Il card. Cè ha salutato la Diocesi
 Il ritiro di Quaresima con il presbiterio, il saluto al teatro Malibran, l'omelia a S. Marco di domenica 17 febbraio 2002
17-02-2002

Intervento al ritiro di Quaresima del Presbiterio diocesano
Mestre, chiesa di S. Lorenzo Giustiniani, 14.II.2002

Prima meditazione
(testo di riferimento: 2Cor 5,20-6,2)

Carissimi,

1. è l’ultima volta che io guido il ritiro di quaresima in preparazione alla Pasqua.
Vorrei anche dispormi con voi ad accogliere il Patriarca Angelo che il Signore, tramite il Santo Padre, ci manda.
Mi sono chiesto: che cosa dirò ai miei sacerdoti – dico “miei” per l’affetto che vi porto – che possa rimanere come una parola da non dimenticare mai e da trasmettere in tutti i modi, “opportune et importune” ai fratelli, perché è una parola che avvolge e custodisce la vita nella pace e nella fiducia?
Io so che il ministero talora è faticoso e che, spesso, non dà soddisfazioni. E poi noi siamo deboli, mentre la mèta a cui siamo chiamati è alta.
E allora qual è la parola che può darci pace e fiducia?

La traggo dalla seconda lettura del mercoledì delle ceneri: l’apostolo sa di essere ambasciatore di Cristo, come se Dio stesso esortasse per mezzo suo. Ebbene, forte della convinzione di parlare in nome di Dio, egli ci supplica in nome di Cristo stesso: “Lasciatevi riconciliare con Dio”.
Noi sappiamo così che è Dio che ci vuole riconciliare con sé.
Abbiamo sempre pensato di essere noi che sentiamo il dovere di riconciliarci con Dio. E invece è Lui che ce lo chiede, Lui ha sempre l’iniziativa. Perché Dio ci ha amati per primo, e ci ha amati mentre noi eravamo peccatori.
“Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo costituì peccato in nostro favore, perché per mezzo di lui noi potessimo diventare giustizia di Dio” (2Cor 5,21).
Gesù non avrebbe mai chiesto a Pietro se lo amasse, se prima non lo avesse perdonato, non lo avesse amato e non gli avesse dato la grazia di amarlo. Nessuno può amare Dio se prima non è amato da Lui (Cfr 1Gv 4,10): noi siamo giustificati gratuitamente cioè per puro amore.

“Cristo morì per gli empi’ Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, men

tre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5,

6.8).
Provate a riflettere, cari confratelli, quanta è bella questa verità. Noi siamo “portati” dall’amore di Dio: continuamente. Un amore gratuito, preveniente ogni merito, un amore incondizionato: Dio ama sempre!
Gesù è venuto a rivelare proprio questo volto di Dio.
Il suo amore per i peccatori dice proprio questo.
Lo stupore dei benpensanti di fronte alle sue frequentazioni dei peccatori è più che comprensibile. Pensiamo alla bellezza dell’episodio della peccatrice in casa del fariseo (Lc 7,36-53).
Ma Gesù è venuto a rivelare proprio questo volto del Padre e la rivelazione suprema avviene nella passione e morte.
E’ bello pensare la passione di Gesù non solo come “dolore”, ma soprattutto come suprema rivelazione dell’amore del Padre nella sofferenza volontaria di Gesù.
Non c’è mistero più grande.

2. Cari confratelli, noi nella nostra vita di preti, come tutti, viviamo giorni belli e consolanti e giorni carichi di pensieri e di preoccupazioni; talora anche di vere e proprie pene.
Lo so che non è facile, in quei momenti, credere all’amore. Non è mai facile credere. La sofferenza è al livello di pelle, di sensibilità, di cuore, mentre la fede è su un altro piano.
La fede è nuda, povera, spoglia di tutto. Come era quella di Gesù nell’agonia.
Per molto tempo Gesù ha portato in cuore il presentimento sofferto di ciò che gli sarebbe accaduto a Gerusalemme. Ce lo testimoniano le diverse predizioni della passione e il cap. XII di San Giovanni: “Padre, salvami da quest’ora”.

