Intervento al 5° convegno della Pastorale della Salute su "Salute e parrocchia"
08-11-2003

1. I soggetti in gioco
Niente come la sofferenza e la morte mette in gioco il significato dell’uomo. Esse svelano cosa ha veramente valore nella sua vita. La sofferenza e la morte sono quindi, in questo senso, la prova più radicale della verità dell’uomo, ne vagliano la consistenza o meno. Ammalarsi, più o meno gravemente, è scoprirsi esposti al nulla, nel momento in cui si riconosce di possedere un valore unico, irripetibile e, in un certo senso, assoluto.
A ben vedere è proprio questo suo carattere essenziale, che mette in gioco la totalità dell’io, a spiegare il grande peso che la questione della salute possiede nella società attuale. La salute è cifra di ogni società in ogni tempo, proprio perché essa è cifra dell’esperienza umana elementare. Ad essa è sospesa la stessa sopravvivenza della libertà. Più cresce la coscienza del valore singolare della persona più una società investe energie nella salute. Per questo le società economicamente più ricche vi dedicano una quantità di risorse di ogni natura – da quelle affettive a quelle economiche – fino a far diventare la salute, nel bene e nel male, uno degli elementi distintivi della qualità della vita. I giornali ce lo ricordano tutti i giorni.
Questa cura della salute mobilita una rete complessa di persone: paziente, famiglia, operatori sanitari’ tutti sono chiamati in causa e per farlo nessuno può prescindere degli altri.
Tuttavia i principali soggetti coinvolti a partire dalla salute non sempre prendono esplicita coscienza della pro-vocazione a decidersi per la verità della propria esperienza umana contenuta nella malattia/morte personale, del familiare, del paziente. Non si vede l’obiettivo legame tra salute e salvezza.

2. Famiglia e salute: un rapporto ‘insuperabile’
Una decina di giorni fa è stato presentato a Venezia l’Ottavo Rapporto CISF sulla famiglia in Italia, promosso dal Centro Internazionale di Studi sulla Famiglia sotto la direzione del sociologo Pierpaolo Donati. Esso ha voluto studiare la famiglia come capitale sociale o, per essere più precisi, il ruolo che la famiglia gioca – o non gioca! – rispetto al cosiddetto capitale sociale in Italia. Il rapporto mostra assai bene come la promozione della famiglia quale capitale sociale primario, positivamente correlato a quello secondario (proprio degli altri corpi intermedi che animano la società civile), chiede da una parte di evitare il ricorso ad attitudini, procedure e linguaggi confusivi a proposito di ciò che sia effettivamente famiglia, mentre dall’altra rende consapevoli che dilapidare il capitale sociale in genere e quello primario familiare in particolare, finisce sempre per produrre povertà.
Il Quarto Convegno della Pastorale della Salute del nostro Patriarcato aveva affrontato il tema del rapporto famiglia e salute, evidenziando l’importanza della famiglia come capitale sociale nel mondo sanitario. Il ruolo protagonista della famiglia, per quanto riguarda la salute dei suoi membri, risulta evidente dalla definizione stessa di salute come ‘lo stato di benessere corporeo, psichico e spirituale’. Proprio in famiglia ognuno di noi impara l’amore perché è accompagnato a riconoscere che, per poter dire ‘io’ in modo autentico e quindi adeguato e composto, è necessario fare posto all’altro. In famiglia, quando si impone la malattia/morte, ogni membro è provocato a cogliere il nesso salute/salvezza. Come posso durare sempre (salvezza), se sono esposto alla morte? Da qui la domanda di salute: «Guariscimi e rendimi la vita» (Is, 38-16), «Se vuoi puoi guarirmi» (Mc 1,40).

3. La parrocchia una dimora per la famiglia
In questo contesto di riflessione come si inserisce il riferimento alla parrocchia? Qual è il suo compito e come può portarlo a termine?
