Venezia, 13 luglio 2021
Nella serata di oggi il Patriarca Francesco ha presieduto la Santa Messa nella basilica cattedrale di San Marco Evangelista con gli imprenditori di Confindustria di Venezia e Rovigo. Pubblichiamo integralmente l’omelia pronunciata durante la celebrazione.
Presidente, Consiglieri, Direttore Generale, Associati,
ci incontriamo nuovamente – ed è sempre bello poterlo fare celebrando l’Eucaristia – nella splendida basilica di San Marco, in una Venezia che sta muovendo lentamente i primi passi della ripresa e si sta così rianimando.
Ascoltiamo le letture: il brano dell’Esodo (Es 2,1-15) narra l’inizio avventuroso della vita di Mosè, il grande liberatore del popolo d’Israele.
È la storia del suo salvataggio dalle acque e da tale episodio deriverà lo stesso suo nome: Mosè. Questo fatto ci dice che Dio si serve – e non di rado – dell’intraprendenza, dell’ingegno e della laboriosità dell’uomo, virtù che concorrono a realizzare il cammino che la Divina Provvidenza ha pensato e porta avanti per ciascuno di noi.
Dio si serve dell’intraprendenza umana e, in questo caso, di quella femminile; protagoniste sono la mamma di Mosè, la sorella maggiore, la figlia del faraone e le sue ancelle. Le quote rose qui sono ampiamente garantite.
Il futuro liberatore d’Israele, come tutti i figli maschi degli Ebrei, doveva essere soppresso – per sottostare alla legge vigente – ma la madre non lo vuole lasciare e lo tiene nascosto per un po’; poi lo affida alle acque del Nilo e qui entra in gioco l’intelligenza, l’astuzia e l’intraprendenza della sorella di Mosè che segue da vicino lo scorrere sulle acque del cesto con il fratellino ed interviene al momento opportuno.
Con buona dialettica e capacità di previsione ed intervento, la sorella di Mosè fa in modo che il fratellino sia accolto dalla figlia del faraone e procura anche una nutrice tra le donne ebree (la stessa madre del bambino). Mosè trova così, in modo impensato la salvezza da morte certa e una degna sistemazione e potrà crescere mentre, secondo una legge ingiusta anche se proclamata dalla legittima autorità, il Faraone, sarebbe stato destinato a morte.
Questo, cari amici e amiche, deve farci riflettere: l’uomo non è mai padrone della vita, nonostante le leggi dello Stato lo consentano; ciò valeva ieri e vale oggi. Non basta che una legge sia promulgata dalla legittima autorità; deve essere anche una legge giusta. E tutto ciò è particolarmente delicato anche per le leggi che riguardano la libertà di coscienza, uno dei fondamenti della democrazia.
Sì, la vicenda di Mosè ci porta a riflettere, anche sul nostro tempo, sul significato delle leggi. Qualsiasi norma – e, ovviamente, chiunque sia chiamato a comporla, approvarla ed applicarla – va sempre messa in relazione al bene, alla giustizia sostanziale e alla tutela di tutti i soggetti interessati: vita nascente, vita declinante, famiglia, lavoro con le annesse tutele, accoglienza, riconoscimento di chi con il suo lavoro produce reddito per sé e per altri.
In quest’Eucaristia poniamo davanti all’altare il lavoro e le attività d’impresa che sono parte integrante della vita sociale e della vostra vita di imprenditori; il lavoro è dimensione costitutiva dell’antropologia cristiana.
Fin dalle prime pagine della Bibbia la rivelazione ci immette nella grande realtà della creazione e ci dice che “il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse” (Gen 2,15). Dio affida il giardino della creazione all’uomo e alla donna, appena creati e subito chiamati a coltivare, a custodire e a far crescere la creazione stessa, mettendo così a frutto le loro doti: l’intelligenza, la creatività, la laboriosità, l’intraprendenza.
E non dimentichiamo mai che la creazione che Dio ci ha affidato è come un “giardino” e va rispettata, tutelata e trattata in un’ottica di bene comune, secondo un’ecologia integrale, come ha sottolineato con forza Papa Francesco nelle sue ultime encicliche (“Laudato si’” e “Fratelli tutti”).
“La cura per la natura – afferma – è parte di uno stile di vita che implica capacità di vivere insieme e di comunione. Gesù ci ha ricordato che abbiamo Dio come nostro Padre comune e che questo ci rende fratelli. L’amore fraterno può solo essere gratuito, non può mai essere un compenso per ciò che un altro realizza, né un anticipo per quanto speriamo che faccia. Per questo è possibile amare i nemici. Questa stessa gratuità ci porta ad amare e accettare il vento, il sole o le nubi, benché non si sottomettano al nostro controllo. Per questo possiamo parlare di una fraternità universale. Occorre sentire nuovamente che abbiamo bisogno gli uni degli altri, che abbiamo una responsabilità verso gli altri e verso il mondo…” (Papa Francesco, Lettera enciclica Laudato si’ nn. 228-229).
