"Chiesa e società secondo la Gaudium et spes": intervento del Patriarca al convegno della Pastorale sociale e del lavoro del Triveneto (Zelarino, 4 febbraio 2006)
04-02-2006

PASTORALE SOCIALE E DEL LAVORO, GIUSTIZIA E PACE, SALVAGUARDIA DEL CREATO
DEL TRIVENETO

Chiesa e società del NordEst nel cambiamento
A quarant’anni dalla Gaudium et spes
Centro Pastorale Card. Urbani, Zelarino-Venezia
4 febbraio 2006

Chiesa e società secondo la Gaudium et Spes

Angelo Card. Scola
Patriarca di Venezia

1. All’insegna del dialogo

Poco tempo dopo la chiusura dei lavori conciliari, uno dei più accreditati ed autorevoli testimoni dell’iter di redazione della Gaudium et spes, si espresse in questi termini: «il Concilio, quindi, con questo documento non ha inteso chiudere l’indagine, ma invece prevederla e stimolarla, fissare un punto di partenza, porre le premesse di un dialogo fecondo. Ed è un fatto positivo che la Chiesa abbia ad ogni modo avuto quello che un acuto osservatore definiva ‘Mut zur Unvollkommenhei’, il coraggio di contentarsi delle cose imperfette, cioè di cominciare e di affidarsi al futuro con umile fiducia in Dio e nell’uomo sua immagine» .
Il rilievo di Padre Tucci è, a mio avviso, particolarmente utile a metterci nella posizione adeguata per affrontare il tema che ci occupa: Chiesa e società nel NordEst del cambiamento. Nella Costituzione Pastorale Gaudium et spes, infatti, si trovano le solide, imprescindibili fondamenta di quell’edificio la cui costruzione vede impegnati in prima linea anche i cristiani, in quanto membri attivi della comunità sociale.
La Gaudium et spes costituisce, in un certo senso, un cardine dell’insegnamento sociale della Chiesa. Com’è noto, tale insegnamento è essenzialmente orientato verso l’azione e «si sviluppa in funzione delle circostanze mutevoli della storia. Appunto per questo, pur ispirato a principi sempre validi, esso comporta anche dei giudizi contingenti. Lungi dal costituire un sistema chiuso, esso resta costantemente aperto alle nuove questioni che si presentano di continuo, ed esige il contributo di tutti i carismi, esperienze e competenze» .
Così l’insegnamento sociale della Chiesa, sulla scia della Gaudium et spes, si pone come uno dei canali privilegiati per quel dialogo con il mondo contemporaneo che stava tanto a cuore ai Padri Conciliari. La categoria di dialogo, esplicitamente approfondita dal magistero di Paolo VI nell’enciclica Ecclesiam suam, è infatti diventata la chiave di volta dell’atteggiamento conciliare nel rapporto Chiesa-mondo. La Gaudium et spes vi fa riferimento, non tanto nella lettera (cfr GS 40, 43, 56, 85, 92) quanto, soprattutto, nello spirito.
La categoria di dialogo – catalizzatrice dei cosiddetti problemi urgenti affrontati dalla Seconda Parte della Costituzione e alla quale la qualifica di Costituzione pastorale data dai Padri alla Gaudium et spes ha attribuito un’obiettiva importanza metodologica – si è presentata alla fine del Concilio, come emblematica della nuova fase apertasi nella vita della Chiesa. Tra l’altro, questo spiega abbastanza agevolmente perché la stagione post-conciliare si sia svolta, soprattutto nel suo primo periodo, sotto il segno della Gaudium et spes.
Non mancano saggi e scritti che potranno fornire a tutti uno studio dettagliato della genesi, dell’iter e dei contenuti precisi della Gaudium et spes. Non sembra, quindi, opportuno in questa sede presentare una rassegna dei principali risultati.
Più utile appare fornire quelli che, a nostro avviso, si presentano come gli assi fondamentali della Costituzione ‘ sia dal punto di vista del contenuto che del metodo ‘ e che contemporaneamente costituiscono i principi fondamentali per impostare il dialogo Chiesa-società.

