“Integrazione tra vita spirituale e missione”
Ottava Settimana di Studio per formatori di seminari – Centro di Formazione Sacerdotale della Pontificia Università della Santa Croce
(Roma, 2 febbraio 2024)
Relazione del Patriarca Francesco Moraglia
Ringrazio dell’invito il Rev. Prof. Miguel De Salis, Direttore del Centro di Formazione Sacerdotale, e saluto tutti i presenti.
“Integrazione tra vita spirituale e missione” è un tema fondamentale tanto durante la formazione del presbitero quanto dopo, nel prosieguo della sua vita.
Integrazione, vita (spirituale) e missione sono sostantivi e, quindi, hanno una loro consistenza ed autonomia; tuttavia integrazione si pone come compimento, come fine da raggiungere.
Spesso si cita la frase di Paolo VI: “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni” [1]. Inizio, perciò, dalla testimonianza di un catecumeno che si convertì alla predicazione di Pietro Chanel[2], primo martire e patrono dell’Oceania. Quando gli fu chiesto di spiegare la sua conversione, egli semplicemente disse: “Lui ci ama, fa quello che insegna, perdona ai suoi nemici, la sua è una buona dottrina”.
Qui l’integrazione tra vita spirituale e missione è la testimonianza viva di un prete in carne ed ossa.
L’integrazione avviene in un contesto concreto, mai irrilevante. Una società come la nostra – instabile (liquida), plasmata da individualismo, soggettivismo e relativismo – genera la cultura del politicamente corretto; tutto ciò condiziona il momento formativo, sia per gli educatori sia per quanti intraprendono il cammino al sacerdozio ordinato.
Formatori e seminaristi, seppur in modi differenti, sono chiamati a camminare insieme per costruire un progetto educativo che sappia andare oltre le loro persone per guardare a Gesù, vero ed unico sommo sacerdote.
Accenno qui al rapporto tra sacro e profano poiché è qualcosa di essenziale. Si tratta di categorie strutturali per il cristiano e non vanno banalizzate o interpretate a partire da emotività personali o visioni ideologiche; chiedono, piuttosto, d’essere poste in una retta relazione fra loro. Si è accennato ad emotività, soggettività, relativismo e a visioni ideologiche. Qui aggiungo: complessi d’inferiorità.
Ciò che per l’Occidente secolarizzato e scristianizzato risulta anacronistico, al contrario, è attuale o, addirittura, profetico.
Pensiamo a certe scelte pastorali, in occasione di feste cristiane, come la solennità di Tutti i Santi sostituita o confusa con Halloween; in tempo di Natale accade lo stesso coi presepi e, in tempo estivo, con le celebrazioni in riva al mare, sul materassino… e qui gli esempi potrebbero continuare. Sono conseguenza dell’incapacità a comprendere e a porre in retto rapporto fra loro le categorie del sacro e del profano. Ma si tratta, come detto, anche di complessi d’inferiorità verso le culture che, di volta in volta, dominano. L’inculturazione – che è cosa seria – qui non c’entra.
L’integrazione presuppone una forza aggregante che, in ultima istanza, è la conseguenza della grazia.
L’incontro di Gesù con i primi discepoli lo mostra con chiarezza: ”Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: «Che cosa cercate?». Gli risposero: «Rabbì (…), dove dimori?». Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui “(Gv 1,38-39).
L’integrazione è esito del dimorare con Gesù e prima d’essere azione dell’uomo è grazia che plasma e concretizza, dando visibilità alla vita spirituale e alla missionarietà. Ogni persona porta in sé, secondo il progetto di Dio, qualcosa d’incompiuto; ora, tale incompiutezza e l’anelito a superarla vanno conosciuti ed evidenziati, affinché diventino risorsa.
L’integrazione, nel cammino educativo, ha una sua modalità negli anni della formazione per evolvere, poi, secondo la crescita della vita spirituale di ogni presbitero e diventa espressione della carità pastorale.