Ecco gli interrogativi che sono alla base del Convegno di quest’anno e che tengono conto della particolare trasformazione del sistema sanitario in atto nella nostra società. Infatti la previsione di minor ricoveri nelle strutture ospedaliere e la riduzione della loro durata richiedono maggiore assistenza domiciliare. Non intendo entrare in valutazioni di merito circa questi orientamenti di politica sanitaria generale. Mi preme piuttosto soffermarmi sul dato, accuratamente e prontamente rilevato dagli attori della Pastorale sanitaria del nostro Patriarcato, che la comunità cristiana, radicata nel territorio, è chiamata a sostenere le esigenze di ‘cura’ nel senso integrale del termine prima accennato (salute/salvezza) delle famiglie.
Proprio in questa linea abbiamo voluto nel nostro Patriarcato avviare, con il presente Anno Pastorale, una riflessione su Il volto missionario della parrocchia, aggiungendo un sottotitolo che specifica concretamente cosa si intende dire: La comunità cristiana in missione nella vita quotidiana. Riprendo qui alla lettera qualcuno di quei suggerimenti offerti a tutti i soggetti ecclesiali e non solo ad essi.
Gesù propone a chi lo vuol seguire un nuovo, potente modo di essere familiari. La familiarità inserisce l’io in una trama di rapporti affettivi che lo accolgono e lo fanno crescere. Ebbene, la familiarità provocata da Gesù poggia su due elementi inscindibili: l’avere sì una casa in cui uno possa vivere con i suoi, ma per spalancarla, attraverso l’annuncio, a tutti. Cosa ha fatto Gesù, e poi Pietro, Giacomo, Giovanni e Paolo e via via tutti gli altri Suoi seguaci, se non proporre questa esperienza: partire dagli affetti, come condizione indispensabile per la crescita del singolo, per renderlo capace di edificare socialità (lavoro) abbracciando chiunque la Provvidenza pone sul suo cammino? E ricordiamo il peso che la guarigione ha nella missione di Gesù e dei suoi. Veramente il cristianesimo è la nuova parentela, più potente di quella della carne e del sangue. I cristiani, senza nulla togliere agli affetti familiari, sono chiamati ad amare e ad amarsi a partire dal definitivo centro affettivo dell’esistenza che è Gesù Cristo.
Fin dal IV secolo la Chiesa ha trovato nella parrocchia la strada normalmente più efficace per attuare questo dilatarsi della familiarità. Possiamo dire che la parrocchia ‘ la chiesa ‘tra le case vicine’ ‘ è il luogo di quell’educazione integrale degli affetti che sviluppa la capacità di edificazione (lavoro). La parrocchia compie questa sua missione attraverso l’innesto della parentela naturale nella nuova parentela donata dallo Spirito del Crocifisso Risorto. La parrocchia è la comunità in cui la casa è assunta in una più ampia dimora. La famiglia si arricchisce e trova il suo equilibrio oggettivo nella trama stabile di rapporti che la comunità parrocchiale propone. La condizione per questo è l’annuncio che apre gli affetti della carne e del sangue all’affezione di comunione in Cristo. Questa è la diretta e quotidiana missione con cui la parrocchia si prende cura dei suoi membri dalla nascita alla morte.
Senza questa missione la casa non diventa dimora. Infatti, come spesso costatiamo, senza la dimora della comunità, la casa (la famiglia) per sé sola non ce la fa! Il volto missionario della parrocchia è quindi originario e costitutivo.
Scrive in un poema del 1965 Giovanni Paolo II: «Dove Tu non sei vi è solo gente senza casa» . È la presenza di Gesù Cristo che permette all’uomo di trovarsi ‘a casa’, di essere continuamente ripreso e ricostituito nella trama degli affetti e nella capacità di lavoro secondo l’integrità del suo volto. Ma questo è possibile perché la stessa presenza di Cristo spinge la libertà del cristiano ‘fuori dalle mura di casa’, per annunciare con gratitudine la grazia ricevuta. Egli è consapevole che, a partire dalle ‘case vicine’, l’orizzonte della sua casa è il mondo. «Il campo è il mondo» (Mt 13,38).
