Il Patriarca Francesco al Redentore: “Nel Crocifisso, che vince soccombendo, la logica e la misericordia di Dio. Nuove speranze solo da una coscienza rinnovata”

“Il criterio di Dio è semplice: amare anche chi non è amabile, accogliere ogni uomo com’è… Il dono di Dio però riguarda, anzitutto, la vita eterna; Dio si china su ciascuno di noi nel breve tempo della nostra vita terrena segnandoci per l’eternità”: è l’inizio della riflessione del Patriarca di Venezia Francesco Moraglia svolta ieri sera durante la messa solenne presieduta nel tempio alla Giudecca (testo integrale in calce). Nella sua omelia non sono mancati i riferimenti alla più stretta attualità. “La nostra preghiera – ha detto – è oggi per tutte le vittime del terrorismo e, in primis, per i bambini della strage di giovedì sera a Nizza e per i loro familiari. Di fronte a un gesto così terribile di odio ci sentiamo sgomenti e invochiamo la grazia della conversione e il ritorno a un senso di vera umanità”. E poi ha così proseguito: “È nella croce di Cristo che troviamo la logica di Dio. La misericordia di Dio, infatti, non è un “imparaticcio” umano; si manifesta nel Crocifisso, Colui che “vince soccombendo”. Di fronte a Pilato, che non si interessava della verità, Cristo tace con una durezza impressionante… Sì, il Crocifisso “vince soccombendo”, anche quando viene colpito, sfregiato e profanato come è avvenuto pochi giorni fa in una chiesa veneziana. Scagliarsi contro il Crocifisso, Colui che il cristiano ha di più caro, significa profanare quegli stessi valori che proprio il Crocifisso, al di là del suo significato religioso – che sempre rimane – ha originato nella nostra cultura e ancora oggi tiene desti nella nostra società: l’accoglienza, il perdono, la riconciliazione, la misericordia. Per questo, certi tristi episodi – al di là della persona e delle motivazioni che l’hanno accompagnato – vanno vagliati con attenzione ed è opportuno che sia tutta la società a prenderne le distanze, a cominciare dalle comunità religiose, perché non manchi mai il rispetto e il riconoscimento reciproco. Ringrazio il rabbino capo della Comunità ebraica Scialom Bahbout per la vicinanza espressa anche pubblicamente”.

Il Patriarca si è quindi chiesto che cosa voglia dire incarnare il Vangelo dinanzi alle urgenze di oggi, al fenomeno dei migranti e dei rifugiati “con le loro storie di dolore e morte”? “Il flusso imponente di migranti ha trovato ieri e oggi una politica gravemente  impreparata che deve essere messa dinanzi alle proprie responsabilità. Dall’Onu all’Europa e ai governi nazionali, le responsabilità politiche sono diffuse. Non si può scaricare tutto sull’ultimo anello della politica, quello più a contatto con i cittadini: il territorio. Siamo grati a chi fa il possibile e l’impossibile in questa situazione, a contatto diretto con il territorio.  Il Papa chiede di non chiudere gli occhi di fronte a tale situazione; siamo chiamati in causa in quanto cittadini e credenti. Tutto ciò domanda una visione umana e cristiana delle cose che non si lasci rinchiudere in una polemica fine a se stessa (se non a un po’ di notorietà, a cui sarebbe bene rinunciare…) o in un generico buonismo; l’Onu e gli Stati europei tutti (e non solo alcuni) devono farsi carico di tale situazione. Papa Francesco insiste dicendo come la politica, le scelte economiche e le  strategie finanziarie siano risultato di decisioni che nascono dal cuore dell’uomo che sempre ha bisogno di conversione e d’essere sensibilizzato a una giustizia misericordiosa, nella certezza che senza misericordia non si raggiungerà mai la giustizia perché l’uomo è fatto anche di tanta fragilità. La coscienza formata e informata è la grande risorsa del cittadino quando si trova di fronte a leggi ingiuste. Una politica che non è in grado di prevedere e governare, almeno in parte, l’esodo di milioni di uomini in fuga da condizioni di “non-vita” lascia perplessi; in ogni modo, nessuno può far finta di non vedere quanto sta accadendo”.

