"Il Vescovo e la formazione nei Seminari e negli Istituti teologici".Relazione al seminario di aggiornamento della Congregazione per l'evangelizzazione dei popoli (Roma, 15 settembre 2004)
15-09-2004

CONGREGAZIONE PER L’EVANGELIZZAZIONE DEI POPOLI
Seminario di aggiornamento

Il Vescovo e la formazione nei Seminari e negli Istituti teologici
Roma, 15 settembre 2004

Card. Angelo Scola
Patriarca di Venezia

I. L’orizzonte adeguato della formazione: la vita dei presbiteri

Vogliamo affrontare il tema Il Vescovo e la formazione nei Seminari e negli Istituti teologici, facendo riferimento al decreto conciliare Presbyterorum ordinis. In particolare al terzo capitolo (nn. 12-22) nel quale, dopo aver affrontato la natura del presbiterato e aver descritto il contenuto del ministero, si passa a descrivere la vita dei presbiteri.
Questo punto di partenza non è per nulla ovvio. Infatti, per parlare di responsabilità del Vescovo nell’ambito della formazione sacerdotale, il Concilio orienterebbe a prima vista verso i decreti Christus Dominus e Optatam totius . Invece, se si pone come orizzonte adeguato della formazione la vita dei presbiteri, si fa immediatamente riferimento ad un’integralità che impedisce di ridurre la formazione all’elaborazione di un percorso fatto di contenuti e di tecniche abilitanti allo svolgimento di un ruolo. Non si può limitare la responsabilità formativa alla sola preoccupazione che i presbiteri siano ‘professionalmente’ preparati.
Ma a proposito di formazione l’orizzonte della vita integrale costringe subito ad una decisiva precisazione. Afferma San Carlo Borromeo: «Ogni volta che si fa menzione del clero, la si fa anche del vescovo, in quanto membro eminente e capo del clero; la disciplina del clero è la disciplina del vescovo; l’istruzione del clero si addice anche al vescovo . Queste parole del santo Vescovo milanese insistono, con il linguaggio proprio della sua epoca, sul legame oggettivo che, in forza del sacramento dell’Ordine, unisce il vescovo al presbiterio nel suo insieme e ad ogni singolo presbitero, non per nulla definito dal Concilio Vaticano II ‘cooperatore dell’ordine episcopale’ . La natura di tale vincolo si chiarisce ulteriormente se si considera che la responsabilità del Vescovo nella formazione sacerdotale non può non passare attraverso i tria munera costitutivi del ministero ordinato.
Attraverso il munus sanctificandi il legame vescovo/presbitero diventa strada per la formazione a concepire se stessi e la propria vita come altare, vittima e sacerdote. Col munus docendi il vincolo vescovo/presbitero forma al sentire cum Ecclesia a partire dalla piena assunzione del «pensiero di Cristo» . Infine per formare al munus regendi il vescovo deve comunicare al presbitero l’arte della prudenza fondata teologalmente, così da testimoniare al popolo dei fedeli la verità dell’affermazione di Agostino «praesumus si prosumus» .
Il carattere integrale della formazione dei candidati al sacerdozio propria del vescovo non solo non impedisce ma richiede che Egli, senza delegarla, la articoli servendosi di presbiteri, di educatori e persone competenti: si capisce perché, normalmente, questo compito intrinsecamente inerente al ministero episcopale, venga esercitato dal vescovo – almeno dal Concilio di Trento ai giorni nostri – attraverso quelle due istituzioni che sono il Seminario e l’Istituto Teologico. Il riferimento alla loro natura e al loro compito, nonché alle delicate problematiche che queste istituzioni educative devono oggi affrontare, sarà il filo rosso della nostra riflessione che, tuttavia, non perderà di vista sia la responsabilità personale del vescovo, sia l’attenzione integrale alla vita del futuro presbitero.