Infatti è la carità pastorale che plasma il presbitero, il suo pensare, parlare, agire, relazionarsi con gli uomini, le donne, i bambini, gli anziani, i primi e gli ultimi nei diversi contesti e, infine, con la comunità.
Siamo innanzi ad una reale integrazione quando “tutto” si tiene insieme in modo armonico sul piano personale (l’io) e su quello comunitario (il noi). Non si dà ancora vera integrazione se si ha cura solo del piano individuale, dimenticando che il ministero si esercita insieme agli altri presbiteri, con il vescovo, in relazione alla gente.
Tale integrazione, nel servizio pastorale, vuol dire anche presenza di comunione nel presbiterio (vescovo e confratelli) e nella Chiesa particolare; la capacità d’integrarsi è, allora, fondamentale per la vita e il ministero del presbitero.
L’integrazione è un “cammino” in cui è coinvolta tutta la persona, con le sue molteplici dimensioni, in una sintesi sapienziale: “Il Dio della pace vi santifichi interamente, e tutta la vostra persona, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo” (1Ts 5,23).
Come in ogni uomo, anche nel prete l’unità e l’armonia della persona sono esito – per servirsi del linguaggio di san Paolo – dell’integrazione tra “spirito”, ’“anima” e “corpo”. Ciò suppone un paziente lavoro sull’umano e sul divino; umano e divino sono termini che andrebbero precisati, ma già lasciano intendere ciò che significano.
La storia della salvezza è sintesi fra grazia divina e libertà umana; in essa si integrano vita spirituale e missione.
Oggi, ma più ancor in futuro, il presbitero sarà chiamato ad esercitare il ministero in contesti di ampia secolarizzazione e scristianizzazione, in società sempre più cangianti, ideologizzate, dominate dalla tecnoscienza, dall’intelligenza artificiale, dal politicamente corretto e sempre più frammentate.
La capacità di discernimento e la virtù della fortezza non sono un di più, ma costitutive del ministero; l’integrazione tra vita spirituale e missione è, quindi, un cammino complesso e variegato, che esige tempo e pazienza.
Crescere non è facile e richiede umiltà, impegno, guide preparate; ritenersi depositari di carismi particolari è indizio preoccupante e dice che si è ben lontani dall’integrazione tra vita spirituale e missione.
Per il presbitero è importante ricevere una formazione che lo conduca ad essere una personalità completa, in grado di suscitare comunione e riconciliazione, che faccia amare il Signore e la Chiesa; un tale presbitero dice che qui l’integrazione è in atto ed è reale. Si tratta, così, di unire esperienze e competenze sul piano umano e spirituale.
Una figura biblica che testimonia un cammino di reale integrazione tra vita spirituale e missione è il patriarca Giacobbe; in lui vediamo che Dio guida per percorsi anche dolorosi e in tal modo prepara alla futura missione.
Carlo Maria Martini ne “Il sogno di Giacobbe” spiega quale senso ha per una persona il segno della scala che poggia sulla terra e giunge in cielo: “Dio ha cura di me, io sono nelle sue mani. Tutte le persone che attraversano la vita, la sofferenza, senza maledirle, senza volerci giocare, sono sotto questa rivelazione che è la prima coordinata: una coordinata che non dobbiamo mai perdere, qualunque cosa ci accadrà, in qualunque situazione verremo a trovarci. Giacobbe ha bisogno di questa certezza che comunque Dio lo cerca, ha cura di lui, e pure noi ne abbiamo sempre bisogno” [3].
Tale sicurezza è qualcosa d’essenziale per chi si prepara a donare la propria vita a Dio poiché tale scelta, oggi, nel nostro contesto culturale, è sempre meno capita, se non derisa.
