L’omelia del Patriarca all’assemblea del clero a Cavallino: “Il prete, uomo di Dio che si prende cura delle storie degli uomini. La necessità del discernimento”

S. Messa in occasione dell’Assemblea del clero diocesano e dei Giubilei sacerdotali

(Cavallino / Casa Maria Assunta, 21 settembre 2021)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

 

Cari confratelli nel sacerdozio,

la festa dell’apostolo ed evangelista Matteo dona una luce particolare all’Assemblea del presbiterio diocesano che, proprio in questa liturgia, giunge al suo culmine e trova motivo di gioia nel poter ringraziare i nostri confratelli che quest’anno ricordano i loro Giubilei sacerdotali.

Oggi solo una Chiesa capace di uno sguardo allargato – lo sguardo di Cristo – può ascoltare, discernere e annunciare il Vangelo al nostro tempo, in umile vicinanza alle persone che attendono d’essere accolte e, nello stesso tempo, non hanno ancora – o hanno smarrito – le certezze umane e sono prive del dono di Gesù. Ogni prete e ogni comunità sono chiamati ad essere “ponte” tra il Vangelo e il mondo.

Se noi, come preti, smarriamo il rapporto personale con Gesù e siamo distaccati, insensibili al mondo e alle sue ferite, allora finiremo per perdere sia Dio sia il mondo. Il motto “I care“ (“Mi sta a cuore”) di don Milani ci deve accompagnare sempre.

Il prete è segno particolare di Gesù buon pastore (cfr. Gv 10,11) e, se non siamo questo segno, allora cos’è il nostro sacerdozio? Se il nostro ministero non è ponte tra gli uomini e Dio, ma se si ferma ai gesti e alle parole dell’assistente sociale, dello psicologo, dell’amministratore efficiente di una comunità, allora perché essere ancora preti?

Cito da don Divo Barsotti, grande teologo e autore spirituale del Novecento, questo pensiero sul prete e sulle sue responsabilità: “È ben difficile conciliare le due cose: uno che vuole essere l’uomo del suo tempo, rischia di non essere l’uomo di Dio. Ma troppe volte essere uomo di Dio vuol dire chiudersi in qualche modo al mondo, sottrarsi al mondo, sequestrarsi agli uomini a cui si è mandati. È in fondo proprio questo il dramma del sacerdozio: di dover essere insieme sulla terra e nel cielo, unito a Dio e legato al mondo… Se egli perde il suo contatto con Dio non ha più nulla da dire… ma se non rimane legato a questo mondo non è più sacerdote, non continuerà più in lui il mistero di una Incarnazione…” (D. Barsotti, Le responsabilità dei preti, San Paolo 2010, p. 178).

Il prete è chiamato a stare con gli uomini e a prendersi cura delle loro storie, dei valori umani, senza dimenticare che la vita eterna è già qui ora. E quindi: il “senso” di Dio e il “senso” degli uomini, ossia amare Gesù pascolando il Suo gregge (non il nostro) come per tre volte il Signore risorto ha chiesto a Pietro (cfr. Gv 21, 15-19).

Il discernimento – come ci è stato detto bene da padre Emilio che ringrazio vivamente – non consiste nel porre il proprio io come criterio di valutazione ma far in modo che il mio io, nel confronto con la realtà, comprenda la volontà di Dio, quello che Dio vuole da me oggi e dalla mia comunità.

Seguiamo la vicenda di Matteo; il Vangelo appena ascoltato (Mt 9,9-13) ci narra una storia personale. Dopo l’incontro Levi, il pubblicano, non sarà più l’esattore delle tasse di Cafarnao ma l’apostolo e l’evangelista. Si tratta di un episodio di conversione e, come Matteo, ogni discepolo deve fare l’esperienza della conversione. L’incontro con Gesù riconcilia. Questo è e deve rimanere il primo atto ecclesiale: riconciliarsi con Dio e i fratelli.

La riconciliazione è inizio del vero discernimento da cui poi tutto dipende. Al debutto della vita del discepolo c’è, infatti, il dono della riconciliazione e il Battesimo è l’inizio di tutto.

La Chiesa è comunità di riconciliati che riceve e dona il perdono. Immaginare un altro inizio nella vita ecclesiale vorrebbe dire aver smarrito il Vangelo. Gesù non scusa, ma mi perdona, Gesù non giustifica – come fanno gli uomini – ma mi converte, mi ridona la vita e mi costituisce nella dignità della verità, nella dignità del bene da cui mi sono allontanato col peccato.

