SCUOLA DI CULTURA CATTOLICA ‘MARIANO RUMOR’, VICENZA
Salone del Palazzo delle Opere Sociali
Vicenza, 29 febbraio 2004
VERSO UN MODELLO DI CIVILTÀ
Angelo Card. Scola
Patriarca di Venezia
1. Un compito di libertà
Scriveva il filosofo ebreo Emil L. Fackenheim riflettendo sulla presenza di Dio nella storia dopo Auschwitz: «La fede ebraica, come quella cristiana, non può evitare di autoesporsi al secolarismo, anche se questo comporta il rischio di arrendersi ad esso» . Se il mistero di libertà infinita dell’Eterno e Trascendente Amore si è autoesposto, coinvolgendosi con la libertà finita, sempre situata nella storia, di ogni singolo uomo questo spiega adeguatamente perché la cultura ‘ intesa come esplicitazione delle ragioni profonde dell’esperienza ‘ sia una irrinunciabile dimensione della missione della Chiesa.
Allora compito della Chiesa ‘ come per altro quello di ogni vera madre ‘ non è soltanto quello di generare, ma anche quello di ri-generare continuamente il popolo santo di Dio, attraverso la paziente educazione all’esperienza cristiana integrale, così da rendere ogni persona, che a tale popolo appartiene, «libera davvero» e, quindi, soggetto teso a rendere Gesù Cristo presente negli ambienti dell’umana esistenza. È in questa prospettiva che i cristiani, ed in particolare in questo caso il Patriarca, si occupano del cosiddetto modello veneto di sviluppo.
E, sempre in questa prospettiva, una Scuola di Cultura Cattolica, che porta il nome di una considerevole personalità politica vicentina, diventa un ambito adeguato per un confronto, attento al carattere pluriforme della nostra società, ma nel contempo appassionato di quell’unità che sola può garantire un articolato bene comune.
2. Il modello veneto di sviluppo alla prova
Solidità dei legami familiari e straordinaria capacità di lavoro, tenacia e spirito di iniziativa, frugalità e parsimonia: ecco le risorse del nostro popolo su cui il cosiddetto modello veneto di sviluppo ha potuto far leva, raggiungendo un grado di evoluzione tale da portare il Nord Est ai vertici dell’economia non solo delle regioni italiane, ma dell’intera Europa. E questa invidiabile posizione sembra sia mantenuta ancora oggi, pur nella generale e delicata situazione di stallo ‘ speriamo non di recessione ‘ in cui versa tutto l’Occidente industrializzato.
Accanto agli innegabili vantaggi materiali (più diffusa prosperità economica, più alti livelli di scolarizzazione, più avvertita consapevolezza della dignità del lavoro, maggior attenzione alla qualità della vita, più acuta sensibilità del decisivo e delicato rapporto con l’ambiente’) il modello veneto di sviluppo ha però portato con sé anche non poche contraddizioni, e oggi mette a nudo il disagio che colpisce proprio quei fattori che inizialmente ne avevano assicurato il successo. A tal punto che per alcuni degli stessi osservatori – almeno i più pessimisti – il modello veneto avrebbe ormai imboccato la strada di un irreversibile declino. Penso al linguaggio confusivo e al decremento della natalità che ha infragilito il matrimonio e la famiglia, pilastro portante delle piccole e medie imprese, vero capitale sociale come ci ricordano oggi economisti e sociologi ; o alle contraddittorie trasformazioni delle forme lavorative legate allo squilibrio tra produzione e finanza che produce un disordinato fluttuare del mercato nonostante i più alti gradi di formazione dei lavoratori e le maggiori risorse economiche; penso all’incessante flusso di immigrati, chiamati dalle stesse imprese ma guardati ancora con troppa diffidenza per la fatica ad accogliere il diverso, e alla conseguente lentezza nel dare forma ad una ormai inevitabile società multiculturale e multietnica. Penso alla microcriminalità organizzata che getta ombre inquietanti sulla tradizionale pacifica convivenza delle nostre cittadine ma soprattutto penso alle nuove forme di povertà e di emarginazione che si allargano a macchia d’olio anche se sono soltanto una pallida eco della miseria endemica di larghissimi strati di popolazioni del Sud del pianeta, soprattutto dell’Africa, le cui tragiche immagini, attraverso il piccolo schermo, talvolta raggiungono ma non turbano più di tanto le nostre pasciute esistenze. E, per concludere, un ultimo dato: lo stesso territorio è talmente saturo da faticare ad accogliere insediamenti di nuove imprese, segnale allarmante che anche il progresso economico non segue uno sviluppo lineare, né una parabola sempre ascendente.
