Scheda e bibliografia storica sul Patriarcato


1451-

L’8 ottobre 1451, con la bolla Regis aeterni, papa Nicolò V aveva decretato la soppressione del patriarcato di Grado e della diocesi suffraganea di Castello e istituito la nuova entità giuridica del patriarcato di Venezia. La bolla, infatti, aveva disposto la traslazione del titolo patriarcale (oltre agli altri redditi e privilegi) dalla metropolitana di Grado a Venezia, la fusione delle due diocesi e l’insediamento nella nuova cattedra veneziana del vescovo di Castello, Lorenzo Giustiniani. Con il decreto si era inteso sanare una situazione oramai insostenibile; da tempo Grado (610-1451), politicamente marginale rispetto alla Repubblica di Venezia, si dibatteva in una pesante crisi economica e religiosa, sottolineata dal trasferimento di residenza (non di sede) del prelato nella stessa Venezia, in tal modo screditando, come recitava la bolla, la stessa dignità metropolitica.

La sede del nuovo patriarcato era rimasta quella tradizionale della soppressa diocesi castellana, con fulcro nella cattedrale di San Pietro di Castello (anticamente intitolata ai Santi Sergio e Bacco) e negli annessi palazzi di curia, in un’area decentrata della città. Oltre al titolo, Grado aveva portato in dote, con il territorio della diocesi omonima, comprendente la cittadina lagunare, la pieve di Latisana con le sue cappelle dipendenti, la pieve di San Fior di Sotto nel Compardo coneglianese e relative pertinenze e una manciata di parrocchie nella stessa Venezia – San Silvestro, San Giacomo dall’Orio, San Maffio, San Martino e San Canciano –, anche quello della diocesi di Cittanova/Eraclea, soppressa e incorporata nel patriarcato di Grado nel 1440. Dal canto suo, la diocesi di Castello aveva aggiunto le parrocchie realtine e quella di Gambarare, unica propaggine in Terraferma dell’episcopato lagunare. Infine, nel 1466, la diocesi veneziana si era accresciuta con l’incorporazione di quella soppressa di Equilo/Jesolo, distinguendosi da allora tra città e zona foranea. Con l’erezione in patriarcato, Venezia era così divenuta sede metropolitica, con giurisdizione sulle diocesi suffraganee di Torcello, Chioggia e Caorle e qualle dalmate di Zara, Ossero (Cherso), Veglia e Arbe.

Come detto, il primo patriarca di Venezia era stato Lorenzo Giustiniani; durante il suo apostolato egli aveva celebrato una sinodo, riformato il capitolo della cattedrale, istituito un collegio di poveri, risanato monasteri decaduti, favorito una riforma dei costumi e infine convocato, nel 1452, un concilio provinciale. Tuttavia, l’elezione del Giustiniani (nel 1433, come vescovo di Castello), aveva rappresentato una minaccia per la compagine politica lagunare, in quanto designato direttamente dal pontefice, in pieno contrasto con le consuetudini vigenti. Per questo, oramai prossimo alla morte, il Consiglio dei dieci aveva inviato una lettera al pontefice nella quale, oltre a tessere un sentito elogio dell’attività del prelato, la Repubblica aveva rivendicato i propri privilegi in materia di elezione del vescovo locale. In sostanza, si era voluto evitare che la scelta del successore del Giustiniani ricadesse di nuovo nelle mani del papa, tornando invece in quelle tradizionali dello stato marciano. Da allora, infatti, e per tutto il periodo di esistenza della Repubblica (1797), i patriarchi erano stati di nuovo eletti con il sistema delle probae: il candidato veniva proposto dal Senato attraverso un complicato meccanismo di candidature e votazioni interne, quindi il prescelto veniva comunicato a Roma, con lettera ducale firmata dal doge, per la sua approvazione. Ovviamente il pontefice disponeva di opportuni spazi di trattativa per scongiurare la promozione di elementi indesiderati o per caldeggiare le proprie candidature; in caso di rifiuto, tuttavia, o di altra nomina da parte del papa, la Repubblica era sempre pronta a reagire e a dare vita a lunghi contenziosi giurisdizionali. Oltretutto, la bolla papale di nomina doveva essere presentata alla Signoria, che rivendicava il diritto di accettarla o, nel caso, rifiutarla.

Dopo la sua istituzione, il patriarcato aveva passato indenne – quanto a giurisdizione, fisionomia pastorale e territorio – i secoli centrali dell’età moderna: l’età dell’inquietudine, coincisa con la riforma protestante, la reazione cattolica, la diffusione in laguna di dottrine eterodosse; quella della confessionalizzazione, avviata a metà Cinquecento dal concilio di Trento e favorita dall’introduzione di nuovi modelli di comportamento e da nuovi meccanismi di coagulazione del consenso e di disciplinamento sociale; la stagione del giurisdizionalismo, ossia della rivendicazione da parte della Repubblica della propria autonomia e della propria tradizione ecclesiale di fronte alle pretese romane, che avrebbe trovato il suo campione, all’inizio del Seicento, in Paolo Sarpi, convinto difensore della sacralità dello stato nei difficili rapporti veneto-pontifici. Solo con la caduta della Repubblica nel 1797 e l’annessione di Venezia dapprima al napoleonico Regno d’Italia quindi all’Austria (nel 1814) si erano innescate in laguna trasformazioni tali da incidere, anche pesantemente (e drammaticamente), nelle stesse strutture ecclesiastiche e nella configurazione pastorale del patriarcato veneziano. Giusto in coincidenza con l’inizio del regime napoleonico, nel clima di profondo riformismo avviato da quel governo, infatti, si era consumato l’inglobamento delle diocesi di Torcello e Caorle, da tempo spopolate ed esauste finanziariamente, nel patriarcato di Venezia: in sostanza a partire dal 1804 Torcello e dal 1807 Caorle, da quando nei due episcopati, rimasti vacanti, non era più stato nominato un nuovo pastore. La situazione era stata successivamente sanata, nel 1818, da papa Pio VII, il quale aveva decretato nella bolla De salute dominici gregis (del 1° maggio 1818) la soppressione delle due diocesi e il loro incorporamento in quella di Venezia. Il documento aveva altresì sancito la cessione della zona del Campardo coneglianese alla diocesi di Ceneda, quella di Latisana alla diocesi di Udine e la laguna di Grado (aree, come detto, ereditate nel 1451 dal soppresso patriarcato di Grado) all’episcopato di Gorizia. Infine, la bolla aveva esteso il titolo di metropolita già esercitato dal patriarca di Venezia sulla diocesi suffraganea di Chioggia, su quelle di Adria, Padova, Treviso, Vicenza e Verona.

