Corpus Domini, omelia del Patriarca: “L’Eucaristia è l’amore di Gesù per il Padre e per gli uomini, quell’amore che l’umanità da sempre desiderava e cercava”

Solennità del Corpus Domini

(Venezia / Basilica Cattedrale di San Marco, 6 giugno 2021)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

Carissimi,

la Santissima Eucaristia – che è, inseparabilmente, sacrificio e sacramento – contiene tutto il Vangelo. In essa, infatti, vi è Gesù ed è Cristo che vince la morte e dona la vita.

L’Eucaristia è l’amore di Gesù per il Padre e per gli uomini; è l’amore che l’umanità, da sempre, aveva inutilmente desiderato, cercato e mai attuato; l’amore che vince l’origine di ogni malvagità umana, ossia il peccato.

L’odierna solennità del Corpus Domini ci proietta direttamente nel mistero/sacrificio eucaristico e, mentre ci ricorda che esso è sempre “fonte e apice di tutta la vita cristiana” (Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen Gentium, n. 11), ci dice anche che siamo di fronte alla realtà che “identifica” la fede ecclesiale e di cui la fede della Chiesa non può fare a meno.

La fede non è la proiezione dei sentimenti religiosi o spirituali dei singoli; la fede nasce dalla conversione personale, che è frutto della grazia, ed è accoglienza del Vangelo a costo di cambiare la propria vita, la conversione.

L’Eucaristia “identifica” la fede e la differenzia da ogni altra esperienza religiosa o spirituale perché trae origine dal mistero dell’incarnazione, dal Dio che in Gesù si è fatto uomo. Già all’inizio del secolo scorso Leone XIII – nell’enciclica “Mirae caritatis” – raccomandava con forza “al popolo cristiano la santissima eucaristia, come quel divinissimo dono uscito dal fondo del Cuore del (…) Redentore, ardentemente bramoso di unirsi con questo mezzo agli uomini, mezzo escogitato specialmente per elargire i salutari frutti della sua redenzione” (Leone XIII, Lettera enciclica Mirae caritatis).

Ma la festa odierna, come sappiamo, ha origini più antiche e nasce nel 1246 in Belgio, nella Diocesi di Liegi, come risposta a Berengario di Tours (998-1088) che negava la transustanziazione e sosteneva che la presenza di Cristo non fosse reale, ma simbolica.

Fu Papa Urbano IV nel 1264, ad Orvieto, con la bolla “Transiturus de hoc mundo” (“Quando stava per passare da questo mondo”) ad estendere la solennità a tutta la Chiesa; l’anno precedente, a Bolsena, vi fu il miracolo eucaristico avvenuto mentre un sacerdote boemo (Pietro da Praga), in pellegrinaggio verso Roma, stava celebrando l’Eucaristia pur avvolto da molti dubbi sulla reale presenza di Gesù nell’ostia e nel vino consacrati.

Papa Urbano IV incaricò fra Tommaso d’Aquino (1225-1274) – allora residente in Orvieto – la composizione dei testi della Liturgia delle Ore e della Messa per tale solennità. La costruzione dello splendido Duomo di Orvieto – iniziata nel 1290 da Papa Niccolò IV – fu motivato proprio dalla necessità di dare degna collocazione al corporale di lino del “miracolo di Bolsena”, sul quale l’ostia consacrata aveva lasciato del sangue.

Nell’inno “Pange lingua”, san Tommaso mette in evidenza tutta la straordinarietà del mistero eucaristico che è posto nelle nostre mani e che, ogni giorno della vita della Chiesa, si rivive. Eccone qualche passo: “Il Verbo fatto carne cambia con la sua parola il pane vero nella sua carne e il vino nel suo sangue, e se i sensi vengono meno, la fede basta per rassicurare un cuore sincero. Adoriamo, dunque, prostrati un sì gran sacramento; l’antica legge ceda alla nuova, e la fede supplisca al difetto dei nostri sensi”.

C’è insomma bisogno di fede, per venire incontro al “difetto dei nostri sensi” e soprattutto alla nostra incredulità. E non esiste esperienza sacramentale più alta per il cristiano.

Il Vangelo di Marco ci ha riportato al momento dell’istituzione dell’Eucaristia: “Mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo»: poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti…»” (Mc 14, 22-24).

Un pane da prendere e mangiare, un vino da ricevere e da bere: sono tutti segni storici e concreti ma fragili, perché vulnerabili. È, in fondo, la stessa condizione nella quale si è trovato il Figlio di Dio fatto uomo condividendo la nostra natura umana. In quel pane e in quel vino c’è tutta la nostra fragilità, il nostro limite, la nostra attesa di salvezza.

Non dimentichiamo che Gesù, nel momento in cui istituiva l’Eucaristia, sapeva che sarebbe stato conservato nei tabernacoli anche più solitari, solo alla presenza di una tenue fiammella. Sapeva pure che sarebbe stato anche profanato come pure che, secondo il variare della fede nei differenti periodi storici della Chiesa, i singoli e le comunità si sarebbero recati o non recati ad adorarlo.

Noi, invece, avremmo legato la nostra presenza al concorso della gente, alle folle adoranti o che partecipano numerose alla celebrazione, altrimenti l’avremmo giudicata inutile… Ma la logica di Dio è quella della notte di Betlemme e del silenzio durato trent’anni di Nazareth.

È, allora, inutile una presenza che risulta disattesa? No! Le chiese possono essere e non di rado, purtroppo, sono vuote, ma Cristo nel tabernacolo non è mai una presenza inutile perché l’Eucaristia – sacrificio e “sacramento permanente” – è fonte di forza, di grazia, di benedizione, di salvezza incessante.

È proprio dall’Eucaristia che sorgono i veri riformatori della Chiesa – Francesco, Benedetto, Teresa, Ignazio, Charles de Foucauld -; è da lì che si forgiano i confessori della fede e i martiri, è da lì che, nonostante tutto, vite apparentemente e realmente lontane da Dio approdano alla conversione; è da lì, dall’Eucaristia, che si dà la salvezza non a buon mercato ma la “conversione”, che è presa di distanza dal proprio peccato.

Tale conversione si prepara attraverso questa presenza reale, silenziosa, indifesa e mite ma che – seppur silenziosa, indifesa e mite – muove il mondo perché raggiunge le anime.

Non dobbiamo, quindi, pensare al silenzio e alla solitudine che spesso circonda i tabernacoli come inutile. Certo, dobbiamo rammaricarci per chi non sa più riconoscere, nella fede, la presenza di Gesù Eucaristia che lo attende.

Viene alla mente l’episodio evangelico del giovane ricco invitato da Gesù ad andare a lui e che, invece, preferisce seguire le sue tante “povere” ricchezze (cfr. Mt 19,  16-26). Oppure la parabola del Padre misericordioso che, sulla soglia di casa, attende il figlio – che è andato dietro le sue “umane realizzazioni” – e non si stanca di attenderlo per accoglierlo come figlio e non come servo (cfr. Lc 15, 11-32).

Ricordo che in Diocesi, a Venezia nella chiesa di San Silvestro e a Mestre nella chiesa di Santa Maria Goretti, si svolge l’adorazione perpetua, ossia 24 ore al giorno per tutti i giorni dell’anno. Uniamoci a questi adoratori per aiutare a coprire questo tempo di adorazione e di grazia anche col nostro personale contributo.

Desidero, infine, pregare per Marco Zennaro e per la sua famiglia affinché al più presto si concluda questo tempo di sofferenza per lui e i suoi cari.