2. Le due chiavi per il dialogo nello spirito di Gaudium et spes

a) Un’antropologia cristocentrica
In primo luogo occorre riconoscere che il primo di questi assi di lettura e di attuazione della Gaudium et spes è, di fatto, un’antropologia dagli intenti cristocentrici. Essa mira ad una fondazione appropriata della dignità della persona umana come base efficace per l’approccio ai cosiddetti problemi più urgenti al di là del loro naturale evolversi.
Si tratta, per noi cristiani, di proporre con forza anche a tutti i ‘fratelli uomini’, in pieno rispetto della libertà di ciascuno, lo stile di vita di Colui che ha portato a compimento l’esperienza dell’umano. L’affermazione della Gaudium et spes al n. 22 – «in realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo» – dice in estrema sintesi quale sia l’origine dei nuovi stili di vita: Stile come forma, come Gestalt. Si tratta dell’esigenza di esprimere la novità profonda della vita inaugurata da Gesù Cristo e che Paolo definisce più volte come l’«esistere in Cristo» (cfr. 1Cor 1, 30).
Ho volutamente usato la forma plurale ‘ stili ‘ perché la novità che è Gesù Cristo si comunica passando attraverso la libertà creata di ogni singola persona che tuttavia vive originariamente inserita in comunità. L’uomo vivente che, come dice Ireneo, esprime la gloria di Dio attraverso molteplici forme (stili), che testimoniano la possibilità di riconoscere il fascino e la bellezza della Verità-Bene. Accettando questo inevitabile plurale ‘ stili ‘ il singolo cristiano è costretto a giocarsi direttamente, in prima persona, nella società ai vari livelli ed è messo al riparo dalla trappola dell’utopia ultimamente sempre esposta alla violenza. Diventa consapevole del paziente lavoro necessario per purificarsi dall’inevitabile passaggio dall’ideologia. Per questo gli stili vanno proposti con tenacia, ma proposti alla libertà, nel pieno rispetto dell’opinione altrui. Proporre implica educare. Educare esige di autoesporsi, di testimoniare rispettando ed aspettando le scelte ed i tempi dell’altro.

