Si intitola “La sapienza della Croce” e raccoglie in un elegante libretto, pubblicato e reso disponibile proprio in questi giorni (ed. Marcianum Press), le meditazioni inedite che il Patriarca Francesco Moraglia ha appositamente svolto per ciascuna delle 14 stazioni della Via Crucis, pratica antichissima e popolare che – soprattutto in questo tempo di Quaresima – scandisce ed accompagna il cammino ecclesiale verso la Pasqua.
Le immagini della Via Crucis in vetro di Toso Borella. Il testo è arricchito – sin dall’immagine di copertina e poi in ciascuna stazione – da pregevoli riproduzioni della “Via Crucis di vetro”, opera di Marco Toso Borella installata dentro la basilica dei Ss. Maria Assunta, Donato e Cipriano nell’isola veneziana di Murano: sono in tutto 15 piastre di vetro decorate a graffito su foglia d’oro e smalti che rappresentano le 14 stazioni della Via Crucis più la risurrezione di Gesù (che, non a caso, apre e identifica subito il libretto). Ogni stazione riporta l’annuncio del suo contenuto, un brano evangelico o biblico corrispondente, alcuni pensieri di commento proposti da mons. Moraglia ed infine una preghiera conclusiva.
Per continuare a mettere al centro il kerigma. Le meditazioni del Patriarca – oltre che guidare ed aiutare la riflessione dei fedeli nella celebrazione della Via Crucis – diventano inoltre un particolare sviluppo di ciò che ha espresso nella lettera pastorale “L’amore di Cristo ci possiede. Il primo annuncio nella vita della Chiesa” (uscita nel settembre scorso, sempre per Marcianum Press) a proposito dell’importanza vitale e costitutiva, per la persona e per la comunità, del kerygma – il primo annuncio cristiano – che viene sempre prima di tutto, non tanto in senso cronologico ma in quanto «fondamento su cui tutto appoggia, origine che permane nello scorrere della storia» e da cui, perciò, lasciarsi finalmente afferrare e possedere.
Tra verità e… buon senso del mondo. Nel testo mons. Moraglia offre spunti di riflessione ma pone anche, ripercorrendo i singoli tratti di quella via (insieme dolorosa e gloriosa), interrogativi e “provocazioni” a chi legge. Ad esempio, nella tappa della condanna a morte di Gesù, osserva: «Una domanda si pone in modo spontaneo: quanto conta il giudizio di Dio nella nostra vita e quanto il giudizio degli uomini? Una seconda domanda si lega alla precedente: chi è Pilato e dove abita? La risposta è semplice e imbarazzante: Pilato sono io e Pilato abita in me. Ciò si fa evidente ogni volta che devo prendere posizione, scegliere fra Gesù-verità e il “buon senso” del mondo. E se le mie scelte sono la fotocopia di quelle del mondo, allora, devo chiedermi se Pilato ha preso in me il sopravvento».
La fragilità di tutti, l’umiltà di lasciarsi rialzare. Lo sguardo si dipana poi tra le pieghe e nelle diverse dimensioni della vita di oggi. Le molteplici cadute del Signore lungo il Calvario diventano motivo di riflessione: «In tale società dell’apparenza e per la cultura che la genera, tutto è concesso eccetto il non emergere. Pensiamo a cosa voglia dire in tale contesto cadere. Eppure Gesù è caduto e non una sola volta, ma più volte. Gesù che cade e si rialza è un’immagine-simbolo. È possibile cadere e rialzarsi non dandosi per vinti. Come? Credendo alla misericordia di Dio, ovvero che Dio entra nella nostra vita e sempre ci precede e accompagna. Chi si rialza è grande perché ha l’umiltà di lasciarsi rialzare». Emerge il tema della fragilità che, alla fine, appartiene a tutti e della necessità di essere vicini, in modo appropriato, a chi è in difficoltà: «Per tutti arriva, prima o poi, il momento della fragilità e, allora, scopriamo di aver bisogno d’aiuto e ci accorgiamo di quanto sia importante il modo in cui si offre l’aiuto. Far sentire chi vive la fragilità d’essere ancora in grado di decidere significa far sentire quella persona in possesso di dignità. Questo è il primo aiuto che siamo chiamati a dare al prossimo: farlo sentire persona e non oggetto. Questa è la carità di chi, come un fratello, si mette al fianco di chi soffre».