Gesù però ha creduto: nella nudità e nella spogliazione radicale della fede, Egli ha creduto. E ha detto: “Padre'”, e sulla croce: “Abbà, nelle tue mani consegno la mia vita”.
“Voi mi lasciate solo, ma io non sono solo, perché il Padre è con me” (Gv 8,16).
La grande certezza che ha condotto tutta la vita di Gesù è stata quella di essere amato dal Padre: “Io so che il Padre mi ama’ Padre, io so che tu mi ascolti semp
re

G
esù si è lasciato amare dal Padre e ha creduto, anche quando q
ue
sto amore non riusciva a vederlo: “Padre, tutto è possibile a te. Passi da me questo calice. Però non come voglio io, ma come vuoi tu”(Mc 14,36.)
Dobbiamo credere che noi siamo amati da Dio e che il suo desiderio è uno solo: che noi crediamo e ci lasciamo amare da lui.

3. Ma noi dove e quando dobbiamo amare Dio? Nel nostro ministero. Nella nostra vita di tutti i giorni, o il Signore lo incontriamo lì, o non lo incontreremo mai.
La nostra vita mistica, soprannaturale, il nostro “Sì, Padre” continuo e incondizionato, si consuma nella vita di tutti i giorni. Un funerale fuori programma che sconvolge tutta la giornata, un giovane che non fa giudizio, una scadenza economica che preoccupa, una famiglia che si disfa’ questo quotidiano, che noi siamo tentati di chiamare banale, è invece il luogo del nostro incontro con Dio, in cui lui ci ma e noi lo amiamo.
La riconciliazione col nostro quotidiano è una grande grazia di Dio, è un grande dono che Lui vuole farci: è la nostra chiamata alla santità. Però questo richiede forse più preghiera, il breviario celebrato meglio, richiede un’Eucaristia che diventi la nostra gioia quotidiana.
Il problema della nostra preghiera, è problema di riconciliazione con Dio. Se preghiamo bene, Dio è Dio della nostra vita. Se non preghiamo o preghiamo male’. cade tutto, proprio tutto. La liturgia diventa rito, la predicazione nella migliore delle ipotesi diventa una lezione di scuola, l’agire pura efficienza.
Crediamo alla santità, all’altissimo potenziale di santità della nostra vita quotidiana.

4. Dove, quando riconciliarci?
Riconciliarci con la nostra debolezza. Nell’antica traduzione latina dei salmi c’era questa espressione: “Beatus qui intelligit super egenum et pauperem…” Credere che la debolezza, la povertà è luogo di grazia è tra le intuizioni più grandi e salutari della vita spirituale.
Nei Vangeli la debolezza e lo stesso peccato sono luogo
di i
ncon
tro
con la persona di Gesù, il divino medico.
Non c’è nulla che Ges
ù –
e perciò il Padre – non voglia e non possa guarire.
Cito un testo che straconosciamo , ma che è sempre vivo e medicinale: “Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la forza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,9-10).

5. Ma perché faccio questo discorso: mentre inizia il cammino quaresimale e mentre un nuovo pastore sta per arrivare nella nostra Chiesa?
Perché ogni sforzo di conversione a Dio, nostro e dei fedeli che da Lui ci sono affidati, ha bisogno della certezza dell’amore di Dio.
Noi ci convertiremo a Dio concretamente solo se avremo la certezza che Dio ci ama, ci ama gratuitamente, per primo, mentre noi siamo ancora peccatori: quindi ci ama incondizionatamente.

Che senso ha iniziare la Quaresima se non si ha la certezza della Pasqua; se non si è sicuri, fin da ora, fin dal primo giorno di Quaresima, che ogni tentazione sarà vinta, perché la grazia della Pasqua ci porta? La nostra vita è portata dall’amore: e questo amore farà cose “impossibili”, farà scaturire l’acqua dalla roccia, farà fiorire la manna nel deserto.
L’amore sconfigge il male, anche il più grande, perché l’amore è da Dio, anzi è Dio in noi.

6. Noi viviamo una situazione mondiale che potrebbe portarci allo scoraggiamento: per molti versi la dovremo dire disperata.
L’agire di Dio però non è come quello degli uomini.
In ciascuno di noi si giocano le sorti del mondo, perché Cristo vive in noi:
– la nostra preghiera è più grande di noi;
– la nostra Eucaristia ci supera in modo assoluto, perché noi attualizziamo la croce di Gesù.
Voi dite: ma non accade niente?
E io vi chiedo? Cosa è accaduto quando Gesù è morto?
La gente lo sbeffeggiava proprio perché non accadeva niente. E invece dalla sua mor
te noi
siamo
stati
salvati.