II. Elementi essenziali della responsabilità del Vescovo nella formazione sacerdotale

1. Il soggetto educativo

Essendo la Chiesa il medium intrinseco dell’Avvenimento di Gesù Cristo al singolo membro del popolo santo di Dio , il soggetto primario della formazione sacerdotale non può che essere la Chiesa particolare cui essenzialmente inerisce il presbiterio. Solo una concezione della formazione sacerdotale che riconosca nella comunità cristiana il soggetto educativo per eccellenza è in grado di non ridurre i luoghi formativi (Seminari ed Istituti teologici) a spazi separati dalla vita del popolo.
Il giovane arriva in Seminario a partire da un’esperienza concreta di vita ecclesiale – la famiglia, la parrocchia, un’aggregazione di fedeli’ – che di fatto lo ha destato alla vita di fede su cui si innesta la chiamata al presbiterato. Allora il Seminario e l’Istituto sono chiamati ad accogliere il candidato, rispettando tutti i tratti della sua specifica esperienza, per accompagnarlo in vista dell’oggettivo ministero sacerdotale. Per far ciò il Seminario deve essere realmente immanente alla vita della Chiesa in tutte le sue espressioni. Già a questo livello emerge con particolare forza la responsabilità del Vescovo. Egli, infatti, in quanto pastore della Chiesa particolare (che è sempre ad immagine di quella universale ), è chiamato ad assicurare ai luoghi specifici della formazione presbiterale questo loro eminente respiro ecclesiale.
A questo proposito afferma la Pastores dabo vobis al n. 65: «Primo rappresentante di Cristo nella formazione sacerdotale è il Vescovo (‘) La presenza del Vescovo ha un valore particolare, non solo perché aiuta la comunità del seminario a vivere il suo inserimento nella Chiesa particolare e la sua comunione con il Pastore che la guida, ma anche perché autentica e stimola quella finalità pastorale che costituisce lo specifico dell’intera formazione dei candidati al sacerdozio. Soprattutto, con la sua presenza e con la condivisione con i candidati al sacerdozio di tutto ciò che riguarda il cammino pastorale della Chiesa particolare, il Vescovo offre un apporto fondamentale alla formazione del ‘senso della Chiesa’, quale valore spirituale e pastorale centrale nell’esercizio del ministero sacerdotale».
L’organico rapporto del Vescovo al Seminario ed agli Istituti teologici può così evitare dei rischi che non di rado minacciano la formazione sacerdotale. Mi riferisco ad esempio al clericalismo. Con questo termine non penso tanto a forme di esercizio del ministero presbiterale che la storia ormai si è incaricata di smantellare. Il clericalismo di cui parlo non è quello che, almeno in Europa, sorgeva da una non chiara distinzione tra la vita della Chiesa e la società civile. Voglio piuttosto mettere in guardia contro uno stile di vita presbiterale ridotta a ruolo separato dal concreto pulsare della vita della comunità cristiana. In questo caso il ministero viene concepito e, soprattutto, praticato come una sorta di offerta di servizi a degli utenti che restano estranei alla persona del presbitero stesso, che finisce per assumere comportamenti schematici e di dominio.
In una società come quella occidentale, in cui la cultura del manager è sempre più diffusa, una simile tentazione è tutt’altro che rara. Una formazione che eviti questa perniciosa forma di clericalismo impedirà che i futuri presbiteri si percepiscano come ministri di una comunità a cui ultimamente ‘non appartengono’. Si comportano, in buona fede, come se ne fossero i padroni e non i servitori. Al contrario, la vita di ogni fedele, e a maggior ragione quella dei presbiteri, incontra la sua sorgente nella comunità ecclesiale e ha come scopo la sua crescita.
In questo quadro il Seminario o gli Istituti Teologici, per essere soggetti educativi realmente espressivi di tutta la comunità cristiana, debbono essere luoghi di vera comunione. Questa scaturisce dal libero incontro testimoniale tra persone (educatori ed educandi) che caratterizza ogni proposta cristiana. I superiori e i professori, concependosi come mandati dalla comunità cristiana e rischiando la propria libertà con quella di coloro che sono stati loro affidati, li chiamano a coinvolgere, sempre più profondamente, tutta la loro esistenza con l’avvenimento di Gesù Cristo sensibilmente presente nel qui ed ora della Chiesa. In questo senso, come ebbe a ricordare una volta il Santo Padre, per essere veramente educativa la comunità del Seminario e dell’Istituto di Teologia deve concepirsi come una comunità di discepoli: «Cristo è il Maestro e noi i discepoli. Tutti: professori e studenti. Anche il vescovo di Roma: tutti siamo suoi discepoli» .
Non sfuggiranno le gravi difficoltà che la mentalità culturale oggi dominante oppone ad una simile impostazione, quando riduce la grande e nobile avventura dell’educazione a fornire una serie di nozioni e di tecniche funzionali alle pure urgenze professionali.
Per evitare un tale rischio Seminari ed Istituti di Teologia dovrebbero ispirarsi maggiormente alla dinamica educativa propria della famiglia. In essa, almeno così come è idealmente vissuta all’interno della comunità cristiana, si trova quell’intreccio di autorità e di libertà che apre la strada alla maturazione personale. Da una parte l’autorità paterna/materna si propone in prima persona, dall’altra essa provoca la libertà del figlio affinché, col suo personale coinvolgimento, impari a conoscere, ad amare e a lavorare. Troppo spesso invece le comunità cristiane oggi modulano la loro vita sull’azienda .