Giacobbe è giovane intelligente e dotato ma, anche, spregiudicato e cinico, che approfitta dell’avidità del fratello Esaù. Così, dopo aver rotto i legami più sacri (col padre e il fratello), per Giacobbe inizia il tempo dell’esilio che sarà vera conversione e crescita umana. Su consiglio della madre Rebecca (che non riesce più a gestire la situazione familiare), Giacobbe si rifugia presso lo zio Labano; inizia così il doloroso e fruttuoso tempo a servizio dello scaltro zio dal quale sopporterà angherie e torti.
Finalmente ecco il ritorno nel paese di Canaan e la riconciliazione col fratello; qui Giacobbe mostra un pieno abbandono a Dio. Sì, Giacobbe – divenuto nel frattempo Israele – si umilierà dinanzi ad Esaù e ne otterrà il perdono; ora, finalmente, è pronto a guidare altri nel cammino dell’Alleanza.
Un altro patriarca che visse in un’epoca di cambiamento, per certi versi simile alla nostra (il VI secolo), è Benedetto da Norcia; in lui, in maniera diversa, si manifesta l’integrazione tra vita spirituale e missione.
Richiamo di seguito la catechesi di Benedetto XVI in cui si fa riferimento al primo biografo di san Benedetto (il Papa Gregorio Magno) e si ricorda che “Benedetto lasciò Roma e si ritirò nella solitudine… visse per tre anni… un periodo di solitudine con Dio, fu per Benedetto un tempo di maturazione. Qui doveva… superare le tre tentazioni fondamentali per ogni essere umano: …dell’autoaffermazione e di porre se stesso al centro… della sensualità e …dell’ira e della vendetta, solo dopo … avrebbe potuto dire agli altri una parola utile per le loro situazione di bisogno” [4].
Il tempo e le prove che Giacobbe e Benedetto dovettero sostenere li resero amici di Dio e veri uomini. Così Giacobbe-Israele e Benedetto da Norcia – i cui nomi sono significativi[5] – furono messi alla prova fino a quando non furono ritenuti pronti per le missioni a cui erano destinati.
Integrazione non è autocostruzione; è, piuttosto, un lasciarsi costruire, accettando i tempi e i momenti di Dio, acconsentendo – nella fede – ad un progetto di cui misteriosamente si è parte. Il sì della fede appartiene ad ogni discepolo sull’esempio di Maria, la prima discepola; è così che si origina l’unità della persona (spirito, anima, corpo) e si sana la frattura del peccato.
Vita spirituale qui è da intendersi non come metafora ma in senso forte, come vita secondo lo Spirito Santo a partire dal Cristo risorto che dona lo Spirito ai discepoli.
Lo Spirito è il dono che – nella libertà – ci costituisce nuove creature e abilita a compiere i gesti che solo chi l’ha ricevuto può compiere: “«Pace a voi! – dice Gesù – Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati»” (Gv 20,21-23).
Il Nuovo Testamento mostra come Gesù, ossia lo Sposo, e Maria, ossia la Chiesa-Sposa, introducano i discepoli nell’Alleanza. Ciò accade a Cana col segno dell’acqua che diventa vino e per il sì della fede: “…egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui” (Gv 2,11). Ciò si ripeterà al Calvario dove Gesù – chiamando la madre “Donna” – le affida Giovanni come figlio; il riferimento qui è ad Eva (creazione), madre dei viventi (cfr. Gv 19,25-27).
Giovanni, quindi, è accolto come figlio da Colei che è immagine piena della Chiesa e solo dopo Giovanni potrà assumere il ministero (cfr. Gv 21,15-23), poiché ormai è entrato nel mistero della Chiesa. Il dialogo fra Gesù e Maria, al Calvario, rivela come per esercitare il ministero bisogna prima far parte del mistero della Chiesa, comprendendo e facendo nostro il principio mariano che viene prima ed è più ampio di quello petrino.