Cari Confratelli,
crediamo all’amore di Dio: testimo
niamol
o celebrando i sacramenti, predicando, facendo del bene’.
Camminando nella fede, con grande fiducia.
Se cadessero i veli della fede, noi vedremmo Dio piegarsi sul mondo, dietro la nostra preghiera.
Ma l’atto di fede, di credere senza vedere, è ciò che Dio ci chiede ora e che noi possiamo dargli per dimostrargli il nostro amore. La fede, come atto libero di consegna totale a lui, è l’unica cosa che noi possiamo dare a Dio.
Credere all’amore: giorno dopo giorno camminiamo nella Quaresima, faticando, ma con grande fiducia. La Quaresima è il simbolo della vita.
Noi camminiamo.
Ma è Dio che ci porta. “Ricorda che il Signore, tuo Dio, ti ha portato come un padre porta il proprio figlio per tutto il cammino che hai fatto” (Cfr Dt 1,31).
7. Io vorrei, in questo nostro ultimo incontro, darvi serenità, fiducia in voi stessi nonostante i nostri limiti e nonostante gli insuccessi del nostro lavoro.
Dio è più grande dei nostri limiti.
Dio è così potente da trasformare anche i nostri insuccessi in passi del Regno, Il regno di Gesù non viene sulla via dei trionfi, ma sull’umile strada della nostra fede, del nostro dovere compiuto ogni giorno, del nostro amore come ne siamo capaci.

8. Camminate così anche verso il nuovo Patriarca: con grande fiducia. Tutto dipenderà dalla nostra fede: sarà la nostra fede a determinare il nostro rapporto col nuovo Vescovo.
Dio ci mette sul cammino della Terra Promessa.
Ci dà un Mosè, poi Giosuè, poi Marco, poi Angelo.
Coi loro limiti. Ma Dio è più grande dei limiti.
Non fermatevi alle cause seconde.
Vedete Dio: se vedete Dio in ogni cosa, e cambia il mondo.
E’ come quando si va in montagna. Tutto è brutto, non si vede niente. Tutto è coperto di nuvole.
Poi viene un raggio di sole.
Tutto cambia.
La fede è il raggio di sole.
Cari Confratelli,
i Vescovi passano, Cristo non passa.
Sappiamo vederlo e goderne.

RITIRO DI QUARESI
MA DEL P
RESBITER
IO
Mest
re, chiesa di S. Lorenzo Giustiniani, 14.II.2002

Seconda meditazi
one

Vorre
i dedicare la seconda parte del nostro ritiro alla conclusione del mio ministero in mezzo a voi.

1. Con la cessazione del mio servizio di Patriarca non cesserà il mio legame con la nostra Chiesa: un legame che io ho sempre vissuto come interiore e, quindi, definitivo: “ad convivendum et ad commoriendum”.
C’è un mistero d’amore che mi lega a questa Chiesa: nell’Eucaristia, nella preghiera, nell’umile servizio al Vangelo, nel dono della vita, che è cresciuto col tempo, con lo stesso diminuire delle forze e che continua. Questa è la mia Chiesa: quasi un terzo del clero è stato ordinato da me, di oltre cento preti io ho fatto i funerali.
La Chiesa di Venezia è la mia famiglia: io non ho altro sulla terra.

2. Sappiate che io sono in pace. Anche se affettivamente sento il distacco che sto facendo, sono però nella pace.
Sono convinto che si ama servendo e si ama anche lasciando il posto ad altri, perché la Chiesa sia meglio, servita con energie nuove e fresche.
La mia pace mi viene dall’obbedienza, ma anche dalla consapevolezza che non ho più le forze di quando sono venuto. Fare il Vescovo, come oggi lo si concepisce, richiede anche energia fisica. Io mi sento molto logorato.
Sono convinto che il mio “lasciare”, peraltro per obbedienza, sia “grazia” per la nostra Chiesa. E questo mi dà pace.

