Per Gesù la persona è tutto

riflessione pastorale di

Sua Em. Card. Marco Cè,

già Patriarca di Venezia

L’universo sanitario viva una stagione di radicale cambiamento, in cui oltre al momento della malattia si affrontano oggi il momento della prevenzione e il momento riabilitativo.

La centralità della persona del malato

Pur consapevole della complessità del mondo della Sanità, la prima esigenza, irrinunciabile, fondamentale che, come uomo del Vangelo, mi sento di affermare, sono la centralità ed il primato della persona del malato. È questa una considerazione non soltanto di ordine cul­turale, ma messa in piena luce dal Vangelo. Per Gesù la persona è tutto. Però Gesù che ha avuto un grande contatto con la sofferenza, con la malattia, non va confuso con uno dei tanti guaritori che l’espe­rienza di oggi e dei secoli passati ci riporta.

Quando Egli accosta il sofferente, il malato, ha di mira soprattutto la persona. La guarigione della malattia è spesso un momento, una conseguenza della guarigione della persona

Alcuni esempi evangelici

Prendiamo l’episodio molto noto del paralitico che viene calato dal tetto nella casa dove Gesù si trovava, la casa di Pietro a Cafarnao. La gente ha trasportato questo malato, vuole a tutti i costi presentarlo al Maestro. C’è molta ressa, non riescono a farsi largo. E allora lo calano dal tetto, fatto di “grisiole”, come si dice a Venezia. Lo pren­dono e lo calano davanti a Gesù.

Di fronte a questo paralitico, che da Gesù si aspettava una sola cosa, la guarigione, Gesù dice una sola parola: ‘Ti sono rimessi i tuoi peccati”. Ciò sta a significare l’attenzione di Gesù non solo alle soffe­renze fisiche di questa persona, ma anche alle sofferenze morali, nella globalità della sua realtà, alla quale Gesù si accosta con infinito amore.

È un atto di grande bontà, di grande misericordia; è un abbraccio alla persona. La gente si stupisce: “chi è costui che pretende di rimet­tere i peccati?” Non capisce il senso delle sue parole. Dopo di che Gesù dice: “ma cosa vi pare più importante? Ti siano rimessi i tuoi peccati, oppure dire a quest’uomo: alzati e cammina? E allora, affin­chè sappiate che ho il potere di guarire la persona, dico a questo paralitico: alzati, prendi il tuo tettuccio e cammina!” E quello fece quanto Gesù gli aveva detto.

L’attenzione di Gesù è. sì. alla malattia, però prima di tutto e soprattutto alla persona.

Potrei citare anche il cieco nato, di cui parla Giovanni al cap. IX. Gesù lo guarisce, ma si preoccupa di donargli innanzitutto la fede. Gli fa capire che la vista è qualcosa di molto importante e molto desiderabile e Gesù gliela dona, in mezzo a infiniti contrasti. Gesù si preoccupa di assumere questa persona, di riconsegnarla a una pie­nezza di se stessa, di aprirle lo scorcio, la finestra della fede. Il cieco risanato comprende la grandezza del dono e vive la sua felicità, no­nostante proprio da quel momento una forte emarginazione sia inizia­ta nei suoi confronti da parte della comunità ebraica.
Gesù è attento alla malattia; però una attenzione ancora più gran­de è quella rivolta alla persona.
Come pure Gesù ha grande attenzione alle persone che sono vicine al malato. Cito un caso solo.
Pensate alle delicatezze che Gesù ha sempre usato nei confronti di Marta e Maria, le sorelle di Lazzaro. Non c’è soltanto l’attenzione all’altro, ma c’è anche l’assunzione del loro dolore, della loro delusio­ne per la morte del fratello.

Gesù è attentissimo alla persona di Lazzaro e delle sue due so­relle, si coinvolge personalmente negli eventi di sofferenza di fronte ai quali si viene a trovare.

Perché Gesù è stato così pronto nel restituire alla vita il figlio della vedova di Naim che era morto? Credo che lo si debba veramente al fatto che Gesù in quel momento ha pensato a sua madre che, vedo­va, avrebbe perso definitivamente suo figlio.

