Discorso nella Festa del Santissimo Redentore (Venezia, 15 luglio 2007)
15-07-2007

FESTA DEL SANTISSIMO REDENTORE
BASILICA DEL SANTISSIMO REDENTORE
VENEZIA, 15 LUGLIO 2007
DISCORSO DEL CARD. ANGELO SCOLA, PATRIARCA DI VENEZIA

Il Redentore, l’«Amore che dà la vita»
Infrangere il tabù dell’anima per giovarci delle scienze

1. Un gesto antico e sempre nuovo

«Deboli, empi, peccatori, nemici» (Rm 5,6): sono i quattro termini con cui la Seconda Lettura, tratta dalla Lettera ai Romani, indica la condizione in cui versava l’uomo quando con un atto di amore, puro, libero, gratuito Gesù si è consegnato alla morte per noi. Senza che noi prendessimo la benché minima iniziativa Dio ci ha riconciliato con Lui e ci ha salvati.
Dio «ha tanto amato il mondo» (Gv 3, 15, Vangelo) da chinarsi, Egli che è Dio, su di noi. Si è preso cura (cfr Ez 34, 11, Prima Lettura) di noi, come documenta in modo efficace la pagina del profeta Ezechiele che ogni anno, in questa preziosa circostanza cittadina, non finisce di stupirci. Si capisce bene perché la liturgia di oggi suggelli con questi tre preziosi testi il gesto, antico e sempre nuovo, con cui il popolo veneziano, preceduto dalle sue legittime autorità, scioglie annualmente il voto legato alla liberazione dalla terribile pestilenza del l576. Il popolo e le sue guide si volsero allora con fiducia a Colui che, senza nulla chiedere in cambio, poteva ridare salute. La morte che il terribile flagello aveva reso spettacolo inverecondo e quotidiano non ebbe l’ultima parola. Trionfò, alla fine, la vita. E la stupenda opera architettonica del Palladio continua ad esprimere plasticamente, per i secoli, come conviene all’arte quando tocca la sua radice di verità, questo inno alla vita ritrovata. Alla stessa vita i Veneziani, in qualche modo, rendono omaggio costruendo ogni anno il ponte votivo e soprattutto calcandolo per rinnovare al Redentore, con animo grato, la domanda di essere anche oggi salvati dalla debolezza, dal peccato, dall’empietà e dall’inimicizia verso Dio.

2. Il Redentore «ci salva mediante la Sua vita»

La Parola di Dio, tuttavia, fratelli carissimi, parla sempre al presente. Tanto più che solo nel presente si può cogliere il significato pieno del tempo. Superando la mera scansione cronologica che renderebbe inaccessibile passato e futuro, il presente riesce a svelare il segreto antropologico del tempo. Investito dall’interezza appassionata dell’uomo il presente si nutre di passato e di futuro. La liturgia odierna rende conto assai bene di questo valore antropologico del tempo, acutamente esaminato da Sant’Agostino, proponendoci l’amore del Padre, che si esprime perfettamente nella lotta vittoriosa che attraverso la Sua singolare morte Gesù intrattiene con la comune morte umana. Egli, «morendo per noi» (cfr Rm 5,8, Seconda Lettura), ci salva, oggi, «mediante la sua vita» (Rm 5, 10, Seconda Lettura) e vuole che «chiunque crede in Lui non muoia ma abbia la vita eterna» (Gv 3, 15, Vangelo). Così, in questa splendida azione liturgica, noi diventiamo attori consapevoli del nostro tempo.
Veneziani ed ospiti, questa sera, e parlo anche delle decine di migliaia di persone che affollano la laguna per far festa, avvertono, più o meno consapevolmente, che questa amorevole cura di Dio viene incontro alla ‘domanda delle domande’ che muove concretamente ogni uomo ed ogni donna nel quotidiano: ‘Alla fine qualcuno mi ama? Qualcuno desidera la mia durata definitiva?’ ‘Qualcuno mi assicura per sempre?’ È questa una formulazione ancora più radicale rispetto a quella già pregnante del Leopardi: ‘Ed io che sono?’ …

(Il testo integrale è nel file allegato)