3. La cosa che sto per dirvi è la più difficile e delicata ad esprimersi; ma è anche molto importante.
Io ho presieduto per 23 anni. Ogni giorno ho dovuto prendere decisioni di fare o non fare, ho suggerito linee operative, ho esaminato, consigliato, indirizzato.
Spesso le mie decisioni hanno pesato sulle persone.
Nel fare questo ho faticato e sofferto.
Mi pare di avere agito con retta intenzione. Ma chissà quante volte ho sbagliato.
E’ un pensiero pesante questo, pesante da portare davanti a Dio. E se non si è vigilanti è un pensiero che rischia di sch
iantarti e
di schiac
ciarti.
C
hiedere perdono?
Talora penso: è troppo comodo.
Ma davanti a Dio, ne
i giorni di vi
ta che Egli vorrà donarmi e quando comparirò davanti a Lui, chi mi difenderà, chi sarà il mio avvocato, se non voi?
Quale mia preghiera sarà accolta, se non sarà sostenuta dal vostro perdono?
Io davanti a Dio vi ho difeso.
Io ho fatto da intercessore per voi.
Certo. Io lo so che il perdono non è un diritto. Il perdono è un’umile richiesta: se vuoi’.
Ma provate a pensare cosa sarebbe, davanti a Dio, se io mi presentassi avvolto dal vostro perdono.
E allora io trovo il coraggio e ve lo chiedo umilmente come un dono. Lo chiedo alla vostra gratuità, alla vostra bontà. E che Dio conceda anche a voi di essere perdonati.

4. E ora guardiamo avanti. Cristo è ieri, è oggi ed è sempre.
Gli uomini sono come l’ombra che segue la realtà.
La realtà è Cristo.
Ieri sotto il nome del Patriarca Marco, oggi sotto quello del Patriarca Angelo.
Lo sposo di questa Chiesa è il Signore risorto. Io sono l’amico dello sposo che esulta di gioia alla sua voce.
Ora questa mia gioia è compiuta.
Anche il mio lasciare per far posto al Patriarca Angelo è preparare la strada a Cristo, lo Sposo.
Lui deve crescere, io devo diminuire.

5. Ringraziamo il Signore che cammina sempre con noi e ci ama sempre, sia nel segno di Marco, come in quello di Angelo.
Amati da Dio, carissimi a Lui. Amati gratuitamente, incondizionatamente e sempre. Anche quando ci fossimo smarriti e fossimo fuggiti di casa: chiamati da Lui, cercati, perché sempre desiderati e attesi.
Camminiamo quindi nella speranza.

6. Da diversi anni prima di celebrare in San Marco, io passo a salutare la Nicopeia. Mi pare di farle un torto se vado in San Marco e non passo a salutarla.
L’ho sempre fatto prima delle Ordinazioni e, ogni volta, le affidavo coloro che stavo per ordinare.
Dopo le Ordinazioni diaconali e presbiterali, congedandomi dalla gente, ho sempre raccomandato che dicessero un’Ave, ogni
giorno, per
quelli che
io avevo ord
inato.
E molti mi assicurano di esservi fedeli.
In questo momento di c
ongedo io vi aff
ido tutti alla Mamma di Gesù, perché sia anche la Madre nostra.

INTERVENTO AL TEATRO MALIBRAN DI VENEZIA
Sabato 16 febbraio 2002

Illustri Autorità, Signore e Signori,

se mi è consentito un linguaggio poco diplomatico io devo confessarvi che sono imbarazzatissimo, ma sono anche molto contento.
Imbarazzato perché mi trovo clamorosamente al centro dell’attenzione e questo, voi lo sapete, poco mi si attaglia.

Però sono contento:
– per questa iniziativa, così generosa e benevola nei miei confronti;
– per la vostra presenza che io vivo con immensa gratitudine e gradimento.

Certo io dovrei dire come San Francesco (magari fossi come lui!): ‘Perché a me, perché a me?’
Questo vostro gesto e la vostra presenza, che io vivo come il dono più grande, mi legano ancora di più alla nostra Città e all’intero suo territorio.
Voi offrite al vecchio Vescovo l’occasione per dirvi che vi stimo e che vi ho sempre voluto bene, a tutti, senza distinzioni. Ma oltre a questo – che io però ritengo molto importante – voi oggi mi offrite una duplice opportunità.
Innanzitutto quella di testimoniare davanti a voi la squisita correttezza e la limpida libertà che hanno sempre caratterizzato i rapporti tra l’Autorità civile e quella religiosa: nel rispetto delle reciproche competenze, nella sincera stima per le persone e per i ruoli, nella collaborazione là dove erano in gioco sofferenze sociali e i bisogni delle fasce più deboli della comunità.
Tutto questo con reciproca gratuità e disinteresse.
In secondo luogo, oggi la vostra presenza e la vostra bontà nei miei confronti mi offre l’opportunità di impegnarmi davanti a voi a dedicare quella manciata di giorni che il Signore volesse ancora donarmi a questa nostra gente e a questa nostra terra.