Il modello veneto di sviluppo non sembra quindi avere una illimitata possibilità di autosostenersi per una sorta di inesauribile spinta inerziale ma, per avere futuro, è chiamato ad evolversi. Come? O, detto altrimenti: in base a questo stato di cose, a quali condizioni si può guardare con speranza certa al futuro?
3. Sviluppo e civiltà
«Genus humanum arte et ratione vivit . Il significato essenziale della cultura consiste, secondo queste parole di san Tommaso d’Aquino, nel fatto che essa è una caratteristica della vita umana come tale [‘] l’uomo non può essere fuori della cultura. La cultura è un modo specifico dell”esistere’ e dell”essere’ dell’uomo» . Le parole del Papa esprimono l’irrinunciabile nesso tra esperienza elementare e cultura. Il binomio tomano ars et ratio fa con naturalezza riferimento alla multiforme capacità creativa insita nella natura razionale del genere umano per sottolineare il fatto che ogni sapére , anche il più rigoroso, nasce sempre da un gusto della vita, da un sápere. Il cristianesimo, strappando la cultura ad ogni utopico intellettualismo avanguardista – di marca liberista o collettivista – per ancorarla all’esperienza elementare del singolo immerso nel popolo, l’ha resa matrice di autentica civiltà. Il senso della verità incarnata nella storia, innato per i cristiani, ci fa capire che il nuovo non è la ricerca di parole od espedienti inediti, ma come dovrebbe essere ben chiaro per la sua tradizione ad ogni cittadino europeo, il nuovo è l’innesto dell’antico nel presente. Cambiamento senza iati: ecco il criterio con cui il «genus humanum» affronta la storia «arte et ratione». È il criterio della civiltà. Come deve evolvere il soggetto personale e sociale perché il modello di sviluppo sia modello di civiltà?
Ogni autentica civiltà implica un intreccio creativo di dimensioni materiali e spirituali che mettano in grado i singoli ed il popolo di praticare un’integrale vita buona. Non ci si può limitare a produrre maggior benessere economico sia pure a vantaggio di strati sempre più larghi di popolazione e tendenzialmente di tutti. Né, d’altra parte, si tratta di demonizzare il denaro o di condannare il mercato. La dottrina sociale della Chiesa, secondo una ben precisa linea di sviluppo – dalla Rerum novarum alla Centesimus annus ‘, ha chiarito i principi evangelici di giustizia cui deve far riferimento il corretto rapporto tra lavoro, economia e politica ai fini di edificare una civiltà in cui tutti vivano, per quanto possibile, in pace e concordia . Proprio in questo orizzonte diventa evidente fin quasi all’ovvietà che non si dà sviluppo senza civiltà. Ed è civile una società nella quale, di fatto e non solo in linea di principio, il valore di ogni singolo, sempre radicato nella comunità, viene riconosciuto e perseguito in tutte le umane espressioni dall’individuo, dalle famiglie, dai corpi intermedi, in una parola da tutta la società civile al cui servizio sono chiamate le autorità istituzionali di ogni ordine e grado.
