Omelia durante la S. Messa nella solennità del Santissimo Redentore (Venezia – Basilica del Santissimo Redentore, 20 luglio 2025)

S. Messa nella solennità del Santissimo Redentore

(Venezia – Basilica del Santissimo Redentore, 20 luglio 2025)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

 

Rivolgo il saluto alle autorità civili e militari, ai confratelli nel sacerdozio, ai diaconi, ai consacrati, ai membri delle congregazioni, ai fedeli laici e alla fraternità cappuccina.

Viviamo questa festa del Redentore nel contesto dell’Anno giubilare e, quindi, siamo invitati a guardare a Lui, la «porta» della salvezza (cfr. Gv 10,7.9), l’unica «nostra speranza» (1Tm 1,1).

Il Vangelo ne ricorda il motivo: “Dio … ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Gv 3,16-17).

Il Giubileo e la festa del Redentore costituiscono un’opportunità per la nostra conversione e per “rianimare la speranza” (Papa Francesco, Bolla di indizione del Giubileo ordinario dell’anno 2025 “Spes non confundit” n.1), guardando così in modo nuovo al futuro delle persone, delle famiglie, dei popoli. Abbiamo dinanzi un futuro carico di preoccupazioni per le troppe e inaccettabili guerre – sono circa i 60 i focolai nel mondo – e ormai il diritto internazionale, non di rado, è sostituito dalla guerra come strumento per regolare i rapporti tra gli Stati. L’Onu è – sotto lo sguardo di tutti – l’immagine dell’impotenza.

Il Giubileo – lo ribadiamo – è incontro col Signore Gesù, il Redentore; è Lui che ci porta a riscoprire il valore della misericordia e della giustizia, del perdono e della pace anche come valori e virtù civili. Senza misericordia non c’è giustizia, senza misericordia non c’è perdono e, quindi, non c’è pace.

In primo luogo, allora, siamo chiamati ad entrare in tale cammino giubilare che ci chiede una conversione intellettuale, spirituale e morale (non ne basta una sola!); non si deve cadere in facili semplificazioni come il separare realtà che fra loro vanno distinte ma, appunto, non separate.

Bisogna distinguere ma non separare la pace dalla giustizia, l’amore dalla verità, il perdono dalla giusta riparazione; separarle è tradirle, ossia aprire la strada all’arbitrio e andare contro l’uomo e contro il Vangelo.

In greco διάβολος (diàbolos) deriva dal verbo διαβάλλω (diabàllo) che significa “calunniare”, “accusare”, “dividere”.

Se, così, separiamo misericordia e giustizia, non avremo più né misericordia né giustizia; lo stesso vale per l’amore e la verità, per la pace e la giustizia, il perdono e la riconciliazione. Avremo al loro posto “parodie” e decostruiremo le sfere dell’educazione, della vita sociale, del bene comune. Bisogna tenere insieme il tutto, perché la realtà è complessa.

All’inizio della sua missione Gesù, nella sinagoga di Nazareth, apre il rotolo del profeta Isaia; in Gesù le parole del profeta diventano “carne”, ossia testimonianza viva poiché coincidono con la Sua persona: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore” (Lc 4,18-19).

Un annuncio che, davvero, scioglie catene e legami e dona salvezza, ossia nuove possibilità e vie da intraprendere; non facciamo veramente il Giubileo se non apriamo strade nuove e, invece, continuiamo a percorrere quelle vecchie in famiglia, nelle relazioni con gli altri, nel gestire il nostro ruolo di potere e nell’assumerci le nostre responsabilità.

Affinché tale annuncio ci raggiunga e generi i suoi effetti nelle drammatiche vicende della nostra storia personale (anche quella, molte volte, gronda sangue…), sociale o politica, bisogna ripartire dal nostro cuore perché i malumori, l’orgoglio, le cattiverie e le violenze nascono proprio dal cuore per poi devastare i rapporti personali e familiari, le relazioni nella Chiesa e nella vita sociale e politica. Il problema, come sempre, siamo noi. Fare Giubileo vuol dire esserne consapevoli e tirarne le conseguenze nel quotidiano.