Sempre attraverso una riforma di fatto e una successiva sanatoria era pure maturato, in quegli stessi anni, il trasferimento della cattedrale da San Pietro di Castello a San Marco. Il trasporto della cattedra nella basilica marciana, infatti, era stato deciso già nel 1807, in piena età napoleonica, quando si era pure decretata la soppressione del primiceriato di San Marco, l’unificazione forzata dei due capitoli e la provvisoria sistemazione del patriarca nella più centrale parrocchia di San Maurizio (già da tempo, peraltro, per ovviare ai disagi di una ubicazione tanto periferica della curia patriarcale, era stata creata una cancelleria succursale presso la chiesa di San Bartolomeo). Solo nel 1821, tuttavia, Pio VII, con la bolla Ecclesias quae, aveva sanato quella situazione provvisoria, confermando a pieno titolo il trasferimento di sede; nel 1840, a lavori ultimati, la curia aveva inoltre definitivamente preso possesso del nuovo patriarchio in piazza San Marco.

Di contro, il passaggio dal dominio austriaco al Regno d’Italia (1866) non aveva comportato, per la diocesi veneziana, che parziali e limitati aggiustamenti. Così, per esempio, nel 1919 il papato aveva sanzionato la separazione del territorio di Malamocco (in antico sede di un episcopato lagunare, trasferito nel 1110 a Chioggia) dalla diocesi di appartenenza, Chioggia, e il suo inglobamento nel patriarcato di Venezia. Ancora, con la Costituzione apostolica emanata il 14 febbraio 1927 da Pio XII, la Santa Sede aveva decretato il distacco e l’unificazione al patriarcato lagunare di undici parrocchie già di giurisdizione dell’episcopio di Treviso: nella fattispecie Mestre, Carpendo, Campalto, Favaro Veneto, Dese, Chirignago, Zellarino, Trevignano, Mira, Borbiago e Oriago. Infine, nel 1940, si erano operate rettifiche marginali per meglio strutturare le diocesi confinanti di Venezia e Treviso, che avevano consegnato al patriarcato lagunare la parrocchia di nuova creazione (in zona di bonifica) di Cittanova.

Attualmente la diocesi di Venezia conta 128 parrocchie divise in 13 vicariati foranei.

 

Bibliografia di riferimento:

Giambattista Gallicciolli, Delle memorie venete antiche, profane ed ecclesiastiche, Venezia 1795, IV, 73-101, 113-120; G. Cappelletti, Storia della Chiesa di Venezia, I, Venezia 1849, pp. 148-659; G. Romanelli, Venezia e la sua chiesa nell’età napoleonica, in La chiesa veneziana dal tramonto della Serenissima al 1848, a cura di M. Leonardi, Venezia 1986, pp. 61-78; S. Tramontin, La diocesi nel passaggio dal dominio austriaco al regno d’Italia, in La chiesa veneziana dal 1849 alle soglie del Novecento, a cura di G. Ingegneri, Venezia 1987, pp. 11-220; S. Tramontin, Dall’episcopato castellano al patriarcato veneziano, in La chiesa di Venezia tra medioevo ed età moderna, a cura di G. Vian, Venezia 1989, pp. 61-69; P. Prodi, La chiesa di Venezia nell’età delle riforme, in La chiesa di Venezia tra riforma protestante e riforma cattolica, a cura di G. Gullino, Venezia 1990, pp. 63-75; S. Tramontin, Fondazione e sviluppo della diocesi, in Patriarcato di Venezia, a cura di S. Tramontin, Venezia 1991, pp. 19-43; S. Tramontin, La diocesi nelle relazioni dei patriarchi alla Santa Sede, in La chiesa di Venezia nel Seicento, a cura di B. Bertoli, Venezia 1992, pp. 55-90; A. Niero, Patriarcato di Grado, Diocesi lagunari, Patriarcato di Venezia, in Archivi e chiesa locale. Studi e contributi. Atti del “Corso di archivistica ecclesiastica”, Venezia, dicembre 1989-marzo 1990, a cura di F. Cavazzana Romanelli, I. Ruol, Venezia 1993, pp. 93-101; S. Tramontin, Caorle e Torcello: da diocesi a parrocchie, in La chiesa di Venezia nel Settecento, a cura di B. Bertoli, Venezia 1993, pp. 187-220.