Festa di San Francesco di Sales: omelia del Patriarca (24 gennaio 2004)
SANTA MESSA CON I GIORNALISTI
24-01-2004

2Sam 1, 1-4.11-12.17.19.23-27; Mc 3, 20-21

La liturgia, proprio per la sua potente forza creativa (è il simbolo tra i simboli!), aderisce sempre alla nostra realtà presente. In particolare la pagina sacra che oggi abbiamo appena sentito proclamare ci sorprende per la sua pertinenza.
Come individuare in modo più preciso e rigoroso la natura e gli scopi del vostro lavoro di operatori mass mediatici?
«Su, raccontami. Come sono andate le cose? È successo che il popolo è fuggito nel corso della battaglia’» (2Sam 1,4): non è forse qui, in questo versetto dell’Antico Testamento, la sostanza del vostro lavoro quotidiano? Qui sono individuati nello stesso tempo il carattere, la natura, il metodo e la ragione del lavoro di un giornalista. Nel concitato botta e risposta tra Davide e il messaggero emerge impellente il bisogno della comunicazione, la sua ragion d’essere, ciò a cui è chiamata a rispondere, la sua capacità di legare la circostanza, nella trama del tempo e dello spazio, agli attori che sono in gioco. In una parola – poiché circostanza e rapporti sono la trama della realtà – questo compito è il compito di narrare la realtà, i fatti.
«Su, raccontami. Come sono andate le cose?» È ciò che voi fate ogni giorno, attraverso i vostri strumenti, per rispondere al bisogno di comunicazione della comunità umana ed aiutarla nel suo quotidiano cammino, affinché sia rispettoso della dignità di ciascuno e di tutti, e quindi di effettiva crescita civile, sociale, culturale e religiosa.
A questo brano iniziale, così efficace, del Secondo Libro di Samuele si lega la figura del vostro santo patrono, San Francesco di Sales.

Che senso ha ritrovarsi insieme per pregare il santo che accompagna in qualche modo quella espressione potente della nostra umanità che è il lavoro quotidiano cui si annodano gli affetti? Fare memoria di un santo è la strada più semplice per un credente di riconoscere Cristo presente, di professare la propria fede in Lui. Il patrono è colui che ha il dono di rendere persuasivo, ai nostri occhi, Gesù Cristo come orizzonte vitale concreto, dentro il quale meglio esercitare il nostro lavoro.
Essere operatori dei mass media credenti significa venire qui oggi a celebrare l’Eucaristia, chiedendo l’intercessione di San Francesco di Sales perché il nostro lavoro trovi la sua radice potente in Cristo, principio e fine di tutte le persone e di tutte le umane azioni. Se anche uno non fosse effettivamente credente, il fatto stesso di essere qui, a celebrare questa festa, sarebbe comunque – in qualche modo – una profezia del suo desiderio di fede.
Con l’intercessione di Francesco di Sales noi oggi vogliamo chiedere al Signore di poter essere uomini riusciti anche nel nostro lavoro, professionisti riusciti. Il santo, infatti, non è l’eroe, ma l’uomo compiuto, l’uomo riuscito.
Per questa ragione la Chiesa canonizza – cioè rende punto di riferimento, criterio di vita – certe figure, in maniera pubblica ed esplicita. E ad essi ci si può rivolgere perché, con Maria, nostra madre, intercedano per noi presso Gesù.