La cosa più difficile è accettare se stessi e convertirsi! Com’è anche difficile chiedere perdono e perdonare; è da tale incapacità che sorge ogni conflitto personale, familiare, nel luogo di lavoro, in ambito sociale, politico e tra gli Stati.

Ecco l’insistenza con cui Gesù, nel Nuovo Testamento, porta a compimento ciò che i profeti avevano chiesto inutilmente nell’Antico: l’importanza della conversione del cuore prima di ogni altro gesto.

Gesù, nel “discorso della montagna” (cfr. Mt 6, 1-7), richiama la necessità del coinvolgimento di tutta la persona; non bastano le tradizionali pratiche come il digiuno, l’elemosina e la preghiera. Sì, bisogna coinvolgere la persona, ossia ci vuole la partecipazione di tutto il proprio essere con retta intenzione.

Il profeta Gioele predica: “Ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti. Laceratevi il cuore e non le vesti, ritornate al Signore, vostro Dio, perché egli è misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore, pronto a ravvedersi riguardo al male” (Gl 2,12-13).

E il testo tratto dal profeta Isaia – richiamato da Gesù agli inizi della sua predicazione – afferma qualcosa di simile: “Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti? Allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto. Davanti a te camminerà la tua giustizia, la gloria del Signore ti seguirà” (Is 58,6-8).

La capacità di sciogliere le catene inique e di spezzare ogni giogo può venire solo dal Signore Gesù, il Redentore, ed è la grazia stessa del Giubileo. Sta a noi accogliere tale invito ed avere un cuore aperto a Dio che è poi un cuore aperto alle necessità del prossimo. Dobbiamo avere il coraggio di guardare a quanto dipende da noi, togliendoci le maschere dell’orgoglio, del possesso, del potere e del ruolo. Tu fai intanto la tua parte, nel piccolo segmento in cui ti puoi muovere, non ti viene chiesto altro!

Il profeta così continua: “Se toglierai di mezzo a te l’oppressione, il puntare il dito e il parlare empio, se aprirai il tuo cuore all’affamato, se sazierai l’afflitto di cuore, allora brillerà fra le tenebre la tua luce, la tua tenebra sarà come il meriggio” (Is 58,6-8).

Per poter sciogliere le catene e spezzare ogni giogo, dobbiamo iniziare pacificando il nostro cuore; noi siamo sempre in lotta con il mondo e con gli altri, non siamo in pace con noi stessi. Solo così saremo capaci di costruire una storia quotidiana in cui ci sosterremo a vicenda vivendo una storia nuova. Non dimentichiamo che sin dagli inizi della storia dell’umanità – dai tempi di Caino e Abele ai figli di Giacobbe o anche al mito romano di Romolo e Remo – i fratelli si accaniscono l’un l’altro, si infliggono maltrattamenti, ingiustizie e menzogne. Troppi episodi ogni giorno vedono protagonisti sempre più i giovani, i minorenni, mentre bambini e donne sono gli anelli deboli della catena.

Sciogliere le catene e spezzare i gioghi chiede di risolvere problemi e conflitti, di ricercare la pace attraverso la riconciliazione a livello personale, familiare e fra gli Stati, di capire le esigenze del prossimo (bisogna camminare nelle sue scarpe, ci raccomanda un proverbio africano…) e costruire insieme il bene comune, fatto di atti di giustizia e di verità. Questo è fare Giubileo!

Non ci possono lasciare indifferenti le immagini che continuano ad arrivare dall’Ucraina e, soprattutto, quelle sempre più drammatiche di Gaza e che descrivono una situazione umanamente inaccettabile. Siamo vicini a tutti questi popoli; in particolare ricordiamo la parrocchia della Sacra Famiglia di Gaza, colpita da uno dei tanti raid di questi giorni con morti e feriti, tra cui lo stesso parroco. I morti civili sono la cifra inaccettabile della guerra che, comunque, è sempre assurda e sbagliata ma quando si moltiplicano le morti civili non è più guerra, è qualche altra cosa.

“Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Oracolo del Signore Dio. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita; fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia” (Ez 34, 15-16); è quanto ci ha detto nella prima lettura il profeta Ezechiele.

