“Abbiamo una Speranza che sorregge le piccole speranze di ogni giorno che mai si sostituiscono alla grande Speranza e che, in qualche modo, la tengono desta mentre questa, a sua volta, le tiene tutte insieme e tutte le nutre rispettandone, in ogni circostanza, l’autonomia. La speranza del cristiano è altra cosa rispetto a quella del mondo. Non va confusa con l’ottimismo umano che, talvolta, sconfina nell’irrazionale o nel puro desiderio. La speranza è – prima di ogni altra cosa – Gesù risorto e ha come protagonista Dio; solo dopo diventa virtù umana e ha per protagonista l’uomo. La speranza plasma un nuovo modo di pensare e agire, non è un vago auspicio ma la certezza che nasce dalla fede”. Comincia così la corposa riflessione del Patriarca Francesco Moraglia durante l’omelia della Messa solenne celebrata nel tardo pomeriggio di domenica 16 luglio in occasione della popolare festa del Redentore e nell’omonimo tempio situato sull’isola della Giudecca. Il testo integrale dell’omelia, insieme alla preghiera finale, è reperibile nel file allegato in calce.
“Per il cristiano – continua – le speranze penultime si riferiscono a realtà molteplici: ad esempio istituire relazioni personali e sociali più giuste attraverso un’educazione e una politica non autoreferenziali ma lungimiranti ed impegnate a ridurre le grandi differenze fra gli uomini, i popoli, i continenti. Si tratta d’impegnarsi per un progetto di sviluppo vero, reale, diffuso, condiviso. Lo sviluppo è il nuovo nome della giustizia, già lo insegnava cinquant’anni fa Paolo VI in Populorum progressio. E lavorare per lo sviluppo vuol dire costruire la pace. Per il cristiano la via della speranza e dell’impegno passa anche attraverso l’esercizio rigoroso della responsabilità politica e sociale, economica e finanziaria, soprattutto da parte di chi ha elevati gradi di responsabilità ed è coinvolto in enti e istituzioni che hanno il potere di condizionare il vivere civile e, quindi, l’esistenza quotidiana di tante comunità, famiglie e persone. Bisogna – come evidenzia, purtroppo, il caso delle banche venete – mantenere sempre alto il livello di attenzione, di vigilanza e di responsabilità: ciò è assolutamente necessario per evitare dissesti ma, soprattutto, per perseguire e garantire livelli adeguati di giustizia sociale, specialmente quando a rimetterci sono i cittadini più deboli, i piccoli risparmiatori. Rivolgo un accorato appello alla politica perché questo non avvenga mai: è un segnale che ci attendiamo come cittadini e che riteniamo sia dovuto. Anche questo è impegno concreto per il bene comune e non può essere colpevolmente tralasciato”.
Le vicende e le questioni problematiche dell’attualità emergono via via nel pensiero del Patriarca: “E cosa fare di fronte alla questione epocale dei migranti, spesso motivata da impossibili condizioni di vita? La distinzione fra migranti rifugiati e migranti economici non è facile, non è scontata, non convince. Qui la politica non può più balbettare, deve parlare un linguaggio chiaro e avere un progetto di cui – fino ad oggi – è stata priva e ci pare ancora priva; i migranti e chi li accoglie devono sapere all’interno di quale progetto politico e sociale si muovono. Chi opera sul territorio lo domanda alla politica nazionale. La gente sente l’urgenza di politiche che non siano slogan o inconcludenti annunci ma espressione di un impegno reale da parte di tutti – Italia, Europa, Onu – con animo solidale e, insieme, fondato su un concreto e sano realismo. Sì, solidarietà e realismo devono andar insieme. Evitando approcci ingenui o ideologici dobbiamo aprirci alla realtà che ci sta innanzi poiché – anche se ardua – è la realtà di fronte alla quale siamo chiamati a prender posizione e decisioni che siano umanamente e cristianamente degne. Una politica che ami un confronto e un incontro reale e che miri a risolvere, almeno in parte, i problemi deve innanzitutto esser capace di suscitare spazi di vera laicità – liberi dalle differenti forme di ideologie – ponendo al centro la persona umana. L’incontro avviene tra persone e culture che si impegnano a dialogare fra loro, a percorrere strade non facili e che sanno tener insieme diritti e doveri. Sì, diritti e doveri. Bisogna riscoprire i principi della reciprocità, dell’accoglienza, della solidarietà, della legalità, della certezza del diritto, della pena volta a redimere, senza dimenticare l’essenziale e pieno rispetto della cultura, delle leggi e delle tradizioni del Paese ospitante. E in quanto abitanti della città tutti abbiamo diritto di sapere come la pensi, sui temi sensibili del vivere comune, chi abita vicino e accanto a noi. Ad esempio sulla donna e sulla libertà religiosa e di coscienza, sui limiti dello Stato nei confronti del cittadino, su come viene considerato l’altro…”.
Nell’ultima parte dell’omelia mons. Moraglia si concentra poi sulle caratteristiche della città di oggi, in un contesto di autentica laicità, ed esprime anche alcune considerazioni specificamente rivolte a Venezia: “ Si tratta di lavorare per una città solidale, capace d’esprimere la propria storia in modo inclusivo, e che non viva solo di antichi fasti e ricordi. Tale città non teme il contesto pluralista e non cede a forme di relativismo perché si apre ad una pluriformità che non prescinde dalla ricerca libera e appassionata della verità. Specialmente Venezia – unica tanto da esser considerata nei secoli, e ancor oggi, “ponte” tra l’Occidente e l’Oriente – deve vivere la sua identità in modo inclusivo ed essere città accogliente che sa conservare viva la propria storia. I fondamenti di una sana laicità possono permettere la convivenza fra persone di differenti culture, etnie, nazionalità; tali principi non aprono a una deriva relativista se tutti saremo più appassionati della verità. Tale laicità è l’equivalente della miriade di palafitte su cui poggia ed è stata costruita Venezia e grazie alle quali – nonostante il passare dei secoli e l’ambiente delicato della laguna – la città continua a vivere. Venezia, nella sua bellezza davvero unica, è dono della fantasia di Dio all’uomo – e noi veneziani ne andiamo giustamente fieri – ma è anche frutto dell’ingegno e impegno dell’uomo. E, allora, ben vengano le opere dell’uomo – figlie della tecnica più sofisticata – ma sempre nel rispetto della natura unica e fragilissima di questa città che va messa al riparo da tante ferite che possono esserle inflitte. Papa Francesco, nell’enciclica Laudato si’ sulla tutela del creato, è molto chiaro in proposito. È doveroso richiedere che in tempi accettabili vengano portate a compimento le grandi opere iniziate, innanzitutto verificandone il funzionamento; è qualcosa di dovuto alla città e ai suoi abitanti che, in vari modi, hanno contribuito alla loro realizzazione”.
Il Patriarca ha infine così concluso: “La festa del Redentore ci aiuti ad essere intelligenti e accoglienti nel tempo in cui siamo chiamati a vivere come coloro che sanno d’esser già salvati ma ancora protesi nella speranza, fondata in Gesù risorto. Affidiamo alla Madre del Redentore la nostra amata città di Venezia, le genti venete e, con loro, tutti gli uomini e le donne di buona volontà affinché – come un giorno a Cana – Ella ci aiuti a fare quello che il Signore Gesù ci dirà”.