Cosa dice San Francesco di Sales oggi, nei travagliati tempi in cui viviamo, a voi operatori di mass media? È noto a tutti noi quale fu il suo grande apporto alla storia del popolo cristiano, attraverso quella concezione della pietas, cioè del rapporto tra il fedele e Dio, che va sotto il nome della devotio moderna. San Francesco fu tra i primi a sottolineare con forza che la santità – cioè la piena riuscita dell’uomo nei suoi affetti e nel suo lavoro che si radica in Gesù Cristo – non è affare di un particolare stato di vita. Non è questione di religiosi, di monaci, di monache, di suore, o di preti, ma concerne tutti gli uomini e tutte le donne a partire dal loro lavoro quotidiano.
Molto stimolante ed interessantissima è la lettura dei suoi scritti, in particolare della Filotea. In essa, tra l’altro, Francesco afferma l’impossibilità da parte di chi fa il falegname di perseguire la santità come il monaco che sta chiuso nel monastero. Siamo agli inizi dell’epoca moderna, Francesco è tra i primi a dilatare l’orizzonte della santità e a renderla popolare, contribuendo in tal modo ad elevare in perfetta dignità ogni fedele, dal Papa all’ultimo dei battezzati. Agli occhi del Padre tutti abbiamo la stessa dignità in Cristo Gesù, perché tutti siamo chiamati alla santità, in ogni circostanza, in ogni rapporto, in ogni professione. Per questo Francesco diceva «siate quello che siete, ma desiderate di essere alla perfezione».
Ecco la santità: essere quello che siamo, desiderando di esserlo alla perfezione.
Che cosa significa essere alla perfezione quello che si è?
Non si tratta di mettere in opera un proprio progetto di perfezione
Qui sta la grande insidia oggi purtroppo ancora così all’opera – e starei per dire sempre più incalzante – in tante manifestazioni della nostra cultura, in modo particolare della nostra società civile, in un’Italia così affaticata, a molti livelli, non escluso il livello dell’attuale interminabile e interminata transizione politica
La grande insidia si chiama moralismo, la pretesa di essere misura a se stessi. La pretesa che con la forza dei muscoli della propria volontà si possa realizzare la propria umana riuscita.
Condannare con forza questa pretesa moralistica non significa giustificare l’immoralità, ma significa piuttosto collocare la moralità al suo giusto livello.
Scriveva ancora Francesco di Sales: «Ad imitazione del discepolo prediletto, Giovanni, starò sempre sul petto e sul cuore del nostro amatissimo Salvatore».
La perfezione morale sta in un rapporto quotidiano adeguato, istante per istante, con l’Autore del tutto. Sta nella capacità di mettere in relazione la singola azione che io sto compiendo in questo istante, consapevole delle mie fragilità e dei miei limiti, con l’orizzonte compiuto ed integrale che l’Autore della vita colloca in quell’azione. Perché tempo e spazio non sono pura durata, ma simbolo sacramentale della potenza rivelante del disegno di un Padre che regge la storia personale e la storia di tutta l’umana famiglia.
La perfezione morale sta in questo rapporto, che modula ed invera i rapporti tra gli uomini.