Matteo, nel suo Vangelo, ci consegna un Gesù “vivo” e ci invita a fermarci a riflettere; sì, a fare discernimento. Ed inizia con la “genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo” (Mt 1,1).

Gesù è per il popolo, è per tutti gli uomini, nessuno escluso. Abramo, infatti, aveva ricevuto la promessa di una discendenza numerosa come gli astri del cielo e la sabbia del mare; Davide, invece, era la figura del re messianico in cui il popolo si ritrovava come popolo di Dio, al di là di ogni stirpe, razza, cultura e appartenenza politica. Anche qui dobbiamo fare discernimento.

Dobbiamo aprirci allo Spirito per costruire una comunità realmente ecclesiale e superare la visione di una Chiesa che coincide con chi la pensa come noi oppure la visione di una Chiesa che si identifica con un luogo o, ancora, con una visione ideologica o con una civiltà che esclude le altre; questa non sarebbe la Chiesa di Cristo. Ecco l’importanza dell’ascoltarsi e del discernimento fatto nello Spirito e secondo lo Spirito.

Il Gesù di Matteo emerge via via come il Maestro, come la Parola definitiva che Dio rivolge all’umanità.

Gesù è il nuovo Mosè e, mentre Mosè guida il popolo verso la liberazione ed entra nel Mar Rosso provocando l’apertura delle acque, Gesù è Colui che scende nelle acque del Giordano dischiudendo i cieli («Ed ecco una voce dal cielo che diceva: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento”» Mt 3,17). I cieli si apriranno poi al momento della Trasfigurazione quando si aggiungerà il monito: “Ascoltatelo” (Mt 17,5).

Mosè aveva ricevuto la legge al Sinai. Gesù, invece, una volta salito sulla montagna “si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro” (Mt 5,1-2). Così Gesù “narra” le beatitudini, la speranza dei discepoli che vivono nella prova. Sì, bisogna che le beatitudini diventino criterio di discernimento nella nostra vita di discepoli e delle comunità che ci sono affidate. Se è il caso meno efficientismo, meno controllo e più beatitudini!

Le beatitudini, soprattutto in questo tempo di pandemia, con le sue sofferenze e il carico di lutti, non ancora del tutto elaborati, chiedono più che mai d’essere proclamate con la parola e manifestate nella vita quotidiana, là dove abitiamo con le nostre comunità. Le beatitudini proclamate da Gesù sono il cammino di una comunità che si mette evangelicamente in gioco.

Nietzsche, all’inizio dell’epoca post-moderna, si domandava come è possibile credere quando i cristiani annunciano la risurrezione mostrando volti tristi e privi di gioia, proprio loro che dicono di essere i portatori della gioia delle gioie, la Pasqua.

Conosciamo la critica spietata di Nietzsche al cristianesimo: se Dio “è morto”, allora si dà il superuomo, la volontà di potenza che ha plasmato gli anni drammatici del XX secolo, il secolo breve, con la sua lunga scia di sangue, di morti e di coscienze devastate.

La sfida oggi è “la ricostruzione di una vera comunità ecclesiale che non può essere più una comunità legata a un luogo, a una razza, a una nazione. Il cristianesimo non può identificarsi con una cristianità e la cristianità non può identificarsi con la Chiesa. La Chiesa è veramente ovunque in diaspora… Anzi una comunità che si costituisce nell’unità di un luogo, nell’unità della nazione o di una civiltà è di per sé equivoca e minaccia di non essere segno della Chiesa… Lo Spirito vincerà ogni separazione” (Divo Barsotti, Le responsabilità dei preti, San Paolo 2010, p. 180.

Anche qui dobbiamo operare un discernimento comunitario, non secondo il nostro io ma secondo il soffio dello Spirito.

Gesù è il Messia atteso dal popolo (da tutti gli uomini), nasce a Betlemme, la città di Davide (cfr. Mt 2,5-6). Ma è un Messia che non risponde alle aspettative degli uomini, anzi li delude; è un Messia che non si lascia “ingabbiare”. Sì, delude quanti volevano che risolvesse, in modo “umano”, i problemi sociali e politici del popolo. Gesù appare – come oggi si direbbe – politicamente scorretto, terribilmente scorretto; per Lui la salvezza non è il benessere, non è la sicurezza: è la Croce.