Il nesso inscindibile tra casa e missione che realizza la parrocchia-dimora è costituito da un vitale noi ecclesiale, sempre e inscindibilmente personale e comunitario. La Chiesa si realizza in me, in te, in ogni fedele ma inseparabilmente dalla oggettiva comunione con tutti i battezzati. La missione nella vita quotidiana, in cui si delinea sempre più chiaramente il volto della dimora dei cristiani, poggia su un soggetto in azione, costituito dal singolo mai dissolvibile nel collettivo, proprio perché profondamente radicato nell’appartenenza liberante della communio. Una comunità dall’appartenenza forte: molto concreta e ben identificabile in tutti i lineamenti che la caratterizzano e che la rendono inconfondibile rispetto ad ogni altro collettivo.

4. Parrocchia e salute
Da quanto abbiamo sinteticamente accennato possono emergere alcune indicazioni per quanto riguarda la missione della parrocchia nell’ambito della pastorale della salute. Mi limito semplicemente a citarle:
a) come abbiamo visto la comunità cristiana costituisce la condizione perché la famiglia possa assumere concretamente e fino in fondo il proprio compito che implica come elemento centrale la cura della catena generazionale. Qui si fonda la traditio come humus imprescindibile e garanzia di autentica civiltà. La confusione che si manifesta spesso nella nostra società dipende in gran parte dalla crisi del passaggio generazionale. Si è perso il senso del generare. Le forme della cura familiare possono assumere contenuti diversi a seconda dei bisogni dei soggetti e della fase del ciclo di vita della famiglia, ma si connotano per un’elevata personalizzazione, per un investimento globale che va al di là del tempo dedicato alle singole azioni e per un livello minimo di organizzazione dei bisogni. Come la cura che da sempre il sacerdote, e più recentemente i diaconi, gli accoliti e molti laici riservano ai malati documenta, il momento della malattia deve diventare centrale nell’azione pastorale. Nella malattia sono provati gli affetti e si verifica la consistenza umana di tutti i soggetti coinvolti, paziente, familiare, medico. Condividere la malattia di un suo membro significa per la comunità aiutarlo a scoprire in profondità la nuova parentela in Cristo, attraverso la trasfigurazione degli affetti e del lavoro.
b) Per far ciò occorrerà educare tutti i membri della comunità cristiana a guardare con gli occhi della fede la realtà della malattia e della morte. Se non vogliamo ridurre l’azione ecclesiale all’ambito meramente assistenziale, dobbiamo riprendere con forza la sua natura educativa. Questo implica porgere con decisione l’annuncio della risurrezione della carne come contenuto essenziale della nostra fede. Cristo Risorto come speranza certa della nostra vita presente e futura.
Non si può capire la risurrezione senza vivere il sacramento e la sua logica. D’altra parte dalla risurrezione della carne si illumina il mistero di grazia/libertà che fa della vita un caso serio. Il Paradiso non è automatico. Da qui un nesso tra liturgia, catechesi e carità che fa approfondire l’appartenenza alla nuova parentela che è la parrocchia-comunità.
c) A questo proposito mi sembra appartenga a quella presenza incarnata, e perciò creativa, del soggetto ecclesiale garantire, per quanto possibile, il diritto del paziente terminale a morire nella sua famiglia. E questo non solo costituisce un evidente conforto per chi è chiamato ad affrontare il passaggio più drammatico della propria esistenza, ma anche un’occasione preziosa per tutti coloro che l’accompagnano nell’ultimo, misterioso tratto del suo cammino.