Tutti i fattori costitutivi di una civiltà saranno garantiti e – per quanto è possibile ‘ posti al riparo da contraddizioni, solo se verranno custodite con sapiente cura le qualità della persona e della comunità. Individuo e società, persona e comunità sono infatti gli inseparabili soggetti adeguati di una civiltà. Il tema della civiltà che nasce dall’esperienza umana elementare che lungo la storia ha dato vita alle culture, è costantemente riproposto dal Magistero di Giovanni Paolo II.
4. Da cristiani nel sociale
Vorrei ora proporre qualche osservazione circa il contributo dei cristiani alla creazione di un nuovo modello di civiltà in quattro ambiti precisi che, pur non essendo propri solo del Veneto, sono tuttavia vissuti e sentiti con speciali connotazioni nelle nostre terre. Mi riferisco alla promozione di nuovi stili di vita, alla necessità di tendere ad un maggior equilibrio del mercato, al compito dell’integrazione degli immigrati, alla edificazione della pace come condizione di giustizia.
a) Proporre nuovi stili di vita
Sono auspicabili, prima ancora che doverosi, stili di vita che, coniugando armoniosamente affezione e lavoro ‘ i due assi portanti dell’esperienza elementare che trovano nel riposo il fattore ad un tempo equilibrante e significativo – consentano di vivere al meglio una vita buona. Roland Barthes in alcune lezioni tenute al Collège de France tra il 1976 il 1978 , proponeva di reinventare in modo adeguato ai nostri giorni l’impiego del tempo e dello spazio vibrati, proprio dell’ora et labora dell’Abbazia. I cristiani non dovrebbero forse proporre con forza anche a tutti i ‘fratelli uomini’, in pieno rispetto della libertà di ciascuno, lo stile di vita di Colui che ha compiuto l’esperienza dell’umano?
Le parole del n. 22 della Gaudium et spes – «in realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo» – dicono in estrema sintesi la sorgente dei nuovi stili di vita: Stile come forma, come Gestalt. Si tratta dell’esigenza di esprimere la novità profonda della vita che Paolo definisce più volte come l’«esistere in Cristo» (cfr. 1Cor 1, 30).
Stili ‘ al plurale ‘ perché la novità che è Gesù Cristo si comunica passando attraverso la libertà creata degli uomini. Il Signore esprime la Sua gloria attraverso molteplici forme (stili), che rendono possibile a tutti gli uomini di riconoscere il fascino e la bellezza della Verità-Bene. Accettare questo inevitabile plurale ‘ stili ‘ garantisce al cristiano di non cadere nella trappola dell’utopia ultimamente sempre esposta alla violenza e lo rende consapevole del paziente lavoro necessario per liberarsi dall’inevitabile passaggio dall’ideologia. Per questo gli stili vanno proposti con tenacia, ma proposti alla libertà, nel pieno rispetto dell’opinione altrui. Proporre implica educare. Educare esige di autoesporsi, di testimoniare rispettando ed aspettando le scelte ed i tempi dell’altro.
La ricerca di modello di sviluppo economico adeguato e veramente sostenibile attraverso nuovi stili di vita, che risponda in modo compiuto alla necessità di proporre un nuovo modello di civiltà, non può non implicare una critica acuta all’ideologia del neomalthusianismo che continua a dar vita ad una lettura distorta dello sviluppo demografico e, conseguentemente, non può non impegnarsi per una cultura della vita che sostenga e promuova iniziative di concreta educazione alla vita. L’educazione ad una paternità e maternità responsabile ‘ per esempio attraverso la diffusione dei cosiddetti metodi naturali – così come la difesa della vita dal concepimento alla morte naturale e l’attenzione agli insegnamenti della Chiesa in campo bioetico (non escluso quello della procreazione medicalmente assistita e, più in generale, delle biotecnologie) non possono non avere un posto adeguato nella proposta di nuovi stili di vita.