Gesù è un Messia che non si lascia imprigionare dalla volontà di potenza degli uomini che si danno gloria l’un l’altro (“E come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio?” Gv 5,44). Il sistema mediatico, quello finanziario ed economico, quello politico e tecnocratico si sostengono a vicenda, perché o insieme stanno o insieme cadono. Anche qui dobbiamo fare discernimento.

In Gesù non c’è traccia del trionfalismo che spesso è stato ed è ancora degli uomini di Chiesa se cedono alla tentazione di rivestire il Vangelo, la Chiesa, la vita cristiana e lo stesso ministero ordinato dei panni del mondo. Così la Chiesa assomiglia più ad una corte principesca che alla grotta di Betlemme, alla casa di Nazareth, al cenacolo di Gerusalemme, all’orto degli Ulivi, al Calvario…

Oggi dobbiamo guardarci da altri tipi di “corti” e da trionfalismi più subdoli: la “corte” del pensiero unico dominante, il “politicamente corretto” per cui Gesù è ridotto ad una narrazione umana secondo gli schemi che, di volta in volta, sono di moda e riducendo l’annuncio del Vangelo a pura sociologia e psicologia o a tematiche gradite ai media.

Rimaniamo così storditi e confusi da tante voci e tutto ciò in nome di un illusorio ritorno al Vangelo; tutto viene omologato dalla globalizzazione e dal consumismo. Consideriamo le tematiche onnipresenti sui telegiornali, sui giornali e sulla rete mentre si rimane silenti circa le pagine scomode del Vangelo. Anche qui dobbiamo fare discernimento.

Il criterio non è più la verità di Dio portata da Cristo che sale in croce, e ci pieghiamo ad azioni e gesti più retorici che simbolici; parole e gesti che appartengono ad una specie di religione civile. Ci si piega così al catechismo del “politicamente corretto” che rende graditi al pensiero dominante, al prezzo di un silenzio assordante sull’essenziale del Vangelo. Anche qui dobbiamo fare discernimento.

Tutti sappiamo che oggi non è facile annunciare il Vangelo. Vi sono temi delicati che vanno affrontati con pacatezza, pazienza e grande carità verso tutti ma anche con chiarezza – che è sempre espressione di carità – e ce lo ricorda proprio l’apostolo Matteo nel suo Vangelo: “Il vostro parlare sia sì sì, no no, il di più viene dal maligno” (Mt 5,37).

Temi delicati, ma decisivi per la vita dell’uomo: la vita affettiva, il matrimonio, la legge di Dio, la legge di natura come via alla vera libertà, il riequilibrio della ricchezza prodotta da uno Stato nei confronti dei cittadini più fragili e fra gli Stati, l’accoglienza dell’altro, iniziando dal nascituro e dallo straniero, il rispetto del creato che oggi si preferisce chiamare ambiente, anzi ecosistema, stemperando in tal modo la peculiarità dell’uomo immagine di Dio. Anche il linguaggio ha il suo peso. Anche qui dobbiamo fare discernimento.

Insomma, Gesù è scomodo poiché Gesù – il “Figlio dell’uomo” – si pone in tutta la sua imbarazzante vicinanza e debolezza propria dell’uomo: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo” (Mt 8,20); “…il Figlio dell’uomo (…) non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mt 20,28); “Il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno, ma il terzo giorno risorgerà” (Mt 17,22-23).

Ma il “Figlio dell’uomo” è anche il “Figlio di Dio” e la sua passione è la passione vincitrice: “…il terzo giorno risorgerà” (Mt 17,23). Così, fin dal concepimento, si dice: “Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa Dio con noi” (Mt 1,23). Lo “scandalo” cristiano è Dio che personalmente s’immerge nelle fragilità umane.

La tempesta notturna, durante la traversata del lago, sia riferimento esemplare per la nostra vita. I discepoli sono soli e vengono raggiunti da Gesù soltanto alla fine della notte. Gesù cammina sulle acque e Pietro gli va incontro ma, preso dalla paura per il vento e le onde, viene meno ed inizia ad affogare. Gesù tendendogli la mano dice: “Uomo di poca fede perché hai dubitato?” (Mt 14,31). Gesù è Colui che salva, ma all’interno di una fragilità vissuta. E la fragilità più grande è la carenza di fede.