2) La proposta educativa

Il contenuto centrale della proposta educativa rivolta al futuro presbitero non può che essere l’avvenimento di Gesù Cristo, morto e risorto per noi, permanentemente elargito nella Chiesa alla libertà degli uomini.
Solo l’approfondirsi di questo incontro, ad un tempo personale e comunitario, fa maturare la persona assicurandole quell’esperienza di unità interiore che è la premessa per l’assunzione di ogni missione. E quindi anche di quella del ministero ordinato. È quell’unità di vita di cui parla la Presbyterorum ordinis al numero 14. In concreto essa poggia su due fattori che qui conviene enucleare. Mi riferisco da una parte a quella che l’enciclica Fides et ratio chiama la ratio sacramentalis della rivelazione cristiana e, dall’altra, alla tendenziale unità tra persona e missione nel presbitero.
Si tratta di due contenuti che debbono essere al centro della formazione integrale propiziata dai Seminari e dagli Istituti di Teologia.

a) La ratio sacramentalis della rivelazione cristiana
In essa si trova la radice profonda del presbiterato cattolico. Infatti il ministero ordinato esiste per comunicare il carattere sacramentale dell’evento cristiano. Non è questa la sede per approfondire il valore dogmatico della decisiva affermazione di Fides et ratio. Basti dire che il mistero dell’Incarnazione redentiva permane nella storia, in forza dell’opera dello Spirito, nella cosiddetta economia sacramentale e che questa economia, che trova permanentemente nell’Eucaristia la sua origine ed il suo culmine, è appunto storicamente assicurata dal sacramento dell’ordine . «Istituita da Cristo e tramandata nella Chiesa con precisi gesti e formule prescritti dal rito, l’Eucaristia (sacramenti) è simbolo (segno efficace) del Dio trascendente che si dona all’uomo. Nel sacramento sono compresenti la libertà di Dio e quella dell’uomo: in esso verità e libertà coincidono» .
La responsabilità del Vescovo e delle istituzioni da lui deputate alla formazione consisterà nell’accompagnare i candidati al presbiterato a riconoscere nella ratio sacramentalis la ragion d’essere della loro stessa vocazione. Questo metterà al riparo da ogni tentazione di riduzione sociologica del ministero sacerdotale. Non sono le pur importanti necessità organizzative della comunità cristiana a richiedere il ministero, ma la vocazione al presbiterato è in funzione dell’integrale esperienza cristiana e quindi non può non chiedere anzitutto al presbitero, come del resto al vescovo, il pieno e convinto radicamento in tale esperienza.
Tanto più che la ratio sacramentalis dice fino in fondo la natura del rapporto dell’uomo con la realtà. Infatti, l’esperienza cristiana non si sovrappone all’umana esperienza come qualcosa di sopraggiunto ed eterogeneo, ma ne svela la pienezza. «Tutte le circostanze e tutti i rapporti, che formano la trama dell’umana esistenza sono, in un certo senso, iscritti nella ratio (logica) sacramentale caratteristica del disegno unitario di Dio. Pertanto, circostanze e rapporti rappresentano in modo analogico il sacramento della trascendenza di Dio che interpella l’umana libertà» . Il cristiano è chiamato a vivere ogni rapporto e ogni circostanza secondo questa logica sacramentale: in esse e attraverso di esse la libertà del Padre chiama in causa la libertà dell’uomo e la coinvolge nel compiersi del Suo disegno provvidente. Per questo possiamo dire che è la vita stessa ad essere vocazione. Ma questa percezione della realtà è di fatto possibile a coloro che si lasciano quotidianamente plasmare dal sacramento dell’Eucaristia.
Con insistenza il decreto Presbyterorum ordinis mostra questa dinamica in atto, descrivendo la vita dei presbiteri come una permanente disposizione a riconoscere la volontà di Dio negli avvenimenti della vita quotidiana. «Questa volontà ‘ dice al n. 15 ‘ la può scoprire e seguire nel corso della vita quotidiana, servendo umilmente tutti coloro che gli sono affidati da Dio in ragione della funzione che deve svolgere e dei molteplici avvenimenti della vita». Lo stesso decreto, al n. 18, annota: «Essi possono cercare diligentemente di scoprire nelle diverse vicende della vita i segni della volontà di Dio e gli appelli della sua grazia, divenendo così sempre più pronti a corrispondere a ogni esigenza della missione cui si sono dedicati nello Spirito Santo».