Nel Nuovo Testamento san Paolo inserisce il lavoro umano nel dovere quotidiano di ogni persona chiamata a dare il suo contributo personale per realizzare la vita della comunità sociale di cui fa parte. Nella seconda lettera ai Tessalonicesi è, infatti, inserita una regola: “chi non vuole lavorare, neppure mangi”. L’Apostolo, poi, si rivolge ad “alcuni” che “vivono una vita disordinata, senza fare nulla e sempre in agitazione. A questi tali, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità” (2Tes 3,10-12).
La fede cristiana, il compiersi della vita cristiana, non ammette ozii o evasioni dagli impegni che la vita, espressamente, chiede. Il lavoro – ce lo attesta lo stesso san Paolo – è criterio fondante e dimensione costitutiva per la vita di una persona e di una comunità.
Quando parliamo di lavoro non ci riferiamo soltanto al suo carattere materiale ed “oggettivo”; certo è realizzazione concreta e precisa, un progetto che diventa realtà, un manufatto che comporta creazione, costruzione, organizzazione, distribuzione.
Ma il lavoro possiede una sua dimensione soggettiva e spirituale che è essenziale; è vocazione, è spinta ad andare oltre e a perfezionare l’uomo chiamato a mettere a frutto doti tecnico-manuali e quelle intellettive e di conoscenza, d’intelligenza e fantasia, di capacità nel faticare e volontà di produrre e di crescere.
Nel lavoro, inoltre, ed è un aspetto altrettanto fondamentale, si entra costantemente in rapporto con gli altri, ci si connette continuamente con il resto della società, con le persone e l’ambiente. E qui entra di nuovo in gioco, in tale intreccio, l’istanza del bene comune.
Consideriamo infine un altro aspetto a cui si dà, in genere, poco peso ma di cui parlano i Vangeli e, quindi, fa parte della fede. Gesù stesso è stato un lavoratore, un artigiano, un piccolo impresario, un uomo che ha lavorato – prendendo esempio e imparando da Giuseppe, il padre legale – nella “bottega” di famiglia; dei trent’anni circa vissuti nel silenzio di Nazareth parecchi li ha trascorsi lavorando proprio nel laboratorio di Giuseppe.
Guardiamo alla bella e luminosa figura di Giuseppe in quest’anno a lui dedicato: “Nel Vangelo appare come un uomo giusto, lavoratore, forte… Anche lui può insegnarci ad aver cura, può motivarci a lavorare con generosità e tenerezza per proteggere questo mondo che Dio ci ha affidato” (Papa Francesco, Lettera enciclica Laudato si’ n. 242).
Il Figlio di Dio – e Figlio dell’uomo – ha lavorato; ha compiuto, più volte, i gesti semplici e non di rado faticosi che ognuno di voi compie, ogni giorno, nell’esercizio della sua funzione, del suo specifico lavoro.
Gesù ha così inteso dare dignità al lavoro, ad ogni lavoro, e lo ha letteralmente “santificato”, senza fare distinzioni o stabilire gerarchie tra i lavori più “elevati” o di rilievo e quelli considerati, talora anche ingiustamente, umili e meno appetibili. Gesù ha dato valore e significato ad ogni gesto e, quindi, a quelli stessi che si compiono – e voi stessi svolgete – nell’ambito lavorativo e dell’esercizio di un’impresa.
Da qui deriva l’attenzione costante della Chiesa per il mondo del lavoro e dell’impresa, per ogni lavoratore ed imprenditore in qualsiasi campo operi.
Da qui consegue la sollecitazione a “curare” e far crescere la persona del lavoratore e dell’imprenditore con adeguata formazione, ad ogni livello, e a stabilire un virtuoso legame fra conoscenze, competenze e coscienza.
Ma non bastano le competenze e le conoscenze specifiche che ognuno deve avere nel proprio campo, dall’operaio all’impiegato, dal dirigente, all’amministratore delegato. Ci vuole, infatti, anche una retta coscienza che richiede la capacità di valutazione e discernimento in vista delle decisioni da assumere e su come ci si mette in relazione con gli altri e con l’ambiente che ci circonda. La coscienza percepisce e ci dice se quello che stiamo facendo è un puro tornaconto (non solo economico) o se siamo spinti da criteri di verità, giustizia, rischio calcolato e solidarietà.
Sì, servono competenza e coscienza. E, come ci ha fatto intuire la prima lettura, va coltivata ed apprezzata la virtù della laboriosità e dell’intraprendenza a voi ben note: è, in fondo, la capacità di gestire con serenità, equilibrio e tenacia anche i passaggi più difficili della vita economica, sociale e lavorativa ma anche di immettere una prospettiva di speranza e fiducia nel futuro che si prepara quotidiano.
“Siamo chiamati al lavoro fin dalla nostra creazione… – osserva ancora il Santo Padre nella “Laudato si’” – . Il lavoro è una necessità, è parte del senso della vita su questa terra, via di maturazione, sviluppo umano e realizzazione personale” (Papa Francesco, Lettera enciclica Laudato si’ n. 128).
A voi, ai vostri collaboratori, all’organizzazione di cui fate parte, agli ambienti lavorativi nei quali siete inseriti, ai territori economici ed umani per i quali offrite la vostra opera, auguro un tempo di lavoro proficuo, un po’ più sereno del recente passato, per il bene di tutti.