Io appartengo a quella vecchia generazione di preti che sog
navano, fin da seminaristi, di
morire sulla b
reccia, per i
quali il pensiero d’un pensionamento non s’affacciava neanche come ipotesi. Sono cresciuto con la convinzione di morire sul campo.
Poi è venuta una legge che ha imposto il pensionamento: una legge che ha i suoi buoni motivi.
La mia generazione non l’ha ancora metabolizzata.
Ma educati all’obbedienza (‘va’ e si va; ‘vieni’ e si viene), l’abbiamo accettata senza farne un dramma. L’obbedienza, per chi crede, dà pace: così ci ha insegnato il Patriarca Roncalli.
Però io vedo, in questa nuova condizione in cui verrò collocato, anche tante belle opportunità. A un vecchio prete, non più inseguito dalle urgenze, è dato di pregare di più, di intercedere e supplicare, come faceva Mosè per il suo popolo: è dato di offrire al Padre, con coinvolgimento ancora maggiore, il sacrificio di Cristo; è dato ancora la predicazione umile, la proposta semplice e disinteressata del Vangelo; ed anche l’accompagnamento dolce delle persone.
Il vecchio Vescovo che va in pensione (civile, non sacramentale!) è spogliato di autorità, ma non di autorevolezza; e neanche della mitezza e della consolazione per poter consolare, dell’umiltà per poter accogliere tutti; della tenerezza per cui compatisci e piangi – piangi davanti a Dio e davanti agli uomini – e chiedi per tutti perdono.
L’apostolo Paolo diceva: ‘Quando sono debole, è allora che sono forte: perché abita in me la potenza di Cristo ‘.

Ho ancora due cose da dirvi: brevi, brevi.
La prima: consentitemi di dedicare questo momento così bello per me e così generoso, grazie alla vostra bontà, ai miei genitori.
Mai avrebbero immaginato, nella loro vita, che avrebbero potuto essere ricordati in un consesso così importante com’è questo. Io però a loro debbo tutto: dalla fede, all’onestà, al senso rigoroso del dovere. Per questo io sento che questo mio momento conclusivo delle responsabilità è anche loro.
La seconda cosa: cercate di capirmi. Voi oggi onorate me. Io ho onorato i mie
i genitori, da anni defun
ti. Ma c’è qualc
uno che non è ma
i onorato da nessuno. Io vorrei ricordare in questo consesso così solenne i nostri poveri, gli anziani soli, gli ammalati che non hanno chi li consoli, gli emarginati e rifiutati.
Non lo faccio per demagogia, ma perché conosco il vostro buon cuore e la vostra magnanimità.
Perché ricordarli ci onora tutti.
Una civiltà che onora il povero è una civiltà grande, nobile, magnanima, saggia, pacifica.

Grazie infinite per le cose belle che mi avete detto, per i doni che mi avete dato, per la pazienza con cui mi avete ascoltato.

OMELIA IN BASILICA DI SAN MARCO
Domenica 17 febbraio 2002

Carissimi,

1. sono passati più di 23 anni dal giorno in cui entrai per la prima volta, come pastore, in questa basilica di San Marco e salii su questo ambone. Ero pieno di timore e non lo nascosi.
Mi presentai a voi dicendovi: “Nelle mie mani non ho niente…. Ho solo la Parola di Dio che mi è stata consegnata da Colui che mi ha mandato”.
In quel giorno il Signore mi disse: “Va'” ed io sono venuto.
Oggi lo stesso Signore, per il tramite del Successore di Pietro, mi dice: “Hai terminato la corsa”.