L’attenzione portata a questo decisivo contenuto della formazione presbiterale si mostrerà feconda nell’affronto della cultura oggi dominante. Innanzitutto la ratio sacramentalis fa emergere con forza la convenienza (cum-venientia) della fede cristiana. Alla pretesa delle ideologie del ventesimo secolo di imporre un ateismo di stato e alle profezie di un mondo totalmente mondano di fatto è oggi subentrata una esplosione selvaggia del sacro dove ogni religione appare intercambiabile e si verifica un neo-paganesimo di ritorno .
In questo contesto educare alla ratio sacramentalis della rivelazione cristiana significa riproporre con forza la natura dell’evento cristiano nel suo carattere singolare e nello stesso tempo universale. La proposta cristiana, lungi dall’essere qualcosa di estrinsecamente sovrapposto alla vita dell’uomo, con tutte le sue esigenze e desideri – quasi si trattasse di ricercare un supplemento di ‘spiritualità’ ‘ è il compimento dell’esperienza umana elementare, comune nella sua semplicità ad ogni uomo di ogni tempo e di ogni luogo. Ed il presbitero, proprio attraverso la natura specificamente sacramentale del suo ministero, è testimone di un’umanità compiuta, non un ‘addetto alle questioni religiose’.
L’insistenza dell’Optatam totius sulla formazione integrale dei candidati al presbiterato scaturisce da questa percezione della fede cristiana quale compimento dell’umano e ha come ultimo criterio di verifica la capacità del ministro di trasmettere questa visione della vita cristiana. Qui sta la ragione profonda di quanto il decreto conciliare afferma circa il fine pastorale della formazione sacerdotale . Infatti per pastorale non si deve intendere innanzitutto l’insieme di tecniche o ‘metodi’ che possono essere adoperati nell’adempimento del ministero presbiterale. L’aggettivo pastorale esprime in pieno la natura salvifico-sacramentale della missione della Chiesa .
Può essere utile, a questo proposito, esplicitare un elemento critico che spesso affligge la collaborazione tra Seminari ed Istituti di Teologia. Mi riferisco alla falsa opposizione tra pastorale e dottrinale. Come si evince dall’esercizio del magistero pontificio di questi ultimi decenni, la dimensione pastorale (salvifico-sacramentale) è una dimensione intrinseca alla dottrina. Non si tratterà allora di ricercare complicati equilibri tra i due elementi, ma di approfondire la proposta cristiana secondo l’integralità dei suoi fattori. Lo studio della teologia, se svolto in questa prospettiva, rivela il suo carattere essenziale, non facoltativo, per la preparazione pastorale dei candidati al sacerdozio.
Un’altra conseguenza dell’importanza della ratio sacramentalis nella formazione sacerdotale è quella che riconosce alla storia, fatta di circostanze e rapporti, tutto il suo peso oggettivo. Vista in quest’ottica la storia diviene l’ambito provvidenziale per realizzare la necessaria inculturazione della fede . L’inculturazione, infatti, lungi dall’implicare un depotenziamento dell’esperienza cristiana, consiste nell’assunzione ‘critica’ di circostanze, situazioni e rapporti storici e culturali nell’orizzonte della logica sacramentale. È la stessa dinamica sacramentale della rivelazione cristiana a chiederci l’inculturazione, offrendocene contemporaneamente il criterio di discernimento.
In questo contesto è utile far un cenno ad una delle questioni urgenti nell’oggi della Chiesa. Mi riferisco al dialogo interreligioso. Solo una formazione sacerdotale che sia imperniata sulla ratio sacramentalis sarà in grado di affermare tutti i contenuti della fede cristiana offrendoli, con rispetto ma con chiarezza, alla libertà degli interlocutori di altre religioni. A riparo sia dalla tentazione del relativismo, sia da quella di un’affermazione a-storica, non inculturata, e perciò ultimamente dottrinalistica della fede.