Il vero pianto è sul peccato dell’uomo. Le donne che piangono su Gesù caricato della croce per il Patriarca «in realtà piangono sulla condizione umana. Gesù, infatti, sta andando verso la croce, conseguenza del peccato che non può essere considerato semplice errore o carenza di bene; è qualcosa di essenzialmente diverso e porta in sé il radicale contrasto tra il progetto di Dio e quello dell’uomo. Il peccato è il no esplicito dell’uomo a Dio e la sua assurdità (non-senso) non può che decostruire la persona. Per questo, mentre le donne piangono su Gesù, in realtà piangono su di loro; il peccato porta ad uscire dall’amore di Dio e, così, da ogni logica umana. Alla fine, il senso del pianto delle donne di Gerusalemme è il pianto sull’uomo peccatore, diventato non-senso».
Si muore da soli ma, per il battesimo, sempre uniti al Risorto. La stazione della morte di Gesù fa dire al Patriarca che «la morte è il momento in cui la persona raggiunge la sua pienezza, il suo compimento, consegnandosi totalmente a Dio, a sé e alla storia. Il modo in cui Gesù muore è emblematico: c’è tutto l’anelito del Figlio che si rivolge al Padre esprimendo il suo Io filiale. Non è un grido disperato, ma una preghiera. La morte è la più grande solitudine dell’uomo: si muore soli, nessuno può morire al nostro posto e ciascuno di noi vive tale evento in prima persona e, in quel frangente, Gesù esprime il Suo Io di Figlio e il cristiano sa – nella fede battesimale – di vivere l’evento-morte in Gesù, Figlio del Padre, il Risorto».
Il coraggio necessario dei discepoli di ogni tempo. La figura di Giuseppe d’Arimatea, che chiede il corpo di Gesù per la sepoltura, porta a sottolineare Il tema del coraggio come dote necessaria per il discepolo di ogni tempo: «Il coraggio di Giuseppe esprime ed è profezia dello Spirito che, in pienezza, sarà effuso il giorno di Pentecoste che sarà, per gli apostoli e per i discepoli, riscatto e liberazione dalla paura; non più prigionieri del loro io, potranno annunciare il Vangelo. Senza coraggio non si può essere discepoli del Signore e il coraggio richiede, innanzitutto, di dire e fare la verità con amore e speranza, sapendo che la verità è essenziale perché la giustizia sia realmente giustizia, il bene veramente bene e l’amore pienamente tale».
Un sepolcro sigillato dagli uomini ma… vuoto. E, infine, ecco il sepolcro: è l’elemento che “chiude” la tradizionale Via Crucis ma “apre” alla grande novità della storia. “La grossa pietra posta a sigillo del sepolcro – commenta il Patriarca Francesco nell’ultima stazione – è l’ultima e definitiva parola che gli uomini hanno detto su Gesù di Nazareth. Ma, ora, risuonerà la Parola di Dio, il Padre, così sarà a tutti chiaro che Gesù, il Cristo appartiene a Dio. E la mattina dopo il sabato, finalmente, è Pasqua, la meta verso cui era, da sempre, incamminata la storia della salvezza. Il sepolcro vuoto sarà, per ogni tempo e per ogni uomo, il segno che Dio è più forte del peccato e della morte. L’ottavo giorno – il giorno della risurrezione – diventa la prima domenica della storia, in attesa, ormai, solamente della domenica senza tramonto quando, in Cristo, Dio sarà “tutto in tutti”».
(Alessandro Polet)