Per mons. Moraglia è, dunque, importante tornare a “far nostro il motto di don Lorenzo Milani: “I care”, ossia mi interessa, mi sta a cuore. Nella scuola di Barbiana “I care” era il comune riferimento; in esso si dice apertura, accoglienza, coinvolgimento e responsabilizzazione. “I care” non è solo provocazione verbale o verbosità; è appello alla coscienza, perché non sia testimone muta di una tragedia… Ogni giorno vediamo immagini di salvataggi e annegamenti. I viaggi che noi diciamo “della speranza” – ma per chi li compie sono i viaggi “della disperazione” – sono l’ultima carta nel tragico poker della vita di uomini, donne e bambini di serie B. Un’ultima carta che si gioca tra ostilità, cinismo, indifferenza, talvolta razzismo, nella speranza d’incontrare – come dice Papa Francesco – costruttori di ponti e non di muri. Questa seconda tragedia – ossia che venga meno in noi il senso dell’umanità e della pietà cristiana – non è da sottovalutare perché riguarda la nostra coscienza e, quando si parla di coscienza, la posta in gioco è sempre alta perché ne va dell’uomo. Il rischio è considerare abituale che migliaia di persone muoiano; alla fine ciò sarà  “normale” e così si sarà spento tutto l’umano e il cristiano che è in noi, senza averne neanche coscienza. E l’Europa sarà più povera di umanità e ancora più attenta alla finanza e ai parametri economici. Viviamo l’epoca della comunicazione: in continuazione noi metabolizziamo immagini disumane quasi facessero parte di una delle tante fiction televisive mentre, invece, riproducono la triste realtà. Queste immagini sono precedute e seguite in modo abituale da altre che sponsorizzano il lusso e il consumo fine a se stesso, la bellezza proposta come valore assoluto e fine da perseguire a ogni costo. Ma in tal modo, anche non volendolo, si finisce per banalizzare una tale tragedia. Tra uno spot e l’altro un barcone di persone annegate… Il messaggio è che ciò sia qualcosa di “inevitabile” e “normale”. Da una parte un’umanità garantita, riparata, benestante, la nostra; dall’altra popoli in balia di radicali mutamenti climatici – intere zone sono soggette a rapida desertificazione -, oppure di disumani regimi dittatoriali, di guerre alimentate dal commercio delle armi, di mafie, scafisti e trafficanti d’organi senza scrupoli. L’idea, alla fine, è che non si possa far nulla e che tutto questo sia ineluttabile. Chiamarsi fuori – come detto – sarebbe una tragedia nella tragedia. Il rischio è oscurare il rispetto per l’uomo,  la vita umana e il valore della compassione. È come uccidere la nostra umanità; ecco perché il grido “I care”, oggi, è più che mai attuale. Questa tragedia riguarda ciascuno di noi, la nostra coscienza (troppe volte ottusa) di cittadini di un Occidente confuso e smarrito che sembra aver perso i valori fondamentali della persona per obbedire ciecamente a regie più o meno occulte. L’Europa ha fallito quando non ha saputo porre la persona al centro e quando ha contribuito a decostruirla a livello culturale, legislativo, giuridico, smarrendone le dimensioni fondamentali, non perseguendo la sintesi virtuosa fra ciò che la persona è nel suo intimo e coerenti scelte culturali;  l’individualismo è stato posto a premessa di tutto, di ogni discorso sulla coscienza, sulla persona, sulla famiglia, sulla politica”.

Il Patriarca ha, infine, così concluso la sua riflessione: “Il Papa viene applaudito, ma sui temi fondamentali della sacralità della vita, l’ecologia umana e un’economia costruita sulla persona rimane solo; di volta in volta, si ritagliano le sue frasi che possono far comodo ma tutto ciò è scorretto. I grandi della terra – Onu, G7, Europa, Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale – perseguono altre logiche. Così c’è una cultura che fatica a usare il pronome “noi” e che si ferma all’ ”io”. Ecco perché dobbiamo rispondere “I care”: mi sta a cuore, mi interessa. In tempi d’emergenza il Vangelo ci chiede di non fermarci solo a logiche giuridico-politiche ma d’incontrare l’uomo reale; a chi ha fame si deve dare il cibo, a chi ha freddo il vestito. Così, se da una parte avvertiamo tutta la nostra debolezza, dall’altra percepiamo la grande risorsa che è la nostra coscienza, vero spazio di libertà in cui possiamo salvaguardare il nostro essere uomini, luogo dove si può progettare un futuro diverso. Solo una coscienza rinnovata genera nuove speranze. “I care”: mi sta a cuore, mi interessa. L’uomo mi sta a cuore, mi interessa; viene prima degli equilibri finanziari, economici e politici dai quali non si può prescindere ma che dobbiamo ripensare a partire dalla persona. Il Vangelo, oggi, ci impegna come uomini e come credenti. Guardiamo al Redentore e chiediamoGli di lasciarci redimere per poter redimere”.

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