b) Una concezione integrale della pastorale
La qualifica di pastorale data dalla Costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo si rivela come il secondo punto decisivo che il processo di recezione del documento conciliare ha messo ormai in buona evidenza. L’indole pastorale, mediante la quale il Concilio, attento ai cosiddetti segni dei tempi, intende proporre Gesù Cristo alla famiglia umana, vorrebbe esprimere per i Padri la stessa missione salvifica della Chiesa: «Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità» (1 Tim 2, 4).
All’approfondimento di questa dimensione pastorale-salvifica ha dato un apporto decisivo il servo di Dio Giovanni Paolo II, evidenziando che nel suo dialogo con la società la Chiesa ha come interlocutore «l’uomo in tutta la sua verità, nella sua piena dimensione. Non si tratta dell’uomo ‘astratto’, ma reale, dell’uomo ‘concreto’, ‘storico’. Si tratta di ‘ciascun’ uomo, perché ognuno è stato compreso nel mistero della Redenzione, e con ognuno Cristo si è unito, per sempre, attraverso questo mistero. Ogni uomo viene al mondo concepito nel seno materno, nascendo dalla madre, ed è proprio a motivo del mistero della Redenzione che è affidato alla sollecitudine della Chiesa. Tale sollecitudine riguarda l’uomo intero ed è incentrata su di lui in modo del tutto particolare. L’oggetto di questa premura è l’uomo nella sua unica e irripetibile realtà umana, in cui permane intatta l’immagine e la somiglianza con Dio stesso» . A fondamento di queste sue affermazioni il Papa cita il n. 24 della Gaudium et spes, uno dei suoi passaggi più amati: «l’uomo in terra è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa».
Proprio perché si tratta dell’uomo concreto, il dialogo Chiesa-società implica la fattiva collaborazione di tutti nel proporre la vita buona, nella sua duplice e insuperabile dimensione, personale e sociale. Per questo chi intende promuovere questo dialogo è chiamato a promuovere simultaneamente la verità della singola persona, dei suoi rapporti primari, del bene comune, proponendolo a tutta la società civile. Entra qui in gioco con forza la visione dell’uomo (antropologia) nelle sue tre polarità costitutive – come uno di anima-corpo, di uomo-donna, di individuo-comunità -. Un’antropologia adeguata è integrale: se viene meno in uno dei suoi aspetti costitutivi, crolla tutta. La stessa cosa succede se viene meno, all’interno dell’unità, uno dei due poli. Per questo ad esempio, alla lunga, non si può essere politici non virtuosi sul piano personale ma eccellenti nell’azione di governo. Analogamente non si è compiuti se si lavora per la sostenibilità, per il bilancio di giustizia, per le banche etiche, per il bilancio sociale delle imprese e dei comuni e non si protegge simultaneamente la vita, dal concepimento alla morte naturale, o non si promuovono con adeguate politiche i corpi intermedi – autentiche ricchezze della società civile – a partire dalla famiglia. La vita buona va perseguita in ogni suo aspetto.
Di questa integralità di proposta la Seconda Parte di Gaudium et spes vuol offrire più che degli esempi. Ecco perché vengono in essa affrontati in successione temi come il matrimonio e la famiglia (cfr. GS 47-52), la cultura (cfr. GS 53-62), la vita economico-sociale (cfr. GS 63-72), la vita della comunità politica (cfr. GS 73-76), e la pace e la comunità delle nazioni (cfr. GS 77-90). E proprio questa Seconda Parte in cui, sulla base del magistero sociale della Chiesa, in questi quaranta anni si è documentato l’effetto benefico di quel coraggio dell’incompiutezza di cui parlava il Cardinale Tucci. Su tutti questi temi, infatti, in questi anni gli interventi del Magistero dei Papi e dei Vescovi, ma anche l’esperienza e le riflessioni di molte aggregazioni e di singoli fedeli, ha prodotto significativi sviluppi ed innovazioni mostrando la fecondità insita in Gaudium et spes. Basti pensare, per fare un esempio, al peso della Centesimus annus e della sua ripulitura del concetto di mercato e di giusto profitto in armonia con il primato del soggetto del lavoro e del lavoro sul capitale sostenuto con forza in
Laborem exercens.

3. Qualche proposta per il dialogo
Vorrei ora proporre qualche suggestione per il dialogo tra Chiesa e società, a partire dalla ripresa sintetica delle due chiavi di lettura di Gaudium et spes e tenendo presente l’attuale situazione del nostro NordEst. Ovviamente le mie considerazioni non potranno avere tutta la concretezza che sarebbe auspicabile, anche se non intendono rimanere semplicemente nel campo dell’enunciazione dei principi fondamentali. Vogliono semplicemente suggerire alcuni criteri di giudizio che possano favorire l’azione delle comunità cristiane in campo.