Proporre – e proporre in modo integrale – nuovi stili di vita significa perseguire la vita buona nella duplice, insuperabile dimensione personale e sociale. Per questo colui che intende promuovere un nuovo modello di civiltà è chiamato a promuovere simultaneamente la verità della propria persona, dei suoi rapporti primari, del bene comune proponendolo a tutta la società civile. Entra qui in gioco con forza la visione dell’uomo (antropologia) nelle sue tre polarità costitutive: l’uomo è uno di anima-corpo, di uomo-donna, di individuo-comunità. L’antropologia è integrale: se cade in uno dei suoi aspetti costitutivi, cade tutta. Così, ad esempio, non è vero, alla lunga, che si possa essere politici non virtuosi sul piano personale, ma eccellenti nell’azione di governo. Analogamente non si è compiuti se si lavora per la sostenibilità, per il bilancio di giustizia, per le banche etiche, per il bilancio sociale delle imprese e dei comuni e non si protegge simultaneamente la vita a partire dalla più debole e più indifesa o non si promuovono con adeguate politiche i corpi intermedi – autentiche ricchezze della società civile – a cominciare dalla famiglia. La vita buona va perseguita in tutti i suoi aspetti.
b) Per un mercato equilibrato
Il mercato è un’istituzione sociale, non individua un fenomeno naturale. In questo senso esso chiede di essere creato, difeso, allargato o ristretto in base ad una autentica vita buona, rispettosa dei diritti della persona e dei popoli, arricchiti dalla pluriformità che sa accettare le differenze senza perdere il riferimento alla comune appartenenza all’umanità. Ancora una volta ciò è naturale conseguenza di una visione adeguata dell’antropologia. Il mercato quindi vive su presupposti sociali, culturali e legali. Ora a partire dagli anni ’60 nelle nostre società, soprattutto in quelle del Nord opulento del pianeta, con il sommarsi di processi complessi legati all’accelerato sviluppo del binomio scienze-tecnologie, si è prodotta una perniciosa alleanza tra mercato e libertinismo. L’Enciclica Centesimus Annus parla in proposito di consumismo . Nell’ottica consumistica solo i valori di mercato diventano socialmente rilevanti. Valori che per loro natura non sono in sé e per sé commerciabili (come la sessualità, il corpo umano, la dignità umana, la verità, la cultura e la religione stessa) vengono ritenuti irrilevanti, quando non radicalmente alterati per poter essere mercificati. L’Enciclica non afferma soltanto che tale alleanza tra mercato e libertinismo è scorretta, ma giunge a dire che porterà a crisi irreversibili. Una società veramente libera ha bisogno di persone responsabili, anche in quanto consumatori. Di uomini capaci di lavoro e per questo attenti agli affetti, alla famiglia moralmente sana. Proporre nuovi stili di vita significa allora lavorare per rompere l’inaccettabile alleanza tra mercato e libertinismo e sostituirvi quella tra mercato e solidarietà. «È, perciò, necessaria ed urgente una grande opera educativa e culturale, la quale comprenda l’educazione dei consumatori ad un uso responsabile del loro potere di scelta, la formazione di un alto senso di responsabilità nei produttori e, soprattutto, nei professionisti delle comunicazioni di massa, oltre che il necessario intervento delle pubbliche Autorità» . In questo quadro lo spazio non solo per il non-profit ma per il gratuito secondo le mille e mille varianti del volontariato è decisivo. Solo una società in cui uomini liberi sanno farsi carico gratuitamente di ogni forma di emarginazione a partire da quelle più radicate (gli ultimi) è degna di essere chiamata luogo di autentica civiltà. Senza forme e luoghi di fraternità ‘ che non debbono, beninteso, giustificare l’inerzia delle istituzioni ‘ non vi è democrazia sostanziale perché viene meno la punta più espressiva della libertà del soggetto personale e sociale che fa la società civile cui lo Stato è chiamato a dare servizio.
