Solennità del Corpus Domini
Venezia – Basilica Cattedrale di San Marco, 22 giugno 2025
Omelia del Patriarca Francesco Moraglia
Come mai, dopo il Giovedì santo con la Messa in Coena Domini, la Chiesa ritorna esplicitamente sul mistero del corpo e del sangue del Signore? La Chiesa – oltre ad essere maestra – è anche madre e quindi conosce bene le necessità dei suoi figli e, allora, vi ritorna in modo esplicito con la celebrazione liturgica del Corpo e del Sangue del Signore. Questo è già un messaggio chiaro, poiché la Chiesa non fa cose inutili.
C’è una distinzione – anche se non una separazione – e c’è il desiderio di ribadire qualcosa, data la centralità dell’Eucaristia. Ciò che ci costituisce Chiesa non è leggere la Bibbia o compiere atti di solidarietà, ma celebrare l’Eucaristia. Anzi, la Chiesa nasce proprio dall’Eucaristia e, solo in un secondo momento, quando la Chiesa è costituita dall’Eucaristia, ossia la carità di Cristo, allora la Chiesa – sposa fedele – rinnova da parte sua il gesto irripetibile, avvenuto una volta sola, della morte e risurrezione del Signore.
La catechesi è un dovere che ci interpella perché o i simboli parlano o i simboli diventano realtà incomprensibili.
Perché la Croce di Cristo? Perché all’inizio di tutto c’è l’amore di Dio e, all’inizio di tutto, c’è l’amore del Padre per il Figlio e del Figlio per il Padre. E nell’umanità di Cristo – “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue…” – per la prima volta si dà un’umanità fedele a Dio in una storia che si è allontanata da Dio.
L’amore di Dio nella storia non può non prendere la forma della sofferenza e del dono, nel confronto con l’ingiustizia. Noi non siamo stati salvati da un omicidio! Ma dall’atto di amore di chi ha donato se stesso fino all’ultimo, fino alla fine.
È importante capire cos’è un sacramento e soprattutto che cos’è il sacramento dei sacramenti, l’Eucaristia. E allora, come Chiesa, aiutiamoci reciprocamente a capire che l’Eucaristia vive di realtà e momenti differenti ma sempre profondamente connessi fra loro.
Noi siamo stati salvati in una comunità storica, visibile; noi siamo il corpo di Cristo. Noi ci riconosciamo poi in un credo che professiamo. Noi siamo chiamati a vivere la legge della carità e l’Eucaristia è tutto ciò che rende possibile questo. Celebriamo almeno una volta alla settimana (la domenica) non solo per essere vigili di fronte ad una richiesta giuridica, ma perché abbiamo bisogno di imparare che cos’è la carità.
Talvolta l’umanità parla di una fratellanza a prescindere da Cristo ma, a tale proposito, si potrebbero fare innumerevoli esempi. La storia della salvezza, ad esempio, ci ricorda che il primo omicidio è tra due fratelli: Caino e Abele. E poi noi discendenti dai Romani sappiamo che il mito di Roma ha a che fare con un omicidio tra due fratelli: Romolo e Remo. L’Onu, che brilla per il silenzio che lo caratterizza, vorrebbe la fratellanza tra i popoli. Ma noi abbiamo soprattutto bisogno di comprendere che cos’è la fratellanza. Ma si può essere fratelli non riconoscendo di avere un padre comune? Da 50-60 anni a questa parte, sempre si parla di una società priva di padri e ogni settimana, purtroppo, i media ci informano di fatti di sangue tra minori.
L’Eucaristia va al di là della sua pur essenziale dimensione esterna e visibile a cui tutti siamo chiamati: chi presiede, chi celebra, chi consacra, chi rende visibile il gesto eucaristico col canto, con la partecipazione, con i segni del pane e del vino. Ma c’è anche una dimensione ulteriore che ci è garantita dalla fede: “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue…”.
Infine, poi, c’è lo scopo per cui ci è dato il corpo e il sangue di Gesù; per un semita – giova ricordarlo – il corpo era tutta la persona accessibile all’incontro mentre il sangue era la vita stessa.
In quanto si apparteneva ad un popolo, il segno di Abramo segnava il membro virile, l’organo della generazione e il sangue per il semita, come appena detto, è la vita. Noi dobbiamo ritornare a comprendere nella fede questi simboli ed inquadrare l’Eucaristia nella storia della salvezza. Allora capiamo che abbiamo bisogno di celebrare l’Eucaristia e abbiamo bisogno di incontrarci con il Signore e tra di noi.
L’effetto ultimo della presenza del corpo e sangue del Signore è una comunità che parla come Gesù, che pensa come Gesù e che ha lo stile di Gesù. Il rischio è ridurre la celebrazione eucaristica non ad una ritualità – perché la ritualità appartiene al sacramento – ma ad un ritualismo che è la degenerazione della ritualità. Posto il gesto tutto si conclude… Ma, allora, tutto si riduce alla materialità di un gesto e così, passando ad esempio la porta santa dell’Anno giubilare e non operando – rispondendo alla grazia – la propria conversione personale, ci si sente a posto? Ecco allora il senso del gesto eucaristico: lasciarsi interpellare dall’amore di Cristo, tornare a casa diversi e iniziare la nuova settimana pensando, ragionando e agendo in modo diverso.
L’altro rischio è strumentalizzare, come talvolta avviene, le frasi dei santi e qui alludo ad alcune parole di san Vincenzo de Paoli, formatore del clero francese e geniale organizzatore (nel senso migliore del termine) della carità: se stai pregando e c’è qualcuno che ha bisogno di te, lascia la preghiera e vai ad aiutare. Questa frase però la possono dire, in verità e sincerità, i santi. Noi, persone normali, pensiamoci bene prima di dirla! È la tentazione di ritenersi capaci di amare non attingendo, però, alla fonte dell’amore che è Cristo. La liturgia della Chiesa è grazia, è responsabilità.