a) La dinamica della popolazione e la cultura della vita
Un primo ambito in cui mi sembra necessario un dialogo serio che sia alla base di nuove, necessarie forme di laicità riguarda la cosiddetta questione demografica che non può essere separata da quella che chiamerò una necessaria cultura della vita.
Secondo gli esperti la popolazione del Veneto, ad esempio, è destinata a crescere almeno sino alla metà del prossimo decennio . Questo dato risulta dalla somma di due componenti. Da una parte il cosiddetto saldo migratorio, in continuo aumento: nel nostro territorio infatti gli immigrati sono sempre più numerosi. Dall’altra si prevede che il saldo naturale ‘ i figli dei nordestini, per intenderci ‘ sarà sempre più negativo. A questo si aggiungere il dato di un progressivo invecchiamento della popolazione: la popolazione anziana (over 65) è in continua espansione.
Una prima conclusione si impone immediatamente: quello dell’immigrazione è un fenomeno necessario non solo al mercato del lavoro, ma allo stesso nostro equilibrio demografico.
Come rapportarsi da cristiani e cittadini con questo fattore decisivo della nostra realtà?
Possiamo individuare due linee di lavoro, entrambe certamente molto impegnative.
La prima avrà lo scopo di mostrare la convenienza della visione cristiana del matrimonio, della famiglia e della vita, cioè di proporre a tutti una cultura della vita che sostenga e promuova iniziative concrete di educazione e di sostengo alle famiglie. L’educazione ad una paternità e maternità responsabile ‘ per esempio attraverso la valorizzazione dei cosiddetti metodi naturali – così come la difesa della vita dal concepimento alla morte naturale e l’attenzione agli insegnamenti della Chiesa in campo bioetico (non escluso quello delle biotecnologie) diventano ambiti privilegiati di dialogo sereno ma obiettivo con tutti i soggetti che vivono nella nostra società e con le loro ermeneutiche di vita buona. È astratto pensare che si possa affrontare la questione demografica senza un serio impegno da parte di tutte le istituzioni a favore della famiglia. Un impegno che dovrebbe avere non solo dimensione regionale e nazionale, ma anche internazionale. Gli studi demografici più accurati hanno infatti dimostrato la falsità della tesi neomalthusiana che prevedeva, dopo gli anni ’60, una crescita demografica che avrebbe inevitabilmente condotto ad una catastrofe umana, economica ed ecologica . (Non possiamo in questa sede entrare in articolata valutazione circa il diverso andamento demografico nel Sud e nel Nord del pianeta). Invece, forti di tale tesi, organizzazioni nazionali e internazionali hanno diffuso e continuano a diffondere la convinzione che il cosiddetto sviluppo dei paesi del terzo mondo dipenderebbe in modo esclusivo alla necessità di frenarne la crescita demografica. Tali organizzazioni hanno imposto politiche demografiche pesantemente lesive della libertà delle persone, basate sull’imposizione di pratiche contraccettive e di sterilizzazione su larga scala. La Santa Sede, facendo riferimento al Magistero della Chiesa, si è sempre opposta in modo fermo e deciso a queste campagne ideologiche non solo per ragioni etiche, ma proprio in forza di un’antropologia adeguata, cioè in nome della vita buona.
Sempre nell’ambito della promozione della famiglia un capitolo importante andrebbe dedicato alla promozione dell’istruzione e della cultura. Fattori necessari tra l’altro in quanto fondamenti della crescita di quel capitale umano giustamente reclamato dall’improcrastinabile innovazione del NordEst. Le famiglie del NordEst sono sempre più disposte ad impegnarsi, anche economicamente, nell’istruzione e formazione dei propri figli. La comunità cristiana ‘ che tradizionalmente ha sostenuto innumerevoli iniziative rivolte ai primi livelli dell’istruzione: pensiamo alla fitta rete di scuole materne ed elementari presenti nel territorio ‘ come intende rispondere a questa esigenza nell’ambito dell’educazione superiore ed universitaria? Come, a loro volta, le autorità statuali ‘ a livello comunale, provinciale, regionale e nazionale ‘ intendono promuovere e rispettare il diritto dei corpi intermedi, in primis della famiglia, favorendo nei fatti l’applicazione del principio di sussidiarietà anche attraverso la difesa della libertà di educazione?
Penso ad un sistema scolastico veramente libero in cui l’autonomia della scuola e della Università sia effettiva anche se ovviamente continuamente verificata da obiettivi criteri e parametri di accredito. Ho in mente scuole veramente libere con progetti qualificati. Per quanto riguarda la scuola cattolica non penso ad una visione strettamente confessionale. Penso ad una scuola che senza rinunciare a dichiarare il proprio orientamento si aperta a tutti. Questo genere di scuola deve avere pari dignità di tutte le altre, anche sul piano finanziario. Siano le famiglie e gli alunni stessi ad operare le scelte!