c) La sfida dell’integrazione
Qualche osservazione sulla questione dell’immigrazione e sulla possibilità di integrazione degli immigrati nella nostra società. La sfida dell’integrazione si gioca a tre livelli diversi, ma tra di loro intrecciati.
a) Nell’ambito dei rapporti interpersonali la logica della testimonianza alla verità va ben oltre ogni regola di reciprocità. Il vero testimone è colui che si espone in prima persona, unicamente per rispondere all’appello della verità. Così facendo ama l’altro gratuitamente, per se stesso. Non avanza pretese verso di lui, né fa calcolo alcuno sulla sua reazione, non pretende nulla in cambio. Questo spiega il valore imprescindibile del primo intervento di accoglienza verso chiunque giunge tra noi che la Chiesa italiana, soprattutto attraverso le Caritas, continua a perseguire.
b) Tuttavia non è possibile fermarsi a questo livello del problema. È necessario un lungo lavoro di reciproca accoglienza. A proposito è decisiva la vita dei corpi intermedi. È a questo livello che avviene o non avviene l’integrazione. Infatti la scuola, i luoghi di lavoro, i quartieri e più in generale tutte le forme associative, ambiti educativi per eccellenza, possono favorire quello scambio sociale che rinnova permanentemente una società civile autenticamente democratica. L’integrazione si gioca a livello di società civile in obbedienza ai principi di sussidiarietà e di solidarietà che consentono l’effettuale riconoscimento dell’intrinseca dignità di ogni uomo.
c) Infine a livello dello Stato la legge della testimonianza assume una dimensione comunitaria e politica. Siccome è testimonianza, non può essere direttamente assicurata da nessuna legge, né da nessun sistema giuridico. Allo Stato democratico tocca però garantire il contesto di ordine, di pace e di benessere necessario perché la logica della testimonianza possa essere concretamente attuata dai singoli e dai corpi intermedi. Infatti nella vita della società è necessario che si stabilisca un ordine, per impedire che la stessa gratuità nel rapporto io-tu diventi ingiustizia rispetto a terzi. La questione del ‘terzo’, come ha mostrato Lévinas, è il banco di prova di una società civile.
L’autorità costituita non potrà sottrarsi ai compiti di previsione e di verifica realistica di quante – persone, non numeri – possano essere con generosità accolti nelle nostre terre. Ma, nello stesso tempo, dovrà essere particolarmente attenta a salvaguardare la pregnanza della traditio innovativa, in quanto fattore dinamico di edificazione di civiltà. Nel massimo rispetto della storia, della cultura e dei costumi del popolo che rappresenta, l’autorità statuale, ai vari livelli, non pretenderà di imporre in modo meccanico un’idea astratta di integrazione. Ad esempio, non porrà, dal punto di vista pratico, sullo stesso piano l’attuazione dei diritti di culto richiesta dalla larghissima maggioranza di una popolazione (cattolica), con quelli pur dovuti ad una minoranza (musulmana).
d) L’edificazione della pace
I cristiani, guidati nell’edificazione della pace dai principi fondanti, dai criteri di giudizio e dalle direttive di azione che compongono l’insegnamento sociale della Chiesa , avranno cura di evitare due gravi rischi.
Da una parte quello di sottovalutare il fatto che nella complessa nuova realtà geopolitica che si sta schiudendo ai nostri occhi dopo l’89 sono già in atto conflitti che coinvolgono tutti (basti pensare alle guerre, soprattutto a quelle dimenticate e alla minaccia terroristica cui non si risponde col terrore organizzato). In tale situazione bisogna evitare di cadere nella fuorviante semplificazione che presume di poter sempre demarcare nettamente il campo dei ‘buoni’ da quello dei ‘cattivi’, come se la talora tragica battaglia per la pace non passasse dal cuore di ogni uomo e di ogni popolo. Come se la pace non fosse un compito che chiede ad ognuno di noi un incessante lavoro quotidiano a partire dagli ambiti della vita ordinaria (affetti e lavoro). Cedendo a questa tentazione semplificatrice tutti noi ci sottoponiamo al rischio di ricadere vittime delle stesse ideologie che – sia pure sotto nuove spoglie – così tragicamente si sono scontrate nel Novecento. Certo la pace è possibile, perciò doverosa. Ma come un compito che ho sempre davanti. Non è un automatismo.
