunciato dal Patriarca in tale occasione e mantiene volutamente il carattere colloquiale e il tono del “parlato” che l’ha contraddistinto.