b) Migrazione, internazionalizzazione e meticciato di civiltà
La seconda linea di lavoro ‘ che costituisce nello stesso tempo la seconda proposta che intendo suggerire – riguarda la necessità di accompagnare quello che, in altre sedi, ho chiamato il processo di meticciato di civiltà in atto nella nostra come in tutte le società occidentali.
Infatti, se è il fenomeno migratorio a garantire l’equilibrio demografico, appare evidente che quella della pluriculturalità non è assolutamente una questione opzionale, né per la società civile, né per la comunità cristiana.
Alla questione della immigrazione si dovrebbe forse anche aggiungere quella dell’urgenza della cosiddetta ‘internazionalizzazione’ delle piccole e medie imprese (da non confondere, a dire degli esperti, con la delocalizzazione). Ma su questo tema non intendiamo soffermarci.
Come vado continuamente ribadendo con l’espressione meticciato di civiltà mi riferisco ad un processo in atto che, come tutti i processi ed i fatti storici, non chiede il permesso per accadere. L’espressione meticciato di civiltà non indica, quindi, né una teoria sull’integrazione culturale, né una categoria complessiva di comprensione del nuovo assetto delle società europee occidentali. Vuole semplicemente registrare una situazione di fatto che, volenti o nolenti, coinvolge ciascuno di noi sia a livello individuale che a livello sociale, come persone e come membri di corpi intermedi e di società civili.
A conferma della natura di processo propria del fenomeno ‘meticciato di civiltà’ voglio citare una riflessione del Cardinale Giacomo Biffi nella sua gustosa recente raccolta dal titolo: Pinocchio, Peppone e l’Anticristo. Nel saggio dedicato alla rivoluzione francese il Cardinale afferma: «Le idee si condividono, si criticano, si modificano, si rifiutano, si limitano, si sviluppano. I fatti invece sono duri, sono immutabilmente quello che sono: nei fatti ci si imbatte, con i fatti si devono fare i conti. I fatti, per così dire, non sono trattabili; ma non è detto che non sia lecito giudicarli. Di fronte agli avvenimenti, tutti ‘ credenti o non credenti ‘ possono e devono attribuirsi l’impegno, o almeno compiere il tentativo, di conoscerli nel loro svolgimento; di comprenderli nella loro dinamica e nei loro nessi; di chiarirne, se ci si riesce, le premesse e le ripercussioni (‘) Il credente sa (o dovrebbe sapere) che ogni evento umano è il risultato delle libere decisioni delle creature, in tutta la loro varietà e complessità, e al tempo stesso della libera e sovrana volontà del Creatore. Orbene, la consapevolezza di questo misterioso e fecondo sinergismo (‘) determina il nostro atteggiamento tipico e irriducibile di fronte alla storia» .
Mi permetterei di integrare l’osservazione del sempre acuto Autore dicendo che la storia è più che un susseguirsi di fatti, è appunto il loro intrecciarsi complesso che ad un tempo dà vita e dipende da una molteplicità di fattori umani, religiosi, sociali, economici, culturali e politici e che determinano dei processi. Ed i processi storici non devono essere solo giudicati, ma debbono vederci come attori liberi e consapevoli che cercano di orientarli. Anzitutto conoscendone i dinamismi e le cause (è la dimensione del giudizio di cui parla Biffi), per poi tentare di scorgerne e proporne possibili sviluppi.
Con i processi si deve criticamente e liberamente interagire per cercare di orientarli alla vita buona personale e sociale, mediante un’azione di buon governo. Mi pare questo un altro ambito fondamentale di dialogo Chiesa-società, particolarmente decisivo per il presente per il futuro del NordEst.