Stare di fronte alla morte dei propri cari insegna a vivere e a morire. È il contrario di quello che oggi invece si pensa e si dice. Ad esempio, non è più normale come un tempo che un bambino assista, insieme agli altri familiari, alla morte del nonno.
d) Ma per riportare in famiglia l’evento della morte dell’anziano o del paziente terminale, e prima ancora il tempo della loro ‘cura’, significa aiutare i parenti con una rete di solidarietà in cui accanto ai volontari ci siano anche i professionisti. Significa fare posto – con tutta la rilevanza culturale e perciò anche economicamente dignitosa che questo comporta – ad una ‘compagnia di ventura’ che riprende la grande tradizione delle Confraternite. Siccome questo permetterebbe anche di ridurre la sempre più forte pressione subita oggi dalle strutture sanitarie, bisogna che lo Stato sposti risorse sulle famiglie e sui soggetti sociali che le aiutano nella cura. Il primato non va alla struttura, sia pure la più aggiornata e tecnicamente sofisticata, magari utopica con la pretesa di risolvere (fino a rimuovere) tutti i problemi, pur di togliere ogni fastidio ed ogni responsabilità alle persone coinvolte. D’obbligo è, in questo senso, il riferimento alle cliniche dei terminali già in funzione negli USA, veri e propri ‘centri specializzati’ (ma si potrebbe anche dire templi) della morte, destinate ad entrare dentro un sistema integrato con le fiorenti Agenzie di Pompe funebri o, addirittura, ad essere da queste ultime finanziate.
e) Il nesso famiglia-centro di cura (ospedale, R Specializzate, ecc.) potrà trovare in una parrocchia spalancata ai soggetti della pastorale sanitaria un benefico aiuto. Ad esso deve guardare l’autorità costituita nell’articolazione della sua politica sanitaria. La razionalizzazione non può essere imposta dall’alto solo a partire dalle leggi dell’economia e del management, ma deve essere proposta al popolo chiamandolo a partecipare creativamente alle decisioni necessarie. Questa urgenza è imprescindibile per la fragile città di Venezia.
La ridefinizione del pubblico in atto a tutti i livelli nel nostro paese, in particolar modo in campo sanitario, deve essere accurata. Pubblico non è solo l’emanazione diretta delle istituzioni statuali, ma pubblico è ciò che è ad effettivo servizio del bene comune anche quando è svolto da soggetti liberi che operano nella società civile come soggetti, in un certo senso, privati. Ma proprio a questo livello occorrerà una vigilanza oggettiva e rigorosa da parte delle autorità competenti perché in nessun modo prevalga, nel campo della salute, la logica del profitto sul rispetto assoluto della dignità e dei diritti del malato, degli operatori sanitari, dei familiari. Gli inevitabili aspetti manageriali oggi esigiti da un centro ospedaliero o di cura non lo debbono trasformare in una azienda. Inoltre se per l’impresa economica di ogni genere la Chiesa ci insegna la priorità della persona sul capitale, a maggior ragione questo deve valere in assoluto per le istituzioni sanitarie e gli ospedali. Per questo le autorità competenti debbono distinguere attentamente chi è mosso dalla pura logica di impresa da chi, concependosi come no-profit – come ad esempio molti enti gestiti da religiosi o dall’associazionismo cristiano – è spinto dalla carità. Gli standards dovranno essere rigorosi per tutti ma le istituzioni non potranno non tener conto del bisogno di salute di tutti a partire da chi è più inerme ed emarginato.
f) Infine, per quanto riguarda il sostegno che gli operatori sanitari possono ricevere dalla parrocchia, esso consisterà nell’aiuto ad un coinvolgimento libero, personale con il soggetto paziente e con i familiari. Una condivisione che metta in gioco tutto di sé, dei propri legami e delle proprie appartenenze, senza riserve. La comunità cristiana può sostenere l’operatore sanitario nel doveroso compito di fare spazio, nel mondo della salute, alla verità liberamente testimoniata. In quest’ottica la malattia/morte sarà un segno del Cristo risorto tra noi, caparra della nostra risurrezione. La parrocchia sarà più se stessa perché più obbediente al suo Signore che consolava e sanava e ha dato la sua vita per la nostra salvezza, che è la nostra radicale salute.