L’omelia del Patriarca alla Messa del Crisma: “Pasqua è il momento favorevole per riscoprire il rapporto con Dio e da lì ricostruire un’umanità riconciliata”

S. Messa del Crisma

(Venezia / Basilica Cattedrale di San Marco, 28 marzo 2024)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

Carissimi,

saluto i confratelli presbiteri e, con loro, i diaconi, le persone consacrate, i ministri istituiti, i catechisti e i fedeli laici che, grazie al Battesimo, partecipano al sacerdozio universale di Cristo. Quella che stiamo vivendo è una delle celebrazioni più significative dell’anno liturgico.

Un pensiero di gratitudine va al Santo Padre Francesco che, domenica 28 aprile, accoglieremo con gioia. Sarà un momento intenso di comunione ecclesiale e chiediamo al Signore, per intercessione della Madonna della Salute, di preparare questo momento nella preghiera e con gesti concreti di carità e di pace, oggi più che mai necessari come l’aria che respiriamo.

Saluto don Lorenzo Manzoni e don Matteo Gabrieli che, per la prima volta, vivono da presbiteri la Messa del Crisma. Una speciale preghiera poi per i confratelli entrati, nell’anno appena trascorso, nella casa del Padre: don Armando Trevisiol, don Luigi Tonetto, don Luigi Battaggia e don Valerio Comin. Ricordiamo, con loro, il diacono Franco Sormani e i confratelli anziani, malati o in difficoltà.

Oggi è una giornata di festa per la nostra Chiesa particolare: voi presbiteri rinnoverete le promesse sacerdotali e insieme pregheremo professando la nostra appartenenza alla Chiesa, uniti a Gesù, eterno sacerdote.

Con la celebrazione del Crisma termina il tempo quaresimale e ora abbiamo dinanzi il Triduo Santo, mistero di morte e risurrezione. Il Vangelo di Giovanni rimarca la centralità di questi giorni. Dopo i primi dodici capitoli – il “libro dei segni” -, seguono i capitoli dal 13esimo al 21esimo, in cui sono presentati i “giorni della gloria”, in cui la luce sconfigge le tenebre.

L’apostolo Paolo, salutando gli “anziani” – ossia i presbiteri/episcopi – di Efeso, si rivolge a loro con queste parole: “Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha costituiti come custodi per essere pastori della Chiesa di Dio, che si è acquistata con il sangue del proprio Figlio” (At 20,28). Riflettiamo sull’importanza del nostro ministero sacerdotale in questi giorni del Triduo, in cui dobbiamo annunciare alle nostre comunità la realtà e la bellezza della Pasqua.

Pasqua – dall’ebraico Pesach – significa “passaggio”: il passaggio dalla morte alla vita. Ripercorriamo gli ultimi accadimenti della vita di Gesù che ci consegnano il senso pieno della sua vita; il gesto della lavanda dei piedi è eloquente, spiegazione drammatica dell’Eucaristia, e tale gesto è posto da Gesù nel contesto dell’Ultima Cena.

Nell’ambiente ebraico, al tempo di Gesù, la Pasqua si consumava nelle case, in famiglia; l’agnello, immolato al tramonto nel tempio, si consumava poi in ambito comunitario nelle case al calare della notte – come ci ricorda il libro dell’Esodo (cfr. Es 12,3-4) -; gli abiti e il cibo erano quelli del pellegrino e così la famiglia diventava “spazio” privilegiato di salvezza, luogo di pace e di esodo permanente.

Al di fuori della casa c’è la notte: la notte è simbolo delle tenebre dell’Egitto, la notte della schiavitù e del peccato, la notte in cui passa l’angelo sterminatore che porta morte.

Anche noi, oggi, nella Pasqua, siamo chiamati a riscoprire il senso della casa e della famiglia come luoghi di pace – di shalom – e anche di difesa della creazione. Tutto ciò è contenuto nel gesto di Dio che si compie in Cristo, l’agnello immolato del quale l’apostolo Pietro – nella sua prima lettera – dice che fu predestinato “già prima della fondazione del mondo” (1Pt 1,20); l’Alleanza definitiva è, quindi, il dono che Cristo fa di sé. È un dono ed un gesto di riconciliazione e pace che coinvolge il creato e la storia; le due cose insieme stanno o insieme cadono. La lavanda dei piedi e l’istituzione dell’Eucaristia creano una famiglia e una casa nuova, la chaburah di Gesù, la Chiesa.

Gesù – come attestano i Vangeli – celebra la Pasqua secondo la tradizione ebraica in una casa, in una famiglia che ha costituito come sua – la sua chaburah – insieme a quelli che, con Lui, sono saliti a Gerusalemme.

Ma, a differenza della prescrizione vigente che imponeva di non lasciare la città di Gerusalemme nella notte di Pasqua, Gesù esce dal Cenacolo che è il luogo dell’Eucaristia e dello Spirito Santo e, quindi, per eccellenza luogo ecclesiale in cui gli apostoli, i discepoli e le donne si ritroveranno insieme a Maria, la Madre. Gesù lascia la casa (cenacolo), la città santa (Gerusalemme) per scendere lungo la valle del Cedron e immergersi nelle tenebre della notte.

Per Israele tornare, in pellegrinaggio, a Gerusalemme ogni anno per la festa di Pasqua era rivivere l’evento originario che l’aveva costituito “popolo di Dio”; era riscoprire le sue radici, il rapporto con Dio, il valore della libertà avuta in dono con l’Esodo e, quindi, la possibilità di adempiere quello che era il servizio di Dio per eccellenza, il culto.