Perdere di vista il principio mariano della Chiesa (la dimensione femminile) vuol dire anche non vivere pienamente il battesimo che precede il sacramento dell’ordine. È necessario rimarcare di più, nella formazione dei presbiteri, la dimensione mariana della Chiesa, ossia superare una teologia e una prassi che privilegiano il fare a scapito del contemplare. Il clericalismo è esito anche di una tale teologia e poi di una prassi ecclesiale.
Con animo grato a Dio, il presbitero conserva il dono che ha ricevuto al momento dell’ordinazione e mantiene vivo il suo ministero curando la sua vita spirituale, innanzitutto, attraverso la viva comunione con Gesù, buon pastore e sommo sacerdote, inizio di ogni vita sacerdotale.
La vita spirituale del presbitero ha una sua peculiarità che è criterio di verità per il ministero: tutto, in lui, è guidato dalla carità pastorale che è espressione della carità di Cristo.
La carità pastorale anima e unifica le molteplici attività pastorali che il presbitero è chiamato a compiere nel contesto del ministero.
Il prete compie i gesti propri del suo ministero e così facendo assimila sempre più la sua persona alla carità pastorale di Cristo; in tal modo, radicato in Cristo, il presbitero evita ogni deriva funzionalista e il suo ministero non si riduce a fornire una serie interminabile di prestazioni.
Nella fedeltà all’annuncio della Parola di Dio – ossia a Gesù Cristo – e alla celebrazione eucaristica, il presbitero dice la sua fedeltà a Dio, alla Chiesa e al mondo. Tra servizio della Parola, celebrazione eucaristica e carità pastorale s’instaura un’unità strutturale, per cui ogni altra realtà si compie a partire e in vista dell’annuncio e della celebrazione e – giova ribadirlo –, fedele a ciò, evita ogni forma di clericalismo o laicizzazione.
La sua vita essenziale e distaccata è espressione della carità pastorale; è, infatti, imitazione della povertà di Cristo che da ricco che era si è fatto povero per arricchirci con la sua povertà (cfr. 2Cor 8,9). La sua povertà è imitazione di Cristo e via alla libertà, a lui sempre più necessaria per compiere il ministero secondo il Vangelo. La libertà è da beni materiali ed intellettuali, da titoli, da uffici e persone; è una conformazione reale a Cristo. Così il presbitero sarà di tutti e, in particolare, dei più poveri.
La povertà appartiene alla vita del presbitero, anche se al momento dell’ordinazione non ne assume formalmente l’impegno con pubblica promessa; nonostante ciò, la ricerca e la pratica perché ricorda che il sacerdozio è dono ricevuto gratuitamente e, quindi, il prete, a sua volta, deve dare gratuitamente (cfr. Mt 10,8; At 8,18-25). È solo grazie al sacramento gratuitamente ricevuto che il presbitero diventa il segno di Cristo, sposo e capo della Chiesa. La povertà per il presbitero non è, alla fine, qualcosa di funzionale o estrinseco, ma espressione della carità pastorale, ossia della stessa carità di Cristo.
La povertà, inoltre, la si vive esercitando il ministero, quando il presbitero annuncia la Parola e presiede l’Eucaristia e non si pone al centro della comunità poiché, altrimenti, occuperebbe il posto di Gesù. Un presbitero non deve, infatti, insegnare una “sua” sapienza o celebrare un “suo” rito ma, piuttosto, invita a guardare il Signore. Non capire questo vuol dire essere sprofondati nella forma più profonda di clericalismo.
San Paolo scrive ai Corinzi: “Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo (…) affidando a noi la parola della riconciliazione. In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta” (2Cor 5,18-20).
Il ministero, poi, ha sempre valenza personale e comunitaria: per questo va vissuto nel presbiterio e col presbiterio (vescovo e confratelli); si è ordinati per una Chiesa, non per sé. E qui torna il tema della povertà.
La storia della salvezza ci ricorda che vocazione e missione vanno di pari passo; sono due facce della stessa medaglia, una è garanzia dell’altra, una legittima l’altra. È stato così per Gesù, Maria, Giuseppe, Pietro, Paolo e, prima ancora, nell’Antico Testamento, per i patriarchi, i profeti, i re.
