Omelia del Patriarca nella S. Messa in occasione del Giubileo dei Poveri organizzato dalla Caritas Veneziana (Venezia – Basilica della Salute, 16 novembre 2025)

S. Messa in occasione del Giubileo dei Poveri organizzato dalla Caritas Veneziana

(Venezia – Basilica della Salute, 16 novembre 2025)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

Carissimi,

abbiamo iniziato questa Messa giubilare con la preghiera della Colletta che recita: “Il tuo aiuto, Signore Dio nostro, ci renda sempre lieti nel tuo servizio, perché solo nella dedizione a te, fonte di ogni bene, possiamo avere felicità piena e duratura”.

Se dovessimo esprimerla e riassumerla nel modo più breve ed efficace, dovremmo dire semplicemente: “Signore, convertici a Te!”.

E non si dà preghiera più in sintonia con l’Anno giubilare di quella che domanda la propria conversione come grazia che il Signore concede a quanti gliela domandano.

Ognuno di noi deve comprendere, non solo con la ragione ma con il cuore, che la vera battaglia si dà dentro di noi, nel più intimo di noi stessi, nel nostro cuore. Il Vangelo di Marco ci ricorda proprio che è dal cuore dell’uomo che nascono il bene e il male: “Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo” (Mc 14,20-23).

Il nostro cuore, quindi, è il luogo dove si combattono le grandi lotte che poi diventano le sofferenze di troppi.

Più un uomo è significativo o, come si dice, più è importante, più questa lotta diventa dolorosa e ha un impatto maggiore, esplodendo in modo fragoroso, mentre coinvolge un numero sempre più grande di persone, ossia di vite umane.

Un’espressione che solitamente viene attribuita a Dostoevskij è questa: “Satana lotta con Dio. E il campo di battaglia è il cuore degli uomini”.

Questa frase esprime la realtà della lotta interiore fra il bene e il male che si svolge nell’intimo dell’uomo, nel suo cuore, nella sua coscienza. Dostoevskij esplora questa tensione nelle sue opere, analizzando le complessità morali dell’esistenza e le “condizioni-limite” della natura umana.

Quello che noi di fatto saremo per gli altri – nella giornata di oggi, nel bene e nel male – dipende proprio da noi, da quello che si agita in noi prima di manifestarsi al di fuori di noi.

Comprendiamo, quindi, che quella che sembra ed in realtà è l’azione più nascosta, sepolta nel più intimo di noi stessi – ciò che è in noi e ci riguarda -,  è realtà che appartiene al nostro io interiore ed è un’azione che avrà un impatto esteriore.

Ecco perché la nostra personale conversione è anche e comunque un atto sociale e comunitario; una volta di più ci appare come la persona umana non sia mai chiusa in sé, una mera individualità, ma, al contrario, relazione che riguarda molteplici soggetti e situazioni a noi esterni, generando situazioni di significato del tutto diverse fra loro.

Un film che ha fatto la storia del cinema e che Papa Leone XIV ha detto essere, per lui, uno dei film più belli è “La vita è meravigliosa”; la trama mostra come la vita di una persona sia molto significativa ed incida sulle vite altrui al di là della consapevolezza che ne può avere.

Il film racconta la storia di un uomo, George, che, sul punto di suicidarsi, viene visitato da un angelo di nome Clarence. L’angelo gli mostra come sarebbe stata la città senza la sua esistenza, rivelandogli quanto la sua vita, sebbene ricca di sacrifici e delusioni, abbia avuto un grande impatto positivo.

Noi incidiamo molto, anche se non ne abbiamo coscienza, su ciò che è al di fuori di noi e questo nel bene e, Dio non voglia, nel male. Quella citta, senza George, non sarebbe stata quello che è diventata grazie al suo impegno e al suo coraggio a favore della comunità.