Il rischio opposto è quello di sacrificare il bene della pace ad una visione che si vuole ‘realistica’, di Realpolitik. Si dice allora che la guerra ed il terrorismo sono un male inevitabile, giungendo ad accusare quanti alzano la loro voce in difesa della pace di essere al meno ingenui ma, più spesso, vittime di un elemento di forte unilateralità. O si conclude con scetticismo, ed ultimamente in maniera irresponsabile, che ‘la pace non è possibile’, quando non si arriva ad affermare, non senza una punta di cinismo: ‘la guerra od il terrorismo sono doverosi’. Anche qui è all’opera l’ideologia.
Invece la pace che si edifica concretamente costruendo l’ordine della pace è praticabile da subito e, soprattutto, assolutamente alla portata di ciascuno di noi. Quest’ordine ‘ che in estrema sintesi si identifica affermando il primato della persona, sempre situata storicamente e radicata in un popolo e poggia sui quattro pilastri di Pacem in terris (giustizia, amore, libertà, verità) – può e deve diventare il criterio quotidiano di ogni nostro rapporto: in famiglia come sul lavoro, nei luoghi della convivenza sociale e politica, a livello nazionale come a livello internazionale.
Una comunità cristiana che non sia stabilmente educante non costruisce la pace, anche se nei momenti di maggior mobilitazione non perde una manifestazione e un dibattito. Senza un ‘prima’ e un ‘poi’ organico con tutti i normali aspetti della vita quotidiana l’impegno anche generosissimo risulta velleitario e inevitabilmente viene strumentalizzato dal potere dominante, di qualunque colore esso sia.
5. Criteri per l’azione
Concludo questi frammentari richiami riproponendo tre osservazioni di metodo che a me paiono decisive e che già ho avuto modo di esporre altre volte incontrando anche qualche resistenza. Personalmente reputo che la grande debolezza della comunità cristiana oggi dipenda dalla confusione circa il metodo (in senso forte: non le tecniche!) della vita cristiana stessa.
a) Ideale, non utopia
Qual è il nemico più subdolo della nuova civiltà, cioè di un soggetto in azione che persegue la vita buona? È l’utopismo. Utopia è ‘ come dice il suo significato etimologico – il ‘non luogo’ quindi l’inesistente assoluto. Qualcosa che non esisterà mai. L’uso che spesso si fa della parola utopia è strutturalmente improprio. Come afferma lo storico francese Guy Bédouelle le utopie sono ‘rêveries’ architetturali o sociali scritte nella pietra (come la città di Pienza) o sulla carta come l’Utopia di Tommaso Moro di Campanella: possono al massimo indicare delle aspirazioni di riconciliazione, tolleranza ed unità , ma non consentono una reale costruzione. L’utopia, che nasce dalla inevitabile ideologia, è pura teoria anche se si basa su articolate analisi della realtà. Genera avanguardie che devono applicarla, costi quel che costi, alla realtà (per questo finiscono quasi sempre col far ricorso alla violenza: il secolo XX!)
