Intervento al Convegno internazionale ARTE E LITURGIA NEL NOVECENTOESPERIENZE EUROPEE A CONFRONTO
10-10-2003

ARTE E LITURGIA NEL NOVECENTO
ESPERIENZE EUROPEE A CONFRONTO
Convegno Internazionale
Scuola Grande di San Teodoro
Venezia, 10 ottobre 2003

S.E. Mons. Angelo Scola
Patriarca di Venezia

«Gesù Cristo, in quanto uomo, utilizza tutto l’apparato espressivo umano dell’esistenza storica – dalla nascita alla morte – in tutte le età, le condizioni, le situazioni individuali e sociali. Egli è ciò che esprime, cioè Dio (possiede la natura divina), ma Egli non è Colui che Egli esprime, cioè il Padre (è differente, nel Suo essere personale, dalla persona del Padre). Paradosso incomparabile che costituisce il punto originario dell’estetica cristiana e quindi di ogni estetica!» . Queste parole di Hans Urs von Balthasar, che come è noto ha fatto dalla percezione della forma (estetica) il punto di partenza privilegiato della sua riflessione, mettono immediatamente in evidenza il grande paradosso che caratterizza l’arte.
Balthasar lo spiega a partire dall’esperienza archetipica di Gesù Cristo. Egli, il Figlio di Dio fattosi uomo, «tota Sui ipsius praesentia ac manifestatione» (‘col fatto stesso della presenza e della manifestazione di sé’) – come dice il n. 4 della Dei Verbum – è ciò che esprime e contemporaneamente non è Colui che Egli esprime e che pure costituisce la Sua Origine eterna: il Padre, fons totius divinitatis.
L’arte è forse l’esperienza umana in cui questa insuperabile polarità si manifesta in modo più acuto. Essa è, infatti, intrinsecamente espressione dell’uomo che la pone in essere e, nello stesso tempo, rivelazione del mistero più profondo da cui lo stesso artista è perennemente generato. Si può dire che tale dinamica tocchi il vertice nel rapporto arte e liturgia. Infatti quando l’arte entra in rapporto con la liturgia è chiamata a collaborare all’azione simbolica per eccellenza. Nel pane e nel vino transustanziati in corpo e sangue di Gesù Cristo, la forma (Gestalt), sulla scorta del paradosso cristico prima richiamato, appare come originariamente duale. Nell’Eucaristia si vede bene ciò che si rileva in tutte le manifestazioni dell’umana contingenza: l’originario non è né uno spirito senza corpo, né un corpo senza spirito. Ogni pretesa di annullare la dualità alla ricerca di una originarietà univoca è destinata al fallimento. Ed è così a partire da Platone per quanti vogliono sostituire il simbolo (segno del vero) con l’allegoria (il dire diversamente). E lo stesso capita a quanti, con Aristotele, si ostinano a fermarsi al puro fenomeno. Senza il simbolo, sempre drammaticamente duale, non c’è forma, figura (Gestalt). E senza forma non c’è arte.
Come la creazione artistica trova la via per esprimere il paradosso (polarità) della forma? San Bonaventura parla di expressio della impressio che la gloria del Mistero esercita sulla mente, sul cuore e sull’energia operativa dell’uomo. Esprimere l’impressione ricevuta: ecco la dinamica della creazione artistica.
Se il Mistero che abita la realtà non lascia in noi questa impressio, cioè non ci segna, non imprime il suo sigillo, a tal punto da muoverci, quasi fisicamente, ad esprimere il nostro modo di averla percepita (pulchrum), amata (bonum), compresa (verum), non si dà arte. E qui giova notare quanto afferma Tommaso: «Una cosa non è veramente compresa fin che non è comunicata».
Quali conseguenze sarebbero da cavare per l’arte in relazione con la liturgia! Limitiamoci ad una, ma assai imponente. L’aveva vista Jacques Maritain e, con lui, Stanislas Fumet quando, nel suo ancor attuale Processo all’arte (Milano 2002) afferma: «Chiamata ad esprimere il bello non si domanda all’arte, giustamente, che una testimonianza».
La figura compiuta dell’artista è quella del testimone, del martire. Egli patisce e soffre l’impressio del Mistero che si dona in maniera così potente da accompagnare gli altri uomini a coglierne il significato proprio attraverso l’expressio. Ecco la genesi della forma, cioè dell’arte.
C’è una condizione che facilita l’impressio creando il terreno favorevole per il fiorire di expressiones. Se l’arte si identifica ultimamente con l’expressio che l’impressio provoca in noi, come prescindere da quella che è la mediazione intrinseca con cui il Mistero si comunia ed ‘imprime’ in noi la Sua verità, il Suo splendore? Questa forma è la Chiesa, il popolo santo di Dio che scaturisce dal battesimo e viene permanentemente rigenerato nell’Eucaristia. Non si può pensare all’architettura e all’arte in relazione agli edifici di culto se non a partire da questo nucleo incandescente.
Con questo popolo, con la sua vita concreta, con la sua esperienza umana, con la sua autocoscienza, deve fare i conti continuamente l’artista. Prescindere dall’appartenenza forte a questo popolo (se un architetto non fosse credente dovrebbe trovare strade personali ed innovative per viverla) ‘ la cui radice è la liturgia – lo porterebbe, infatti, ad inseguire la propria immaginazione abbandonando l’affascinante campo dell’impressio e condannandosi inesorabilmente alla sterilità.