Come il vescovo è ordinato per una Chiesa, così il presbitero è ordinato per aiutare il vescovo diocesano e quindi la Chiesa particolare e, in essa, la Chiesa universale.
Non si è ordinati per esibirsi né per scegliere le modalità d’esercizio del proprio ministero, ma per essere inviati dove la Chiesa ha urgenze o ferite e necessita della presenza di Gesù attraverso il ministero ordinato, ossia il vescovo e i presbiteri, che sono segni sacramentali di Gesù capo e sposo della Chiesa.
Ci aiutano a comprendere questo delle figure sacerdotali che con la vita, con il ministero, con la loro morte hanno illustrato – nel modo migliore – chi è il prete per la Chiesa e per il mondo. Ne ricordiamo alcuni:
- Pietro Chanel, primo martire dell’Oceania, ucciso sull’isola di Futuna, a colpi di bastone e machete, proprio da coloro che aveva beneficato, fino a quel momento, col suo ministero sacerdotale;
- Pino Puglisi, ucciso dalla mafia il giorno del suo sessantesimo compleanno, nel quartiere Brancaccio di Palermo dove era diventato parroco con l’impegno particolare di togliere i ragazzi dalla strada;
- Charles de Foucauld che, ordinato sacerdote, va verso le “pecore perdute” (le anime più abbandonate) per compiere il comandamento dell’amore e viene ucciso, nell’oasi di Tamanrasset in Algeria, dove voleva portare il Signore Gesù.
Conoscere questi presbiteri e la loro vita ci aiuta concretamente ad integrare vita spirituale e impegno missionario.
L’evangelista Luca ricorda che i discepoli di Emmaus sentono ardere il cuore quando il misterioso pellegrino spiega loro le Scritture lungo la strada ma lo riconoscono solo nell’atto di spezzare il pane (cfr. Lc 24,27-32).
La Chiesa avrà sempre bisogno del prete, perché la Chiesa è costituita dall’Eucaristia che solo il presbitero può presiedere e consacrare; ecco perché la pastorale vocazionale deve essere priorità missionaria.
L’apostolo Paolo esprime tale preoccupazione nella lettera ai Romani: “…come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? Come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci? E come lo annunceranno, se non sono stati inviati? Come sta scritto: Quanto sono belli i piedi di coloro che recano un lieto annuncio di bene!” (Rm 10,14-15). Questo annuncio – l’ha appena ricordato il Vangelo dei discepoli di Emmaus – risuona in pienezza nella celebrazione eucaristica (cfr. Lc 24,30-32).
Due sono le esigenze ineludibili che “crocifiggono” e insieme “liberano” chi è mandato. La prima è la fedeltà al Vangelo: “Gesù Cristo è lo stesso ieri e oggi e per sempre! Non lasciatevi sviare da dottrine varie ed estranee…” (Eb 13,8-9). La seconda è la predicazione in contesti culturali “avversi”, esercitando tale ministero in modo che chi ascolta sia aiutato a intendere la parola annunciata: “I presbiteri che esercitano bene la presidenza siano considerati meritevoli di un duplice riconoscimento, soprattutto quelli che si affaticano nella predicazione e nell’insegnamento” (1Tim 5,17).
Ogni presbitero deve aver a cuore il tema delle vocazioni sacerdotali; la pastorale vocazionale e il seminario appartengono alla pastorale ordinaria.
Certo, è tutta la Chiesa – e non solo una parte – ad essere missionaria, ad essere mandata ad evangelizzare. Ma se consideriamo la specifica missione dei sacerdoti ordinati, vediamo che essi sono deputati in modo specifico al servizio della Chiesa e, quindi, sono chiamati a prendersene cura, come leggiamo nella lettera a Tito dove l’Apostolo, spiegando perché lo ha lasciato a Creta, dice: “…perché tu metta ordine in quello che rimane da fare e stabilisca alcuni presbiteri in ogni città, secondo le istruzioni che ti ho dato. Ognuno di loro sia irreprensibile…” (Tt 1,5-6).