b) La tendenziale unità di persona e missione nella figura del presbitero
Il secondo binario che deve caratterizzare la proposta di formazione sacerdotale consiste nell’educare il presbitero alla tendenziale unità di persona e missione.
Al n. 14 di Presbyterorum ordinis troviamo la famosa affermazione riguardante l’unità di vita dei presbiteri: «Cristo, per continuare a realizzare incessantemente questa stessa volontà del Padre nel mondo per mezzo della Chiesa, opera attraverso i suoi ministri. Egli pertanto rimane sempre il principio e la fonte dell’unità di vita dei presbiteri. Per raggiungerla, essi dovranno perciò unirsi a Lui nella scoperta della volontà del Padre e nel dono di sé per il gregge loro affidato. Così, rappresentando il buon Pastore, nell’esercizio stesso della carità pastorale troveranno il vincolo della perfezione sacerdotale che realizzerà l’unità nella loro vita e attività». Come si vede il riferimento primario di Presbyterorum ordinis è cristologico.
È dalla contemplazione del mistero di Gesù Cristo che scaturisce l’invito a considerare l’unità tra persona e missione come caratteristica del cristiano e, in modo particolare, del presbitero . In Gesù Cristo noi contempliamo una tendenziale identità tra persona e missione. Il Vangelo di Giovanni è, al proposito, assai esplicito. Gesù vive della volontà del Padre (cfr Gv 4, 34) , la ricerca in continuazione («Io non posso fare nulla da me stesso perché non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» Gv 5, 30), non potrebbe fare altro che questa volontà («In verità, in verità vi dico, il Figlio da sé non può fare nulla se non ciò che vede fare dal Padre; quello che Egli fa, anche il Figlio lo fa» Gv 5, 19). La missione di Gesù poggia su una radicale espropriazione di sé, per cui anche ciò che egli ha di più proprio, il suo Io, in ultima analisi non gli appartiene . Ciò lo rende una cosa sola con il Padre. A tal punto che la Lettera agli Ebrei, in un decisivo apax legomenon, giunge a definirlo in modo assoluto come il mandato (o apostolos) (Eb 3, 1).
Nel comunicare la sua potestà ai discepoli («Come il Padre ha mandato me così io mando voi» Gv 20, 21) Gesù li introduce in modo ‘oggettivo’ in questa stessa esperienza di autospogliazione (Selbstlösigkeit). In essa soltanto i Suoi possono vivere un’appartenenza obiettiva a Gesù Cristo, sacramento primordiale del Padre . Il giovanneo «Senza di me non potete fare nulla» (Gv 15, 5) riceve, nel caso del ministero sacerdotale, tutta la sua luce dall’affermazione «Il Figlio da sé non può fare nulla» (Gv 5, 19) .
Questa autospogliazione che fa spazio all’iniziativa di un ‘altro’ permette di comprendere perché, per sua natura, il ministro ordinato sia funzione espressiva primaria della Chiesa come medium intrinseco dell’evento di Gesù Cristo alla libertà dell’uomo di ogni tempo .
La cura del Vescovo, attraverso le istituzioni deputate, alla formazione sacerdotale deve proporre un’immedesimazione con il mistero di Cristo che riproduca nella vita del presbitero, in modo inevitabilmente tendenziale, quell’unità tra persona e missione che vediamo realizzata, in modo pieno, in Gesù stesso. Quanto il decreto Presbyterorum Ordinis afferma sull’umiltà, sull’obbedienza, sul celibato sacerdotale e sulla povertà dei ministri acquista tutta la sua forza se letto alla luce della tendenziale unità tra persona e missione. Le cosiddette virtù sacerdotali sono il fiorire di quella perfezione missionaria alla quale i presbiteri sono specialmente obbligati «poiché essi ‘ che hanno ricevuto una nuova consacrazione a Dio mediante l’ordinazione ‘ vengono elevati alla condizione di strumenti vivi di Cristo eterno sacerdote, per proseguire nel tempo la sua mirabile opera, che ha restaurato con divina efficacia l’intera comunità umana» .