Ed è stato in virtù di un atto di profonda commozione, di profonda partecipazione al dolore di questa donna che preannunziava il dolore di Sua Madre, che Egli resuscita, restituisce il figlio alla vedova.
Così quando si accosta alla tomba di Lazzaro, Egli stesso piange. La gente si stupisce, e dice: “Ma guarda quanto gli voleva bene!”.

Quindi vediamo in questi due episodi un Gesù che accosta la sofferenza umana con una profonda personale partecipazione.

L’episodio del Buon Samaritano è una parabola autobiografica. Gesù si fa veramente carico di quel povero disgraziato che era stato abbandonato lungo la strada dopo essere stato depredato e picchiato.
Il racconto del Buon Samaritano è una pagina autobiografica, perché ci evidenzia la profonda identificazione affettiva di Gesù con colui che soffre.

È un discorso che va gestito con molta delicatezza perché chi cura il malato deve avere anche un certo distacco dall’ammalato, per poter essere oggettivo, per non lasciarsi troppo coinvolgere emotiva­mente, per mantenere un forte tasso di obiettività, non dimenticando mai tuttavia che si trova di fronte ad una persona che soffre.

Gesù dunque ha di mira non soltanto la guarigione dalla malattia, ma il bene essere della persona. Per questo vediamo che Gesù spes­so apre il dialogo con il malato, con colui che gli viene presentato. Soprattutto apre l’interlocutore alla confidenza, al rapporto personale, lo apre alla fede.
Ma la fede, in che consiste?

La fede, nella sua realtà profonda, è un rapporto personale con Gesù, un consegnarsi alla Sua persona. La fede ha una forte carica relazionale; non è un puro atto dell’intelligenza, ma coinvolge tutta la persona. Gesù pone questa relazione fra sé e il malato che gli viene presentato, che va da Lui. Egli compie la guarigione soltanto quando questa persona si è aperta alla relazione con gli altri.

// dolore mediazione dell’amore

Gesù sconfigge anche la morte. Nei Vangeli sono descritte alme­no tre resurrezioni compiute da Gesù: quella di Lazzaro, quella del figlio della vedova di Naim, quella della figlia del Capo-Sinagoga di Cafarnao.

Nella realtà di Gesù il dolore ha un grande spazio; il dolore degli altri è il proprio dolore. È certo che l’obiettivo di Gesù è il superamento del dolore e la sua sconfitta. Qui dobbiamo essere chiari. Gesù non è un dolorista; il cristianesimo non èdolorismo, non è mitizzazione del dolore. Gesù vuole superare il dolore, come vuole superare la morte. E l’esito finale della missione di Gesù è la resurrezione. Per questo motivo Gesù non è un guaritore; il guaritore è colui che si limita alla guarigione della malattia. Gesù fa invece delle guarigioni una profe­zia, cioè l’annuncio di una vita che non finirà più, che è pienezza di vita.

L’obiettivo di Gesù è il superamento e la sconfitta del dolore. L’esito finale dell’opera e della vita di Gesù è la sconfitta della morte. Egli risorge. Il discorso di Gesù non può terminare alla croce, deve esplodere nella resurrezione; in caso contrario sarebbe uno stravolgi­mento totale della figura di Gesù.

Gesù fa proprio il dolore, se ne prende cura per dirci che un giorno il dolore sarà superato.

È quanto leggiamo nella parte finale dell’Apocalisse.

Per Gesù il dolore è un’esperienza umana che ha senso: miste­riosamente chi ama, soffre. È misterioso che il figlio di Dio abbia assunto per sé il dolore, è veramente misterioso. Noi intuiamo: il sen­so del dolore di Gesù è l’amore. Il dolore è la mediazione dell’amore; ma ciò che salva la persona umana è l’amore. E Gesù accetta il dolore e lo fa proprio, per superarlo poi nella resurrezione. Lo accetta anche perché nel linguaggio che Egli vuole instaurare con l’uomo, attraverso il dolore riesce a comunicargli in maniera assolutamente unica, insuperabile, il suo amore.

È esperienza di tutti: noi sappiamo che chi ama soffre, e che non c’è prova più grande d’amore che sopportare per amore la sofferenza.

Nel dolore c’è un mistero che è nascosto in Dio, per cui il dolore va sempre accostato con grande rispetto, con grande delicatezza, mai con banalità. Nel dolore è un mistero nascosto, che io non com­prendo e che appartiene al mistero stesso di Dio.