La stessa raccomandazione è rivolta dall’Apostolo ai presbiteri di Efeso: “Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha costituiti come custodi per essere pastori della Chiesa di Dio, che si è acquistata con il sangue del proprio Figlio” (At 20,28).
L’integrazione fra vita spirituale e missione risponde ad un progetto che chiama in causa ogni presbitero, in ogni stagione della vita. Egli sa bene che, solo tenendo insieme tali realtà, il dono ricevuto da Dio per l’imposizione delle mani del vescovo (cfr. 2Tm 1,6) si ravviverà in lui nonostante le prove.
Per verificare se tale integrazione è in atto, possiamo rifarci alla bella riflessione di Papa Francesco sulle quattro “vicinanze” che devono caratterizzare la vita e il ministero del sacerdote (e del vescovo): “Seguendo l’insegnamento di Sant’Ignazio che «non il molto sapere sazia e soddisfa l’anima, ma il sentire e gustare le cose internamente» (Esercizi spirituali, Annotazioni, 2, 4), ai vescovi e ai sacerdoti farà bene domandarsi “come vanno le mie vicinanze”, come sto vivendo queste quattro dimensioni che configurano il mio essere sacerdotale in modo trasversale e mi permettono di gestire le tensioni e gli squilibri con cui ogni giorno abbiamo a che fare. Queste quattro vicinanze sono una buona scuola per “giocare in campo aperto”, dove il sacerdote è chiamato, senza paure, senza rigidità, senza ridurre o impoverire la missione (…). Le vicinanze del Signore non sono un incarico in più: sono un dono che Lui fa per mantenere viva e feconda la vocazione. La vicinanza con Dio, la vicinanza con il vescovo, la vicinanza fra noi sacerdoti e la vicinanza con il Santo Popolo fedele di Dio” (Papa Francesco, Discorso ai partecipanti al Simposio “Per una teologia fondamentale del sacerdozio”, 17 febbraio 2022).
Far in modo che in noi cresca il desiderio della vita spirituale e l’impegno missionario significa tenere desto quanto il Vangelo attesta circa la chiamata dei primi discepoli da parte di Gesù: “… chiamò a sé quelli che voleva ed essi andarono da lui. Ne costituì Dodici – che chiamò apostoli -, perché stessero con lui e per mandarli a predicare con il potere di scacciare i demòni” (Mc 3,13-15).
Integrare vita spirituale e missionarietà vuol dire, semplicemente, rimanere fedeli a quanto Gesù ha fatto chiamando a sé quelli che Egli volle.
[1] San Paolo VI, Udienza al Pontificio Consiglio per i laici, 2 ottobre 1974.
[2] Nato a Cuet (oggi Montrevel-en-Bresse) in Francia il 12 luglio 1803 e ucciso sull’isola di Futuna (Polinesia Occidentale – Oceania) il 28 aprile 1841.
[3] Carlo Maria Martini, Giacobbe, il sogno di un uomo, p. 31, San Paolo 2017. Viene presentato in dettaglio un cammino di discernimento vocazionale, tenendo conto delle situazioni esistenziali in cui oggi si trovano i giovani che sono chiamati a scegliere della loro vita; la vicenda personale del patriarca Giacobbe offre spunti di riflessione attuali per i formatori di oggi che si trovano dinanzi situazioni difficili in cui i giovani vanno accompagnati con dolcezza ma anche con fortezza.
[4] Benedetto XVI, Nulla anteporre a Cristo, p. 157, Edizioni Scritti Monastici Abbazia di Praglia 2014.
[5] Il significato etimologico dei nomi è eloquente: Giacobbe “che Dio protegga”; Israele “hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto”; Benedetto “ricco delle benedizioni divine”.