c) Per una politica del ‘compromesso nobile’
Infine il terzo ambito di dialogo o lavoro comune al quale intendo accennare è quello che potremmo definire politico in senso ampio.
Anche in questo ambito la provocazione ci giunge dal mondo economico. Infatti non manca chi, per rispondere alle nuove sfide del Nord Est, mette in evidenza che «l’ostacolo principale appare essere quello cognitivo: superare un tradizionale modo di agire improntato ad una prevalente ‘interdizione reciproca’ e affermare la logica della ‘coesione’ a tutti i livelli di rappresentanza (economica e istituzionale). Una leadership fondata sulla ‘solidarietà degli interessi comuni’ (‘) Ciò significa modificare gli orientamenti culturali diffusi che ispirano le azioni, le strategie e le scelte di buona parte delle élite e dei decisori (pubblici e privati), tuttora informati alle affermazione del ‘particolare’» .
Quali le strade per il dialogo Chiesa-società in questo ambito?
La Chiesa è chiamata a proporre il suo insegnamento sociale al popolo e ai suoi rappresentanti nei vari ambiti della società civile, in particolare alle autorità politiche. Innanzitutto ricordando a tutti che «la politica è più che una semplice tecnica per la definizione dei pubblici ordinamenti: la sua origine e il suo scopo si trovano appunto nella giustizia, e questa è di natura etica» (Deus est caritas 28).
Si tratta di una prospettiva che ricerca efficacemente il bene comune, senza timore di fare ricorso in campo politico – nel paragone instancabile, anche fortemente dialettico, con tutti ‘ a quello che, in più occasioni, ho definito compromesso nobile. Questa parola è più cruda rispetto all’espressione dell’importante solidarietà degli interessi comuni che abbiamo citato, ma ha forse il pregio di mettersi con realismo al lavoro.
Infatti la parola compromesso non deve essere fraintesa, ma colta nel suo significato originario. Essa deriva dal latino cum (insieme) promittere (promettere) ed indica l’impegno a rimettersi vicendevolmente al giudizio di un arbitro, accettandone la decisione. L’arbitro, in democrazia, non può che essere il popolo. Per questo il compromesso nobile domanda di essere disposti a rinunciare, se necessario, alle proprie opinioni e a coniugare fino a sacrificare almeno in parte gli interessi propri e della propria parte a favore del bene di tutti.
Se insieme si promette ad un ‘terzo’, allora il terzo diventa l’arbitro. Arbitro, nella vita politica, è anzitutto la persona del cittadino, il quale non è mai isolato, ma immerso, fin dalla nascita, in comunità (dalla famiglia ad ogni sorta di comunità intermedia). L’arbitro, quindi, è in ultima analisi il popolo. Le necessità, i bisogni e le aspirazioni del popolo, nella sua articolata complessità, debbono eminentemente stare a cuore a chi riveste una qualsivoglia autorità. «Non uno Stato che regoli e domini tutto è ciò che ci occorre, ma invece uno Stato che generosamente riconosca e sostenga, nella linea del principio di sussidiarietà, le iniziative che sorgono dalle diverse forze sociali» (Deus caritas est 28).
Non ci sembra azzardato affermare che la qualità della democrazia va cercata proprio nella politica del cum-promittere, cioè dell’instancabile ricerca della miglior soluzione pratica possibile di ogni problema specifico sotto lo sguardo avvertito dell’arbitro, cioè del popolo.
La consapevolezza dell’inevitabile imperfezione dell’umana convivenza, proprio per non provocare in nessuno il disinteresse nei confronti della vita civile e politica, deve spingere i cristiani, i ‘cittadini per eccellenza’ – come li chiamava Péguy -, a perseguire incessantemente questo compromesso in senso nobile, cioè a mantenere nella tenace ricerca del bene comune il dialogo tra i diversi soggetti presenti nella compagine sociale, qualunque sia la loro opinione su vicende storiche sempre contingenti.
La testimonianza dei fedeli nell’ambito politico e sociale documenterà in tal modo come dalla fede nasce un’esperienza profondamente conveniente per l’uomo. E le comunità cristiane riprenderanno con vigore anche ad essere scuole di democrazia sostanziale, fattore irrinunciabile per le società del Terzo Millennio. Il loro marcato pluralismo culturale e religioso, lungi dall’essere una minaccia od una obiezione, si rivelerà come una straordinaria opportunità. Praticare il compromesso in senso proprio come legge nobile della politica è una delle forme più elevate di carità proprio perché mette in campo attori capaci di autentico sacrificio e rinuncia, spalancati al dono di sé per il bene del popolo. I cristiani, in Italia ‘ soprattutto in forza dell’unicum che la Chiesa italiana costituisce nel quadro delle altre Chiese ‘ potranno così essere costruttori di nuove forme di laicità, capaci di identità veramente dinamica.

Anche nel NordEst Chiesa e società hanno quindi bisogno di comunità cristiane al lavoro nel cantiere del dialogo a 360° con il mondo dischiuso 40 anni fa dalla Gaudium et spes.