Altra cosa è l’ideale. L’ideale è la verità del reale, quindi esiste. È concreto. E rintracciabile nell’esperienza dell’uomo che affronta ogni giorno circostanze e rapporti. In forma incompiuta, frammentaria, ma esiste. Se correttamente perseguito potrà realizzarsi sempre di più. L’ideale è qualcosa di presente, che mi sta sempre davanti come un compito con cui mi devo impegnare a partire da una precisa realtà. Questo esige un soggetto integrale ‘ personale e sociale – in azione. Su queste basi con umiltà, senza presunzione, comunitariamente, sensibile a testimonianze profetiche, il soggetto cercherà – per quanto possibile e se ne sarà capace ‘ interpretando la realtà, di agire perché la verità nella libertà abbia sempre la meglio. L’ideale è un fatto di popolo, l’utopia è una questione di avanguardie. Evidentemente è ben diverso affrontare questioni come stili di vita, pace, l’equilibrio del mercato, l’integrazione degli immigrati nella prospettiva dell’ideale o in quella dell’utopia.
b) Liberi dall’esito, non egemoni
La seconda osservazione di metodo che voglio proporre consegue alla scelta per l’ideale contro l’utopia. Mi riferisco ad un atteggiamento decisivo dell’agire cristiano in campo sociale. Tale agire, che tende a realizzare l’ideale vita buona, è ultimamente libero dall’esito. Ciò implica rinunciare ad ogni tentazione di egemonia sociale.
Il cristiano è libero dall’esito anzitutto a livello ecclesiale perché è consapevole che lo scopo primo ed unico della Chiesa ‘ la crescita nella fede di ogni uomo e di ogni donna – è ultimamente opera dello Spirito di Gesù Cristo e passa attraverso il mistero della libertà di ogni singolo. È la ragione per cui l’energia del cristiano è posta sulla genesi e non tanto sull’esito della propria azione. È attenta alla permanente conversione dell’io perché l’affezione ed il giudizio rigenerati nella comunione diventino la forma dell’azione. Pur essendo sensibile ai risultati è libero dai risultati. Perché agisco nella Chiesa? Perché la mia libertà si coinvolga con la chiamata di Cristo. Cerco la verità di me stesso, il mio vero bene. Divento così un testimone che può contagiare la libertà dell’altro. Ad esempio, quando la domenica celebro l’Eucaristia propongo una intensa vita di comunione a tutti, invitando alla catechesi, all’azione di carità ecc. Se rispondono in mille è splendido. Se rispondono in cinque prendo sul serio quei cinque ed è splendido lo stesso. Saranno questi, se Dio vorrà e quando Dio vorrà, a contagiare gli altri. Gesù stesso restò alla fine quasi praticamente solo. È un’attitudine che lungi dal renderci disimpegnati ci rende più seri ed instancabili nell’azione ecclesiale. Servi inutili, ma liberi. Liberi dall’esito.
Se siamo liberi dall’esito a livello ecclesiale, lo siamo ancor più nell’ambito della società civile. A livello sociale questa posizione sgombra il campo da ogni pretesa, più o meno consapevole, di egemonia. Nascendo dal coinvolgimento della nostra libertà con l’evento di Gesù Cristo, l’azione del cristiano anche in questo campo, distinto ma non separato da quello ecclesiale, ha sempre la forma di una proposta rivolta alla libertà di ogni membro dell’umana comunità.
Dalla visione cristiana dell’uno, del vero, del buono e del bello scaturisce una concezione integrale della vita buona a livello personale e sociale che il cristiano persegue con tenacia nella libera arena democratica. Il dovere di contribuire alla costruzione di una vita buona attraverso l’azione socio-politica resta per lui inderogabile, ma egli non si lascia determinare dall’esito. Non ripone la sua fiducia nei risultati, non elabora utopie da perseguire con militanze avanguardistiche per esercitare egemonia nella società. «La Chiesa non ha modelli da proporre. I modelli reali e veramente efficaci possono sono nascere nel quadro delle diverse situazioni storiche, grazie allo sforzo di tutti i responsabili che affrontino i problemi concreti in tutti i loro aspetti sociali, economici, politici e culturali che si intrecciano fra loro’» . Si può cedere alla tentazione egemonica anche seguendo metodi democratici, ma non per questo si cessa di essere tentati dall’egemonia. «La Chiesa rispetta la legittima autonomia dell’ordine democratico e non ha titolo per esprimere preferenze per l’una o l’altra soluzione istituzionale o costituzionale. Il contributo, che essa offre a tale ordine, è proprio quella visione della dignità della persona, la quale si manifesta in tutta la sua pienezza nel mistero del Verbo incarnato» .
