Omelia del Patriarca durante il pellegrinaggio mariano diocesano a Venezia (Chiesa parrocchiale dei Tolentini / Basilica dei Frari, 1 aprile 2017)
01-04-2017

Pellegrinaggio mariano diocesano a Venezia

(Chiesa parrocchiale dei Tolentini / Basilica dei Frari, 1 aprile 2017)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

Incominciamo ad intravvedere ormai la Settimana Santa, settimana in cui si compiono gli eventi della salvezza e a cui bisogna giungere cristianamente preparati. Prendendo, allora, spunto anche dal Vangelo che abbiamo appena ascoltato parliamo un po’ della fede, della nostra fede, del nostro modo di credere. Di quante cose parliamo durante la giornata, di quante cose frivole, di quante cose piacevoli, di quante cose inutili… e quanto poco parliamo della nostra fede! Dobbiamo prenderci cura della nostra fede, dobbiamo coltivarla. E prendersi cura della nostra fede è fare catechesi.

Molte volte noi viviamo di una distinzione iniziale fondamentale, che è vera ma del tutto insufficiente: o si crede o non si crede… Io credo! Poi arriviamo a dire: c’è chi crede ma non pratica… E verrebbe allora da chiederci: ma, allora, che fede è questa? C’è chi crede e pratica a seconda di quanto ritiene di volta in volta.

Bisogna prendersi cura della propria fede e, rimanendo al Vangelo, vi ricordo la parabola del seminatore: il seme (la fede) cade sulla strada, cade sui sassi, cade sulle spine e sulla strada trova una durezza, gli affanni, le logiche del mondo, gli stereotipi del mondo e non riesce a fruttificare. Il seme che cade sui sassi: è un po’ il tema e l’esame di coscienza della superficialità; il seme non trova terra, spuntano le radici e il sole le brucia. C’è, poi, il seme che cade sulle spine: sì, io credo ma devo far quadrare il bilancio… Io credo, ma ho tante cose urgenti in questa giornata che vengono prima del Signore e allora la fede rimane soffocata. C’è poi anche la parabola del grano e della zizzania: un nemico, di sera, ha sparso la zizzania nel campo in cui c’era il buon grano… Gli scandali rischiano di spegnere la fede nostra e degli altri.

Guardiamo, allora, che cosa ci dicono i Vangeli sulla fede. Guardiamo l’incontro di Gesù con i primi discepoli: Giovanni Battista sta parlando con Andrea e Giovanni, vede il Signore, lo indica e dice ad Andrea e Giovanni: “Abbiamo trovato il Messia”. Allora Giovanni ed Andrea si staccano dal Battista, seguono Gesù e gli pongono una domanda – “Dove abiti?” – e la risposta di Gesù è un invito a seguirlo: “Venite e vedrete”. Il giorno dopo Gesù incontra Filippo e gli dice semplicemente: “Seguimi!”. Filippo incontra poi Natanaele e gli dice: “Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè, nella Legge, e i Profeti: Gesù, il figlio di Giuseppe, di Nàzaret”. Ma l’altro replica: “Da Nàzaret può venire qualcosa di buono?”. E Filippo, di nuovo, dice: “Vieni e vedi” (cfr. Gv cap. 1).

La fede c’è quando io seguo il Signore; la fede è la mia storia con Lui, è la nostra storia con Lui, il lasciarsi coinvolgere. Dovremmo fare, allora, questa semplice riflessione: ma se io non credessi… sarei sostanzialmente diverso dall’uomo e dalla donna che sono? Se uno crede valuta il quotidiano in modo diverso.

La vita spirituale entra nel sangue, nella carne di una persona, di una famiglia, di un progetto educativo. E allora una persona che crede, anche quando si arrabbia, si deve arrabbiare come un uomo o una donna che crede… Non dico che non dobbiamo arrabbiarci perché, di fronte a certe cose, uno che non si indigna rivela una coscienza carente… Però anche nell’arrabbiarci, nel gioire, nel far festa, nel guadagno che ci dà il lavoro, dobbiamo arrabbiarci, gioire, far festa e ricevere il ricavato del nostro lavoro come persone “credenti”. Quel “Venite e vedrete” conduce all’atto di fede che cambia la nostra vita; altrimenti non è ancora fede.

Il vero e unico problema del discepolo o della Comunità sta nella carenza di fede e la carenza di fede genera – come la fede – uno stile di vita, lo stile di vita di una Chiesa o di un discepolo “mondanizzato” che alla fine – come ultimo criterio – ha se stesso, il suo buon senso, la sua cultura, il suo giudizio. Il problema grosso della fede è come “interpretiamo” il Signore Gesù.

Al tempo di Gesù gli zeloti – ad esempio – si erano fatti un’immagine di Messia, i farisei se n’erano fatti un’altra e così pure i sadducei… I colti e i saggi – interpellati da Erode – sanno dire tutto sul Messia ma non lo incontrano. Gli zeloti avevano interpretato il Messia come colui che avrebbe realizzato la giustizia politica liberando Israele da Roma, i sadducei avevano pensato che il Messia avrebbe instaurato il vero e perfetto culto di Gerusalemme, i farisei pensavano che il Messia sarebbe coinciso con l’osservanza piena della legge. Anche Giovanni Battista si era fatto un’idea di Messia: quando verrà il vero sarà vero, l’errore sarà errore, il giusto sarà giusto, l’ingiusto sarà ingiusto.

Il Messia, invece, va oltre tutte le aspettative umane. Guardiamo – ad esempio – la figura di Elia che, ad un certo punto, deve fare un cammino per purificare la sua fede. Sarebbe interessante seguire la sua vicenda: vince, sconfigge i profeti e gli idolatri ma poi deve fuggire spaventato; al culmine del suo successo è un uomo terrorizzato e inseguito che deve morire. Incontrerà Dio, sull’Oreb, ma non dove e come lui poteva immaginare di incontrarlo: “Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna…” (1Re 19, 11-15). Il Signore era in quella brezza. Abramo, Mosè, Elia: la fede è lasciarsi condurre da Dio.

La fede non è solo dar credito all’evento cristiano, leggendolo, ma entrandovi di persona: “…se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24). Pensiamo, all’inizio di questa Settimana Santa, a come crediamo, a come potremmo credere e a come possiamo convertirci nell’atto fondamentale che ci riporta e rapporta al Signore: la nostra fede.

Fintanto che la fede non ci porta ad uno sguardo diverso su di noi, sugli altri e sulla nostra quotidianità, forse bisognerà pensare che non si è ancora realizzato l’atto fondamentale della fede, il consegnarci al Signore, il lasciarci incontrare da Lui. Alla fine, dove ha agito Dio? Nella croce. E a noi cosa dice la croce? Sgomento, paura, volontà di evitarla, parlarne il meno possibile… La croce è l’onnipotenza di Dio, dove veramente vediamo che le Sue strade non sono le nostre strade, le Sue vie non sono le nostre vie. Chiediamo, attraverso la fede, quello sguardo che ci dischiude e consegna la nostra vita al Signore.