Io sono qui per ringraziare il Signore, per gli anni che mi ha donato di vivere con voi – eterna è la sua misericordia – e per pronunciare su di voi le sue parole: una benedizione che vorrei vi seguisse sempre:

“Il Signore vi benedica e vi protegga,
faccia risplendere il suo volto su di voi
e vi doni la sua misericordia,
rivolga su di voi il suo sguardo e vi doni la sua pace”

2. Mi dà serenità la coscienza che anche il mio “lasciare” è un atto di obbedienza al Signore: anche “il lasciare” è un servizio.
Come per amore sono venuto, giovane Vescovo, e ho speso tutte le mie energie, così per amore ora consegno a mani più robuste il timone della nave. E se il rapporto istituzionale fra me e voi cambia, il mistero nuziale che mi ha legato a questa comunità, per la vita e per la morte, diventa, oggi, ancora più profondo.
Un giorno
Dio chiamò Abramo
e gli disse: “Esci dalla tua terra e va'”. Oggi Dio chiama me a “uscire” da tutto ciò che in qualche modo era mio, per andare verso la terra dell’amore puro nella preghiera e nell’umile servizio dei fratelli.
Penso all’apostolo Paolo che, alla fine della vita, si paragonava alla nave che ormai sta per arrivare in porto: i remi non servono più, si sciolgono le vele; per condurre la nave in porto basta il soffio dolce della brezza. Così spero sia anche per me: è ora che la fatica degli anni superattivi lasci il posto all’azione dello Spirito che tutto porta a compimento (Cfr 2Tm 4,6). “Eterna è la sua misericordia”.

3. E’ una felice coincidenza che io concluda il mio ministero di guida mentre la comunità inizia la Quaresima, avviandosi verso la Pasqua.
Per 23 anni abbiamo camminato insieme, di quaresima in quaresima, verso una Pasqua che è già presente in noi e nella storia, ma non è ancora pienamente posseduta.
Come Israele nel deserto, insieme abbiamo faticato e lottato: tentati, come Gesù, dalle preoccupazioni mondane, dalla smania del consenso, dai falsi dei che sollecitavano la nostra adorazione
Lo Spirito però non ci ha lasciati soli, ma in tutto il cammino che abbiamo fatto, Dio ci ha portati, come un padre porta il proprio figlio.
Perché eterna è la sua misericordia.
Le due visite pastorali, l’assillo di far giungere a tutti l’annunzio della salvezza, l’Anno Marciano della fede per rinnovare le promesse del nostro battesimo, il Bimillenario della nascita di Gesù per ravvivare nei cuori la fede nella sua attuale presenza di risorto, la Scuola biblica, quella teologica e i Gruppi di Ascolto per riconsegnare la Parola di Dio ai battezzati laici e alle case, l’impegno a favore dei giovani, degli sposi e delle famiglie, l’attenzione alle fasce deboli della comunità, soprattutto attraverso l’azione della Caritas… sono i tratti del nostro cammino nel deserto, fra le tentazioni del mondo, le incertezze, i dubbi e i limiti della nostra
debolezza…
E però
, insieme, la consolazione dello Spirito che non ci ha mai lasciati soli.
Eterna, Signore, è la tua misericordia.

Con noi hanno camminato i nostri poveri, talora noi più poveri di loro perché chiusi nel nostro egoismo.
Con noi, peccatori, hanno camminato i fratelli che hanno conosciuto, pure essi, l’amarezza del peccato e, con noi, la gioia del perdono.
Abbiamo sempre portato in cuore la nostalgia di coloro che non abbiamo saputo coinvolgere, capire o, forse, abbiamo tenuto distanti con la nostra insignificanza cristiana. Ci ha sostenuto, nella quotidiana fatica del Vangelo, la preghiera dei monasteri e quella, pure preziosa, di tanti ammalati e anziani.
Abbiamo attraversato stagioni difficili, chiamati a vivere in un mondo che ha conosciuto l’odio, la guerra, le grandi calamità, la violenza, l’ingiustizia. Abbiamo esperimentato anche noi il dramma del terrorismo e, in molti fratelli, la fatica del vivere quotidiano: la mancanza della casa e del lavoro…
Siamo stati sufficientemente solidali?
Quante volte Dio ci ha perdonato. Nell’arsura, ha fatto scaturire l’acqua dalla roccia e per sfamarci ha fatto fiorire di manna il deserto.
Oh, veramente eterna è la sua misericordia!