Se propone una legge giusta o se ne combatte una iniqua, lo fa con tutte le energie possibili ed in vista di ottenere il risultato, ma non fa dipendere la propria consistenza dalla vittoria o dalla sconfitta. Non è determinato dal risultato. Così in una data società il peso dei cristiani può essere assai rilevante come è stato in passato ed in parte ancor oggi in Italia ed è un bene, ma anche in contesti sociali in cui l’azione pubblica dei cristiani appare quasi insignificante, come in Cina o in India, la Chiesa sta nella sua pienezza.
La vita buona, sempre doverosa, non è però per il cristiano e per la comunità ecclesiale una utopia, una terza o quarta via ma la partecipazione realistica all’interno di una società pluralista ad una costruzione comune. Questo esige sempre passione integrale per la verità situata nella storia (incarnazione). Fermi sui principi e liberi e realisti nell’invenzione delle forme. Capaci di chiara identità e di collaborazione piena di abnegazione con tutti. Il pensiero sociale cristiano in proposito è una miniera ancora inesplorata e, soprattutto, poco conosciuta dai fedeli.
La storia bimillenaria della Chiesa, al di là dei mille errori dei cristiani, resta un documento imponente in questo senso. Nel mondo,ma non di questo mondo. La più grande lotta di Gesù è stata far passare anche presso i suoi discepoli la natura non mondana del Suo essere Messia.
Ovviamente libertà dall’esito non significa ricaduta in un escatologismo disincarnato e disimpegnato. Tanto meno vuol dire sostegno ideologico a nuove forme di utopia sia di cristianità da imporre, sia di diaspore da perseguire magari in nome di una equivoca theologia crucis. Questo significa anche non illudersi che la vita nuova del popolo santo di Dio possa essere generata da una ‘religione civile’ o dai cosiddetti ‘valori’ astrattamenti presi. È esattamente il contrario: la paziente cura di comunità cristiane dall’appartenenza forte suscita uomini che in tutti gli ambiti sociali e civili, con realismo, nel paragone con chiunque, tendono alla vita buona di tutti. La storia italiana del dopoguerra ci può insegnare molte cose in proposito. E, lo ribadisco, constatare che non sempre il popolo cristiano abbia vissuto il suo impegno nel sociale con questa libertà, non pregiudica la verità di questo principio.
c) Testimonianza, non militanza
Quale figura di cristiano emerge da queste brevi cenni? Quello del testimone. Ecco la terza ed ultima osservazione di metodo. L’uomo che vive per l’ideale, libero dall’esito del suo impegno, è innanzitutto un testimone.
Il testimone è qualitativamente altro rispetto al cristiano militante (senza enfatizzare la critica ormai nota alla categoria di militanza). Il soggetto militante parte poco o tanto dall’utopia (progetto, piano, programma) e punta all’egemonia mediante l’elaborazione di strategie e la ricerca di tecniche per la sua attuazione. E la logica non cambia se la strategia militante sceglie la strada trionfalistica piuttosto che quella della diaspora.
Qual è, invece, il contenuto della testimonianza? Il gratuito e spontaneo comunicarsi di una vita cambiata per grazia, che giunge, nella accurata distinzione di ambiti, fino al sociale, al civile, al politico. È la missione.
In quest’ottica il popolo cristiano, personalmente e comunitariamente, vive la missione in tutti gli ambienti di vita dell’umana esistenza perché fa esperienza che desiderio e compito, volere e dovere, non si elidono, ma si integrano nell’umanissima avventura cristiana.
I cristiani, come diceva Péguy, sono «’i più civici fra gli uomini (…), eredi degli antichi civici, universalmente, eternamente civici» .