La pienezza dell’Alleanza si compie proprio nel gesto di Cristo e colpisce come Gesù non solo costituisca una delle tante chaburot in cui si vive la Pasqua ma qualcosa di essenzialmente nuovo: pone, infatti, la sua stessa persona al centro del gesto sacrificale che sancisce la Nuova Alleanza.

Il Vangelo di Marco racconta che “mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti…»” (Mc 14,22-24). Il sangue – lo sappiamo – esprime la vita, il corpo, la persona accessibile e visibile, capace di entrare in relazione e in comunione con gli altri e così costituire il nuovo popolo (cfr. Sal 22,32).

Cristo celebra la Pasqua in quello spazio che diventa luogo di pace, dove si costituisce la sua nuova famiglia e, poi, lascerà quel luogo (il Cenacolo) e la città (Gerusalemme) per entrare nelle tenebre della notte circostante; è l’ora di Satana che diventerà – per l’atto di amore e di perdono di Gesù – l’ora della salvezza, l’ora della luce che vince le tenebre.

Come il cristiano ha bisogno del pane, ossia di un cibo essenziale, allo stesso modo ha necessità di celebrare l’Eucaristia, culmine della preghiera liturgica della Chiesa, ma non può fermarsi al momento celebrativo: il cristiano deve uscire nel mondo. Infatti, realtà ultima della celebrazione eucaristica è edificare e vivere la famiglia di Gesù (la sua chaburah), la compagnia di coloro che Gesù ha salvato e che s’impegnano a vivere come Lui; sono coloro che guardano a Colui che è stato trafitto (cfr. Gv 19,37).

Siamo giunti, così, al centro del culto cristiano e qui dobbiamo avvertire la responsabilità di chi è posto a vegliare sul gregge che gli è stato affidato e ad annunciare con la parola, con la celebrazione e con la vita il dramma del Triduo pasquale. Vegliamo, quindi, sulle nostre comunità custodendole nella celebrazione e con la coerenza della vita e così entrare, con la Pasqua, in una nuova “visione” non solo teologica e liturgica, ma anche antropologica; è una antropologia che nasce dalla Pasqua di Cristo, l’unica antropologia possibile, sensata e vera per il cristiano.

Non dimentichiamo che la “grande” domenica della Pasqua annuale vive poi nelle “piccole” Pasque settimanali di ogni domenica; ecco perché dobbiamo riscoprire, con le nostre comunità, la domenica – il giorno del Signore – e il suo valore nell’anno liturgico.

Come per il popolo di Israele salire, ogni anno, a Gerusalemme per la Pasqua significava ritornare alle proprie origini – un’antica tradizione, infatti, individuava nel Tempio, costruito da Salomone, il luogo del sacrificio di Isacco (il monte Moria) -, così per noi e per le nostre comunità la Pasqua deve essere il momento favorevole per riscoprire il rapporto con Dio e ricominciare proprio da lì (dal nostro rapporto con Dio) a ricostruire un’umanità riconciliata che ama e costruisce la pace col dono di sé.

Comprendere e vivere la logica del pellegrinaggio – che ci libera dal possesso delle cose – significa essere capaci di vero rapporto con Dio.

Si parla spesso di persone alienate. Chi sono le persone alienate? Sono quelle che si costruiscono idoli e vivono di essi, oppure quelle che perseguono una vita definitivamente felice su questa terra. Il paradiso in terra fu il sogno o, meglio, l’incubo dei grandi totalitarismi del ‘900. Tutto questo accadde perché si pensò di costruire lo Stato perfetto, la razza pura e, oggi, la globalizzazione del politicamente corretto. E invece, così, si giunge alla distruzione dell’uomo; pensiamo che cos’era l’Europa nel 1945.

I cieli nuovi e la terra nuova (cfr. 2Pt 3,13; Ap 21,1) hanno la loro origine da una vita cristiana fedele all’Eucaristia. Solo così, infatti, si può raggiungere la libertà che ha nella preghiera liturgica e nel culto i suoi momenti fondanti; essi generano la famiglia o chaburah di Gesù Cristo che nasce in primis dalla celebrazione eucaristica. Questo è il vero senso della Pasqua che dobbiamo annunciare come vescovi e presbiteri alle nostre comunità.

Come detto, il Vangelo di Giovanni, nella prima parte – il “libro dei segni” – e nella seconda parte – che inizia con la lavanda dei piedi -, tratta della vita che nasce dalla croce, della luce che vince le tenebre.

Auguro a Voi e alle vostre comunità di poter entrare nel mistero della Pasqua per un’autentica e vera vita di Chiesa.

In attesa di poter incontrare Papa Francesco riflettiamo, con le nostre comunità, su quanto ha detto nella Veglia pasquale dello scorso anno. Sono le parole che hanno ispirato questa riflessione della Messa del Crisma: “Ecco cosa fa la Pasqua del Signore: ci spinge ad andare avanti, a uscire dal senso di sconfitta, a rotolare via la pietra dei sepolcri in cui spesso confiniamo la speranza, a guardare con fiducia al futuro, perché Cristo è risorto e ha cambiato la direzione della storia” (Papa Francesco, Omelia nella Veglia pasquale, 8 aprile 2023).