65° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica
Premio ‘Fondazione Don Gnocchi’
al film che meglio affronta i temi dei diritti del malato
e della dignità dei più fragili, soprattutto dei bambini
Venezia, 3 settembre 2008
Intervento di S.E.R. Card. Angelo Scola, Patriarca di Venezia
1. «Molti e profondi sono i problemi che il dolore pone alla mente umana, anche se illuminata e guidata dalla fede; ma uno certamente tra i più delicati e conturbanti è costituito dalla apparente capricciosità nella sua distribuzione tra gli uomini.
Se il dolore infatti, come è facile e quasi naturale ammettere, è pena ed espiazione della colpa, dovrebbe pesare maggiormente su quelli, tra gli uomini, che più gravemente hanno peccato.
Invece avviene di constatare molto spesso il contrario e, fino dai tempi del salmista ‘ che più volte se ne lamenta con accenti di drammatica potenza ‘ i peccatori trionfano ed i giusti soffrono, spesso a cagione della loro stessa giustizia.
Tipico e più conturbante di tutti è il caso dei bambini che soffrono.
Quante volte infatti, dinanzi alla pena di un bimbo morente o sofferente, avviene di raccogliere espressioni come queste: ‘Mio Dio, perché fai soffrire questo innocente; perché non colpisci me che sono un peccatore?’ e quante altre volte io ho colto sulle labbra dei bimbi, al momento di un’operazione dolorosa, l’espressione ricorrente ed uguale in tutti, perché dettata dalla coscienza: ‘Perché mi fate soffrire? Io non ho fatto nulla di male!’.
Vale la pena di studiare questo caso-limite, perché io credo che, quando si arriva a comprendere il significato del dolore dei bimbi, si ha in mano la chiave per comprendere ogni dolore umano e chi riesce a sublimare la sofferenza degli innocenti è in grado di consolare la pena di ogni uomo percosso ed umiliato dal dolore» (C. Gnocchi, Gli scritti, Milano 1993, p. 751).
Prima però di entrare nel merito del mio breve intervento, conviene citare un altro passaggio che fa riferimento alla scelta radicale di don Gnocchi di seguire, come cappellano militare, prima la divisione alpina Julia in Albania e poi la Tridentina nella campagna di Russia con la tragica ritirata. Più volte don Gnocchi rischia la morte.
«Con questa drammatica evidenza s’imponeva al mio spirito questa verità durante la guerra, di fronte al corpo straziato ed esangue dei miei alpini!
Quante volte mi sono domandato in qual modo e in che misura entrassero questi poveretti nelle feroci diatribe che avevano diviso il mondo ed avevano messo gli uomini accanitamente gli uni contro gli altri.
Poveri montanari, tirati su nelle baite a forza di pan duro e di Rosari, strappati alle loro montagne ed ai loro pascoli, intruppati, condotti di fronte ad altri uomini, semplici e ignari come loro, con l’ordine di uccidere per non essere uccisi; che cosa sapevano essi della guerra e delle sue ragioni, questi ‘umili che lavorano e non sanno’, in nome dei quali il Papa Pio XI aveva scongiurato i Governanti a voler riflettere, prima di far ricorso alla ragione irragionevole delle armi?
Eppure pagavano anch’essi e forse essi più degli altri in confronto a quelli che sapevano o credevano di sapere, le cause di tutto quello che stava tragicamente avvenendo» (Ibid, 753-754).
2. Perché la Fondazione Don Gnocchi ha scelto di istituire un premio per il cinema e non per altre forme artistiche?
a) Anzitutto vi è un dato di fatto: la passione di don Gnocchi per il cinema cui dedicò, già nel 1940 (don Gaffuri) un saggio non sprovvisto di spunti ancora attuali.
b) Ma la ragione profonda sta senz’altro nell’imponente forza simbolica del linguaggio cinematografico, che resta e resterà insuperato anche con il dilagare del fenomeno dei new media.
Il cinema, quando è autentico, quando appunto legge il reale in forma simbolica e non immaginaria, tocca il vertice dell’arte. Spalanca all’infinito la persona non come individuo, ma appunto come persona, strutturalmente solidale a tutta la famiglia umana. L’esperienza di don Gnocchi con i mutilatini prima e con i bambini poliomielitici poi gli insegna una pedagogia del dolore innocente fondata su questa umana solidarietà che l’avvenimento di Cristo, l’Innocente per eccellenza che si è immolato per la nostra salvezza, esalta fino alla sua massima potenzialità.
Il racconto del dramma personale, di solidarietà e de-solidarietà che la forma simbolica del cinema può offrire tocca i vertici espressivi della manifestazione artistica.
Il dolore e la morte non si possono definire; si possono però condividere («Guarderanno a Colui che hanno trafitto») lasciandosi educare da questo sguardo e perciò educando chi li vive. E il cinema, per la sua stessa natura, è uno strumento privilegiato per conseguire questo scopo.
Né si può evitare di porci una domanda: che cosa attanaglia con più forza il cuore dell’uomo della questione del dolore e della morte come condizione obiettiva per affrontare la vita, per quanto possibile, in pace?
Il cinema si occupa giustamente di tutto l’umano nelle sue multiformi manifestazioni, ma quella del dolore (ed in particolare del dolore innocente) e della morte è in un certo senso la più radicale, perché la più compiutamente espressiva di ogni esperienza (Le Scaphandre et le papillon, Julian Schnabel; La Neuvaine, Bernard Émond).