Sul piano pratico questa proposta consente di superare i gravi dualismi che non di rado spezzano la vita dei ministri ordinati. Mi riferisco, soprattutto, a quella concezione tanto sbagliata quanto purtroppo diffusa che separa il ‘ministero’ dalla persona del ministro. Tale dualismo è così tenace da saper resistere nei più diversi stili di vita sacerdotale. Può essere teorizzato da parte di presbiteri che affermano la necessità di ‘spazi privati’ per coltivare il cosiddetto ‘umano’ del sacerdote, così come da parte di quanti considerano la cosiddetta ‘spiritualità’ ed ascesi come fonte di rigenerazione della persona del presbitero che verrebbe logorato dall’impegno del ministero (falsa opposizione spiritualità-ministero). In entrambi i casi si nota un grave dualismo che esprime l’incapacità ad accettare la polarità persona-missione come costitutiva dell’umana esistenza. Invece, se vissuta in Cristo, questa polarità non solo non spezza l’unità della persona ma ne esalta la libertà.
Nell’ambito della formazione, la tentazione di separare la persona dalla missione si traduce in sterili contrapposizioni che finiscono per impedire la maturazione del candidato. Mi riferisco ad esempio alla opposizione spiritualità-studio e pastorale-studio. Non di rado si ha la percezione che non pochi candidati al sacerdozio considerino lo studio quasi come uno scotto da pagare: un fattore estrinseco al cammino di santità cui inevitabilmente si collega la missione ecclesiale per la quale si stanno preparando. Si enfatizza allora una spiritualità equivoca che, quando non arriva a prescindere dallo studio, viene pensata come ‘separata’ da esso. Si tratta di un atteggiamento acritico, che nulla ha a che fare con un’autentica spiritualità cristiana. Al contrario la svuota della logica dell’incarnazione (ratio sacramentalis) che le è propria, in quanto induce ad una disobbedienza nei confronti di una precisa circostanza vocazionale, quella della formazione integrale. A noi Vescovi tocca il dovere di evitare che la proposta pedagogica dei Seminari cada, più o meno consapevolmente, in questa grave contrapposizione. A questo scopo, come ricorda il n. 19 di Presbyterorum ordinis, «i vescovi devono anche procurare che alcuni presbiteri si dedichino allo studio approfondito delle scienze divine, in modo che non vengano mai a mancare dei professori competenti per le scuole ecclesiastiche». In questo senso è di primaria importanza la collaborazione tra il Seminario e l’Istituto o Facoltà teologica che, sebbene siano istituzioni giustamente indipendenti, hanno l’obbligo di cooperare all’opera di formazione dei candidati al sacerdozio. E proprio il Vescovo è il responsabile di una tale collaborazione.
A quali condizioni può essere assicurato uno studio della teologia quale fattore essenziale nella formazione sacerdotale che resti in profonda unità con la spiritualità e la pastorale? In questo ambito è importante ricordare che la teologia, così come è stata proposta dalla tradizione cristiana, reca in sé i tratti di quella che possiamo chiamare ‘la drammatica dell’incontro’. Infatti, il contenuto proprio della teologia non è, in ultima istanza, la Scrittura, né la Tradizione né il Magistero della Chiesa, non sono i contenuti del senso religioso, né l’esperienza religiosa o mistica, ma piuttosto, attraverso tutti questi fattori, è la stessa comunione delle Persone divine, lo stesso Dio vivente . In questo senso la drammatica dell’incontro suppone che la conoscenza teologica implichi il coinvolgimento di tutta la persona con il mistero rivelato. Questo comporta la tensione costante a mantenere lo studio della teologia profondamente radicato nell’evento di questo incontro che sempre lo contiene e lo giustifica. La tentazione di separatezza rispetto all’esperienza cristiana costituisce innanzitutto un tradimento della natura propria del sapere teologico.
D’altra parte ciò implica che la proposta filosofico-teologica non cada nell’intellettualismo. Tentazione questa a cui sono soggetti non pochi docenti. Essa deve invece sviluppare criticamente e sistematicamente (teologia) l’esperienza cristiana che formatori e candidati vivono in prima persona.