È il tema ricorrente della buona testimonianza e della generosità verso gli altri. Il tema lo troviamo nel Vangelo. Ricordiamo, infatti, le parole di Gesù: “…chiunque avrà scandalizzato uno di questi piccoli che credono in me, meglio sarebbe per lui che gli fosse messa al collo una macina da mulino e fosse gettato in mare” (Mc 9,42).

E c’è anche questa frase, che risuona come esortazione e messa in guardia e che troviamo nel discorso della montagna, subito dopo le beatitudini: ”…né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli“ (Mt 5.15-16).

Il cammino giubilare ci richiama a comprendere come l’uomo si appartenga e che questo appartenersi non è compatibile con affermazioni come queste: “faccio quello che voglio”, “sono fatti miei”, ”ognuno per sé e Dio per tutti”.

Il cammino giubilare ci richiama piuttosto alla parabola della vite e dei tralci in cui Gesù dice che un tralcio, se viene separato dalla vite, è destinato a morire perché manca della linfa vitale che proviene dalle radici, dal tronco, per rifluire poi nei singoli rami; è proprio il rimanere uniti a Cristo, la vera vite, e agli altri tralci che ci permette di essere vitali e fecondi (cfr. Gv 15, 1-8).

Il Giubileo è proprio il fruire dei beni di Cristo che li ha trasmessi alla sua Chiesa e che diventano disponibili per tutti; la nostra personale conversione, in questo Anno giubilare nel segno della speranza, deve, quindi, condurci a vivere insieme il mistero della comunione come ricchezza condivisa e sofferenza affrontata insieme agli altri e con gli altri.

Certo, ognuno di noi ha propri e personalissimi ambiti di peccato che richiedono la nostra personale conversione in gesti concreti che riguardano i nostri pensieri, il nostro modo di parlare, le nostre opere e omissioni, ma non tralasciamo mai di considerare il dono e la responsabilità della comunione e condivisione che chiede di essere gli uni membra degli altri.  Tutti, in questo Anno giubilare, dobbiamo far nostra la richiesta di Gesù che ci domanda non solo di chiamarci fratelli ma di trattarci come tali.

La Parola di Gesù è molto chiara quando, nel contesto dell’ultima cena e prima di lasciare i suoi, dice: “Vi do un nuovo comandamento che vi amiate gli uni gli altri. Come io vi ho amati, anche voi amatevi gli uni gli altri. Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (cfr. Gv 13,34-35).

Il Giubileo è, quindi, un cammino personale che nessuno può fare per noi al nostro posto ma, allo stesso tempo, è una strada che si fa con gli altri, camminando al loro fianco e insieme a loro, rallentando o accelerando il passo e questo dice che l’amore nei confronti del prossimo è reale e ha fatto breccia in noi.

Concludo consegnandovi questo pensiero tratto dell’esortazione apostolica Dilexi te di Papa Leone XIV: “San Paolo riferisce che tra i fedeli della nascente comunità cristiana non c’erano «molti sapienti, né molti potenti, né molti nobili» (1Cor 1,26). Tuttavia, nonostante la loro povertà, i primi cristiani erano chiaramente consapevoli della necessità di prendersi cura di coloro che erano soggetti a maggiori privazioni. Già agli albori del cristianesimo gli Apostoli imposero le mani su sette uomini scelti dalla comunità e, in un certo grado, li integrarono nel proprio ministero, istituendoli per il servizio – diakonía in greco – dei più poveri (cfr. At 6,1-5). È significativo che il primo discepolo a dare testimonianza della sua fede in Cristo fino allo spargimento del proprio sangue sia stato Stefano, che faceva parte di questo gruppo. In lui si uniscono la testimonianza di vita nella cura dei poveri e il martirio” (Leone XIV, Esortazione apostolica Dilexi te, n. 37).

Che ognuno di noi – e qui l’auspicio si fa preghiera – insieme ai suoi fratelli e alle sue sorelle sappia accogliere la grazia del Giubileo nel segno della speranza cristiana che è il Signore Gesù.

 

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