Gesù, nel Vangelo di Matteo, infine, convoca la Chiesa proprio a partire dalla fede di un apostolo: “…tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa” (Mt 16,18). Anche qui dobbiamo fare discernimento.

Matteo parla dei carismi dati per il bene della Chiesa, doni che vanno “spesi” in spirito di servizio. Tanto che, dopo la richiesta dei figli di Zebedeo, Gesù dirà: “Voi sapete che i governanti delle nazioni dominano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo” (Mt 20,25-27). Il modello rimane Lui, il Figlio dell’uomo venuto “… per servire e dare la propria vita in riscatto…” (Mt 20,28).  Anche qui si tratta di fare discernimento.

Si tratta di essere fedeli e coerenti nella concretezza dell’esistenza: «Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21). Sempre con occhi rivolti ai fratelli più piccoli, per evitare lo scandalo (cfr Mt 18,5-7).

In Matteo il sacramento (il Battesimo) e l’annuncio (la Parola) sono la missione affidata dal Risorto agli Undici: “Andate… e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato” (Mt 28,19-20). Annuncio e Battesimo, Parola e sacramenti; non solo la Parola, non solo i sacramenti, ma Parola e sacramenti. E sempre nella condivisione fraterna, come avvenuto nell’episodio della moltiplicazione dei pani e dei pesci (cfr. Mt 14,15-21).

La Chiesa accoglie il peccatore e lo perdona, per il potere che ha ricevuto da Cristo e ama farlo non in modo affrettato e anonimo ma nella relazione sacramentale dell’ascolto in una relazione personale (a tu per tu) in cui la Chiesa, attraverso il ministero del Vescovo e del presbitero, si fa carico della ferita del peccato sentendo la bellezza e la drammaticità del “potere” della riconciliazione che ha ricevuto dal Figlio dell’uomo.

Ed egli [il paralitico] si alzò e andò a casa sua. Le folle… furono prese da timore e resero gloria a Dio che aveva dato un tale potere agli uomini” (cfr. Mt 9,7-8); potere affidato a Pietro e, poi, ai Dodici con queste parole: “A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli” (Mt 16,19; 18,18).

A proposito della riconciliazione amministrata in forma personale è significativa la parabola della pecora smarrita: “Che cosa vi pare? – dice Gesù – Se un uomo ha cento pecore e una di loro si smarrisce, non lascerà le novantanove sui monti e andrà a cercare quella che si è smarrita? In verità io vi dico: se riesce a trovarla, si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite. Così è volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda” (Mt 18,12-14). Anche qui dobbiamo fare discernimento.

Infine, una domanda: chi è, per Matteo, il discepolo del Signore? Chi è pronto a mettere in gioco la sua vita sulla parola del Maestro. Ora la sequela esige determinazione, radicalità, coraggio, chiarezza di vita e di parola, mitezza di tratto e condivisione della vita col Maestro (Mt 8,18-22), disponibilità a percorrere la via della croce: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mt 16,24).

La missione ecclesiale è insieme testimonianza, annuncio, speranza; si tratta, quindi, di avere il coraggio d’inscrivere, nella propria vita quella del Maestro essendo fedeli a Gesù. Persecuzioni, discriminazioni, offese, insulti non vanno temuti ed anzi sono la “garanzia” delle beatitudini vissute.

La Chiesa – ribadiamolo in questo tempo così difficile, di iniziale e timida ripresa – non è mai stata e mai sarà un club di perfetti o di amici che si scelgono escludendo gli altri; è piuttosto un popolo in cammino che percorre le strade del mondo, è una comunità che si impegna a vivere il Vangelo – come diceva Francesco, il poverello d’Assisi – “sine glossa”, ossia alla lettera, ricordando che siamo dei riconciliati che portano la riconciliazione ad un mondo che deve ripartire proprio da qui, la riconciliazione dell’uomo con se stesso e con gli altri, a partire da quella riconciliazione che genera le altre, ossia quella con Dio, nell’attesa fiduciosa del ritorno di Gesù, “quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui” (Mt 25,31).

La Madonna della Salute – Madonna del nostro amato Seminario e di tutti i preti veneziani – ci sostenga come Presbiterio insieme alle nostre comunità, così da vivere fruttuosamente – come Gesù attende da noi – questo tempo di ascolto, discernimento e profezia.