4. Giunto al termine di questo cammino, portato in braccio come un figlio dal padre, “misericordias Domini in aeternum cantabo”. Nonostante mi assalga la paura dei miei limiti e dei miei sbagli, io voglio cantare la misericordia del Signore.
Ho conosciuto l’amarezza dell’impotenza e della sconfitta. Come il Signore Gesù ho esperimentato la profonda nostalgia di tanti fratelli e sorelle ai quali avrei dovuto far giungere la lieta notizia dell’amore di Dio e non vi sono riuscito: salga al cielo come supplica per loro la mia preghiera e la sofferenza della mia debolezza.
Ho sofferto anche il graduale assottigliarsi del numero dei sacerdoti e l’incapacità da parte mia, di offrire ai giovani motivazioni valide che li muovessero a scelte coraggiose nel servizio del
Signore.
Benedico il
Signore per quelle vocazioni che pure ha concesso alla nostra Chiesa e per quelle ordinazioni che, quasi ogni anno, come dono gratuito, hanno immesso nuove energie nel nostro presbiterio.
“Signore, non chiamare in giudizio il tuo servo. Nessun vivente davanti a te è giusto”.

5. Voglio ringraziare quanti, in questo cammino di 23 anni, mi hanno aiutato, condividendo il peso della mia debolezza e la fatica della guida d’una grande famiglia.
Ringrazio i miei Vicari e collaboratori, i miei fratelli presbiteri, generosi operai del Vangelo, i diaconi, i religiosi, i molti laici impegnati sul versante ecclesiale e su quello d’una testimonianza cristiana nella storia. Ringrazio le migliaia di catechisti, gli animatori dei Gruppi di Ascolto, i membri dei Consigli Presbiterale, Pastorale e Amministrativo, i responsabili della varie Scuole di formazione e della Scuola cattolica, i responsabili dei vari Uffici e quanti hanno generosamente operato nella carità verso i poveri, nella promozione della spiritualità e della preghiera.
Io voglio cantare la misericordia del Signore, ma anche la bontà, la pazienza, la longanimità di tanti che mi hanno reso possibile il servizio a questa Chiesa.
Voglio ringraziare le Autorità Civili, di ogni ordine e grado, con cui la collaborazione, in tutti questi anni, è stata scrupolosamente rispettosa delle reciproche competenze e serena, ma anche costruttiva e intensa quando si trattava del bene della gente, soprattutto dei più deboli.

6. Io ho ancora una consegna da fare a tutti e sono gli anziani soli, i poveri, i bisognosi, i giovani che hanno smarrito la strada, gli ospiti delle nostre carceri e i deboli nella fede.
Come vorrei avere fatto di più per loro: l’amore verso i fratelli più poveri, verso i bisognosi, gli ammalati, le famiglie in difficoltà e i vacillanti nella fede, è un debito che non si finisce mai di assolvere, perché nel fratello bisognoso è Gesù che stende la mano. E Dio ci giudicherà soprattu
tto su questo.

Permet
tetemi un ricordo tutto personale per le Suore di Maria Bambina che in tutti questi anni hanno formato la mia famiglia: averle accanto a me è stato un grande privilegio. Alcune di esse sono già ritornate alla Casa del Padre, altre sono invecchiate con me.
A queste discrete e affettuose sorelle io debbo una immensa riconoscenza.
Infine lasciatemi dire che porterò sempre con me la struggente nostalgia delle celebrazioni liturgiche nel nostro San Marco e della partecipazione dell’assemblea. Ho vissuto le celebrazioni dei divini misteri in San Marco come un’eco della liturgia del Cielo e il canto come l’anelito dei pellegrini in cammino verso la patria.
San Marco con la sua bellezza e la sua liturgia è stato un grande dono, per cui debbo benedire e ringraziare: eterna, eterna è la sua misericordia.

7. Fratelli carissimi, viene la Pasqua, il trionfo dell’amore.
Un Patriarca consegna all’altro l’unico testimone che salva: la fede in quell’amore che ci ama per primo, mentre noi siamo ancora peccatori; un Amore che ama sempre, incondizionatamente e gratuitamente.

Guardiamo avanti. Anche nel nuovo Patriarca Angelo è Cristo che viene a salvarci.
Gloria a te, Cristo Gesù!
Vieni, Signore, noi ti aspettiamo.
Vieni a salvarci!