Questo rende ogni professione, compresa la vostra delicatissima e importantissima, un autentico essere presi a servizio. Perfino la parola servire, infatti, può essere ambigua. È più giusto riconoscere che si è presi a servizio da un Altro con la maiuscola. È Lui che mi colloca in una determinata situazione, attraverso le circostanze e i rapporti, proprio dentro un disegno che esalta la mia libertà sino all’ultima fibra e, nello stesso tempo, costruisce la vita buona. Il bene di tutti.
«Non voglio che dicano – diceva il grande santo vescovo – che il vescovo è un gran predicatore, ma voglio che amino Dio».
Riferendolo a noi potremmo tradurlo così: ‘Non voglio che dicano che sono un grandissimo giornalista, ma voglio che incontrino la verità dei fatti e delle cose’ (Come sono andate le cose? Su, racconta). Mi pare che la lezione del vostro patrono suggerisca due criteri preziosi. Anzitutto il primato della verità. Essere presi a servizio, in una professione come la vostra, significa documentare che questo primato supera ogni interesse, di qualunque attore sia in gioco sulla scena della comunicazione. Che sia azionista, proprietario dello strumento, che sia l’editore, che sia il giornalista, che sia colui a cui si indirizza la comunicazione’ prima di tutto la verità.
Solo così sarà possibile evitare quella particolare riedizione ‘ sia pure molto più sottile e sofisticata ‘ della vecchia dialettica servo-padrone, purtroppo ancora ben viva, a mio parere, in questa nostra società multimediale. Ancora oggi il popolo può diventare servo, anche senza saperlo. Ma noi, dalle riflessioni di Hegel e di Marx, conosciamo bene come tale dialettica sia destinata a generare utopiche violenze, proprio perché mette il servo nella condizione di ribellarsi e di passare a sua volta sotto la figura del padrone.
È la dialettica come tale che va superata, perché non è affatto vero che sia inevitabile, se noi viviamo in ossequio alla verità.
Il primato della verità implica il rispetto totale e scrupoloso della realtà. È necessario obbedire ai fatti, che esigono di essere verificati nelle loro fonti, prima di essere gettati sulla mensa dell’interlocutore. Dunque i fatti verificati e vagliati nelle fonti, ed espressi nella coscienza critica – autocritica e umile – dell’inevitabile interpretazione con cui io li colgo, li verifico e li narro.
Davide non avrebbe potuto esplodere nella sublime ed epica preghiera sulla morte di Saul e di Gionata, che abbiamo ascoltato, se non fosse stato messo al corrente dei fatti così come essi si erano svolti. Travagliato era stato il suo rapporto con Saul. Diverso, ma altrettanto travagliato, il suo rapporto con Gionata. Ebbene: di fronte alla loro morte ecco che esplode il pianto e la grande, esaltante elegia di Davide in cui viene alla luce la coscienza chiara del suo limite. Emerge una statura ed una verità umana. I fatti narrati sono la premessa per questo.
Tra le insidie che personalmente sento come le più diffuse oggi per quanto riguarda il vostro compito di narrare i fatti, verificando le fonti, riconoscendo l’inevitabile interpretazione, è la tentazione dell’autocensura. Della scelta di ‘dire troppo o non dire’, non in omaggio alla verità, ma in un certo senso tenendo anzitutto d’occhio qualcuno degli attori in gioco. Non mi riferisco tanto a quell’aspetto comprensibilissimo – espressione dell’umana fragilità,- che è contenuto nell’autocensura di chi fa una professione come la vostra, ma voglio invitarvi a riflettere su quell’eccessivo investimento sul proprio ego, di cui tutti siamo tentati, nel nostro lavoro, quando ci dimentichiamo che il lavoro è anche prova. Esso, in quanto conseguenza del peccato originale, è anche dolore, è anche fatica, è anche rinuncia. Non può essere solo successo, non può essere solo autoaffermazione.
Esiste un antidoto al rischio di manipolare la realtà, al rischio dell’autocensura ed è non aver paura di esporsi, di autoesporsi. Pochi ricordano che San Francesco scrisse i suoi memoranda, i suoi primi volantini, distribuendoli lungo la regione dello Chablais proprio per rompere personalmente, esponendosi, il cerchio di isolamento in cui viveva da prete cattolico in mezzo ad una popolazione calvinista allora egemone.

Richiamandovi queste cose, cari amici, non siamo ingenui rispetto alla delicatezza e alle difficoltà connesse alla vostra professione. La vostra è una professione per certi versi vertiginosa. E lo diventa ancora di più se uno vuol viverla, alla luce del vostro santo patrono, nella prospettiva della fede, se è teso alla santità, cioè alla riuscita sostanziale della propria vita.
Tuttavia noi cristiani in questo nostro autoesporci siamo in buona compagnia. In Infatti anche il Vangelo di oggi contiene una notizia che ha del clamoroso. Dalle tre righe fulminanti del brano di Marco, siamo informati di una cosa che non cessa mai di sorprenderci. Ma, ancora una volta, seguiamo il metodo di partire dai fatti: abbiamo saputo che all’inizio della sua predicazione, così lo situa Marco, le folle lo seguivano al punto che le case non riuscivano più a contenerle, bisognava scoperchiare i tetti. E questo aveva addirittura sconvolto i suoi. L’evangelista, molto scarnamente, raccontando i fatti annota: «I suoi uscivano per andare a prenderlo. Dicevano: ‘È fuori di sé.’»
Auto-esporsi, lo ha fatto anche Gesù. Chi ci sarà stato dietro a quei suoi? Forse anche sua madre?
La strada maestra per non cedere di fronte alle difficoltà è proprio quella che avete scelto oggi: riunirsi a pregare attraverso la liturgia eucaristica. Questo vostro gesto ha una conseguenza cui certamente siete già usi: far emergere, anche dentro la vostra professione, la dimensione comunitaria, costitutiva dell’esperienza cristiana. Ha la conseguenza di aiutarvi reciprocamente a stare in questa posizione certo vertiginosa, ma esaltante, perché capace di vera edificazione, di autentica comunicazione e quindi di effettivo contributo alla costruzione di una civiltà. Una costruzione oggi così necessaria per le nostre terre venete e per il nostro Paese.
A San Francesco di Sales chiediamo oggi questa grazia per tutti noi. Amen.