3) La necessità di una formazione permanente

Per completezza si rende necessario fare un cenno alla formazione permanente. Non è difficile comprenderne l’importanza dal momento che, in questa prospettiva di integralità, la formazione sacerdotale non si può mai considerare definitivamente conclusa. Un conto è stabilire con precisione le tappe del cammino formativo che un candidato deve percorrere prima di essere ordinato presbitero, un altro è considerarlo come esauriente la formazione sacerdotale stessa. Infatti, se la formazione consiste nel progressivo coinvolgimento personale e libero del candidato con l’avvenimento di Gesù Cristo presente nella Chiesa, allora non è possibile fissarle limiti di tempo.
Diverse sono le difficoltà con cui si scontra la proposta di una formazione permanente nella vita delle diocesi. Talune derivano da un’impostazione che tende a riproporre anche dopo l’ordinazione schemi propri della vita del Seminario e che sono istintivamente rifiutati dai presbiteri; altre sono legate alle complesse condizioni in cui si svolge il ministero presbiterale. Tuttavia occorre riconoscere che anche oggi, assai frequentemente la proposta di una formazione permanente viene rifiutata a causa di una concezione ruolistica del ministero per la quale la formazione si conclude definitivamente il giorno dell’ordinazione sacerdotale, quando appunto si assume il ruolo.
Una tale concezione rivela la riduzione della formazione all’apprendimento di una serie di contenuti (dottrinali, spirituali, ascetici, pastorali) che fornirebbero al sacerdote tutti gli strumenti necessari per l’adempimento delle sue funzioni! Invece scopo della formazione è la maturazione personale del presbitero secondo l’integralità dell’esperienza cristiana, fatto che non può mai considerarsi come definitivamente compiuto: «Erunt semper docibiles Dei» (Gv 6, 35). L’obbligo che spetta ai Vescovi di provvedere alla formazione permanente del loro presbiterio deve farsi carico del cammino di santità di ogni presbitero. Né la formazione permanente può ridursi alla proposta di un pacchetto di aggiornamenti teologico-pastorali , sempre in vista del ruolo, ma deve essere accompagnamento personale alla ‘communio’ presbiteriale.

III. La testimonianza del Vescovo

In conclusione risulta evidente che la formazione dei candidati al presbiterato non è uno dei tanti compiti assegnati al vescovo: i presbiteri, quali cooperatori del ministero episcopale, sono intrinsecamente legati alla persona del Vescovo e al suo ministero.
Affinché questa responsabilità del Vescovo non si riduca ad una sorta di vigilanza inevitabilmente estrinseca dell’operato dei superiori dei seminari e degli Istituti, è imprescindibile che essa abbia la forma della testimonianza.
La persona, la vita e le parole di Cristo hanno sempre un carattere testimoniale. Il Suo parlare del Padre ed i suoi gesti sono un renderGli testimonianza e un glorificarLo. La comunione col Padre è all’origine di tutto quel che il Figlio è ed opera. Il Suo modo d’esser testimone (marturein) documenta il fatto che la Sua identità ha la sua radice nella comunione con il Padre per mezzo dello Spirito. Pertanto chi Lo incontra per grazia ed accetta di coinvolgersi con Lui è portato dentro quella comunione che imprime all’esistenza una forma precisa: quella dell’autoesposizione. L’ontologia comunionale esige che l’esistenza sia vissuta secondo una forma testimoniale.
In concreto si tratta di vivere quella tendenziale identità tra persona e missione, alla luce della ratio sacramentalis della rivelazione cristiana, che fa del Vescovo un vero soggetto educante. Come avvenne per Nostro Signore: «la sua umanità appare come ‘il sacramento’, cioè il segno e lo strumento della sua divinità e della salvezza che egli reca: ciò che era visibile nella sua vita terrena condusse al Mistero invisibile della sua filiazione divina e della sua missione redentrice» . In analogia, anche l’esistenza del Vescovo è chiamata a diventare tramite (sacramento) dell’esperienza cristiana. Nel rapporto con lui e con i suoi collaboratori, certi che l’ethos della testimonianza è più tagliente di ogni critica, i candidati al sacerdozio potranno trovare la strada sicura per una formazione integrale.