Cari fratelli e sorelle, in questa situazione abbiamo anche bisogno di riposarci. Molti vivono, proprio in questo periodo, un tempo di riposo; che sia vero riposo del corpo, dell’anima e dello spirito.

Sciogliere le catene e spezzare i gioghi chiede di guardare la situazione delle persone che soccombono – per motivi economici, sociali, psicologici ed altro -, persone rese fragili dalle circostanze della vita, da un carattere di cui sono prigioniere e da cui sono incapaci di liberarsi, per una mancata educazione (carenze genitoriali). Ci sono tante “povertà” e “prigioni”.

Come non pensare, poi, ai peccati che gravano sulla vita, sulla vita nascente, sulla vita di chi è scartato oppure sulla vita che si sta spegnendo? È sempre la stessa vita che chiede dignità, cura e vicinanza. Il cristiano ha cura di tutte le sofferenze, altrimenti non è vera carità.

Si deve rispetto all’ambiente – certo! -, si deve rispetto agli animali –certo! -, ma prima si deve rispetto alla vita umana, sempre! L’ecologia è veramente tale se è integrale e se inizia dall’uomo, senza se e senza ma.

E come non pensare anche alla difficile realtà delle nostre carceri? È una situazione che chiede un’attenzione speciale perché quel luogo e quel tempo siano per tutti (detenute e detenuti, polizia penitenziaria, personale, educatori, volontari e altri) un’apertura di speranza e una reale possibilità di ripartire, non una condanna ulteriore ed ingiusta. Nelle nostre carceri, inoltre, ci sono parecchie persone con problemi psichiatrici o legati alla tossicodipendenza che le rendono di fatto ingestibili e, certamente, non si può pensare che, per loro, quello sia il luogo più adatto per vivere la pena ricostruendosi. Dobbiamo tenerlo presente. Qui a Venezia stiamo anche cercando di realizzare un piccolo Giubileo con alcuni detenuti che hanno i requisiti per poter uscire e vivere un pellegrinaggio a Roma; è un’iniziativa attualmente in fase di costruzione e speriamo di riuscire a compierla perché sarà un segno che rimane, in primo luogo nella loro vita.

Sciogliere le catene e spezzare ogni giogo: grazie a Gesù, il Redentore, è possibile. Dobbiamo solo esserne convinti! E solamente guardando a Lui si aprirà lo sguardo sui fratelli. Per questo, per la grazia dell’Anno giubilare, siamo qui pellegrini di speranza chiamati a ritornare a Dio, ossia a convertirci, chiamati a restare uniti a Cristo e da Lui invocare perdono e pace per diventare, grazie alla nostra conversione e alla nostra santità, segni di speranza nella vita di ogni giorno.

Rivolgo un pensiero e una preghiera per Alberto Trentini, cooperante originario del Lido di Venezia e da più di otto mesi in carcere in Venezuela. Siamo vicini alla sua famiglia, in modo particolare alla mamma Armanda, e confidiamo che le autorità competenti facciano tutto il possibile per risolvere al più presto una situazione che si trascina ormai da troppo tempo.

Concludo con una frase di Papa Leone XIV pronunciata all’inizio del suo pontificato e, quindi, particolarmente significativa: come Chiesa sempre più dobbiamo diventare “città posta sul monte (cfr Ap 21,10), arca di salvezza che naviga attraverso i flutti della storia, faro che illumina le notti del mondo. E ciò non tanto grazie alla magnificenza delle sue strutture e per la grandiosità delle sue costruzioni (…), quanto attraverso la santità dei suoi membri, di quel «popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa» (1Pt 2,9)” (Leone XIV, Omelia del Santo Padre nella S. Messa pro Ecclesia con i Cardinali, 9 maggio 2025).

Anche noi vogliamo remare in modo tale che la Chiesa, attraverso Cristo – solo Lui, infatti, lo può fare -, possa illuminare tante situazioni in cui i Caino e Abele, i Romolo e Remo di oggi non riescono più a parlarsi in modo fraterno.

Buona festa del Redentore a tutti!

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