S. Messa in occasione del Capitolo Locale Veneto 2025 del Monastero Wifi
(Venezia – Basilica della Salute, 5 luglio 2025)
Omelia del Patriarca Francesco Moraglia
Carissimi amici del Capitolo Locale Veneto 2025 del Monastero Wifi,
viviamo questa celebrazione eucaristica nel contesto dell’Anno giubilare, nella basilica intitolata alla Madonna della Salute, davanti alla venerata icona detta “Mesopanditissa”, ossia “Mediatrice di pace”: è la Madonna tanto cara ai Veneziani.
La Vergine Maria – come vediamo nell’icona – è Colei che ci porta a Gesù, è Lei che tiene in braccio il Figlio di Dio e lo indica a tutta l’umanità, a quanti giungono pellegrini in questa basilica. Così ogni volta Maria – la Madre – ci dona il Bambino Gesù, il Figlio, Colui che offre la salvezza.
L’Anno giubilare e il motto che accompagna quest’incontro – “Ritornate a me con tutto il cuore” – subito ci indirizzano alla questione fondamentale della nostra vita: la conversione richiesta a ciascuno di noi e che esige umiltà, fortezza e capacità di lasciarsi guidare da parte di Dio.
A tal proposito ci viene in aiuto la figura di Giacobbe, la prima lettura di oggi (cfr. Gen 27,1-5.15-29). Si racconta il momento del “grande inganno” con la benedizione carpita ad Isacco a danno di Esaù secondo il piano di Rebecca. E la storia di Giacobbe vivrà momenti di sofferenze, legati a tale comportamento; questa vicenda può insegnare a tutti qualcosa.
Giacobbe è un giovane intelligente e dotato ma spregiudicato, cinico e prepotente; approfitta dell’avidità del rozzo del fratello Esaù e così, dopo aver rotto i legami più sacri – col padre e il fratello -, iniziano, per lui, i lunghi anni dell’esilio che diverrà un tempo di dolorosa conversione e, quindi, di grazia.
Su consiglio della madre Rebecca (che non riesce più a gestire la situazione familiare), Giacobbe si rifugia presso lo zio Labano; sarà un faticoso ma anche fruttuoso tempo a servizio dello scaltro e menzognero zio dal quale dovrà, di volta in volta, sopportare ingiustizie, angherie e torti. Verrà, infine, l’atteso momento del ritorno nel paese di Canaan e della riconciliazione col fratello e, proprio qui, si realizzerà il pieno abbandono a Dio, ossia la conversione. E Giacobbe diventerà Israele, ossia chi ha combattuto con Dio e con gli uomini e ha vinto. Israele si umilia dinanzi ad Esaù e ne ottiene il perdono; così sarà pronto a guidare altri uomini nel cammino dell’Alleanza.
Giacobbe vivrà un tempo lungo – vent’anni – di conversione e dure prove; così crescerà in umanità e soprattutto in amicizia con Dio, si lascerà ricostruire da Dio accettandone i tempi e i momenti e acconsentendo – nella fede – ad un progetto di cui misteriosamente egli è parte.
Solo allora potrà dire quel sì della fede che è richiesto ad ogni discepolo sull’esempio di Maria, la prima discepola; è così che si origina l’unità della persona (spirito, anima, corpo) e si sana la frattura causata dal peccato. Si tratta, per tutti, di un tempo necessario per crescere nella vita spirituale, da intendersi cristianamente come vita secondo lo Spirito a partire dal Cristo risorto, il Figlio, che dona lo Spirito ai discepoli.
Un altro episodio della vita di Giacobbe è il segno della scala che poggia sulla terra e raggiunge il cielo e che ha un significato ben preciso. Il senso è questo: “Dio ha cura di me, io sono nelle sue mani. Tutte le persone che attraversano la vita, la sofferenza, senza maledirle, senza volerci giocare, sono sotto questa rivelazione che è la prima coordinata: una coordinata che non dobbiamo mai perdere, qualunque cosa ci accadrà, in qualunque situazione verremo a trovarci. Giacobbe ha bisogno di questa certezza che comunque Dio lo cerca, ha cura di lui, e pure noi ne abbiamo sempre bisogno” (Carlo Maria Martini, Giacobbe, il sogno di un uomo, p. 31, San Paolo 2017).
Il Vangelo odierno (cfr. Mt 9,14-17) riporta uno dei tanti episodi che fanno emergere un elemento fondamentale riferito al Signore Gesù: tutto ciò che nell’Antico Testamento aveva valore (nel brano di oggi si parla del digiuno che è pure il tema del vostro cammino annuale), ora nel Nuovo Testamento ha riferimento a partire da Lui e in Lui, il Signore. Pensiamo alle dispute sul sabato con le dirompenti parole di Gesù: “Ora io vi dico che qui vi è uno più grande del tempio… il Figlio dell’uomo è signore del sabato” (Mt 12,6.8).
Gesù, quindi, pone se stesso al posto della Torah e tale affermazione, per Israele, è qualcosa di inaccettabile. Ricordiamo la conclusione del rabbino Jacob Neusner (legato da amicizia e stima a Papa Benedetto XVI) che – nel suo libro “Un rabbino parla con Gesù” – riconosce tutta la forza e la grandezza di Gesù ma nello stesso tempo dichiara di trovarsi ad un bivio nel momento in cui lui, ebreo, deve scegliere tra seguire la Torah o seguire Gesù. E Neusner sceglie la Torah; l’allora cardinale Ratzinger plaude alla chiarezza e verità di un dialogo che arriva anche ad accettare le differenze.
La centralità assoluta di Gesù – potremmo dire non-negoziabile – emerge, poi, in modo chiaro da tutto il Nuovo Testamento. La lettera agli Ebrei, vero trattato di cristologia sacerdotale del Nuovo Testamento, al capitolo 10 afferma che “entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: «Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà»” (Eb 10, 5-7). Questo è il nuovo “sacrificio” che sostituisce in modo definitivo quello del Vecchio Testamento.
Come sappiamo, tale passo della lettera agli Ebrei richiama il salmo 39, che si esprime però in modo lievemente diverso: “Sacrificio e offerta non gradisci, gli orecchi mi hai aperto, non hai chiesto olocausto né sacrificio per il peccato. Allora ho detto: «Ecco, io vengo…»” (Sal 39,7-8); la lettera agli Ebrei, quindi, sostituisce agli orecchi il corpo.
La religione ebraica già si era differenziata prendendo le distanze dalle religioni pre-abramitiche rigettando i sacrifici umani; quando, infatti, la mano di Abramo stava per colpire il figlio Isacco sul monte Moria, venne fermata dall’angelo di Dio (cfr. Gen 22, 10-12).
Adesso subentra ancora una nuova idea di sacrificio; qualcosa del genere vale anche nei confronti del digiuno, dell’elemosina e della preghiera (cfr. Mt 6, 1-7) per cui è importante il coinvolgimento di tutta la persona, riferendosi al Padre celeste e, oltre il gesto esterno, giungendo a lacerarsi il cuore.
“Ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti. Laceratevi il cuore e non le vesti, ritornate al Signore, vostro Dio, perché egli è misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore, pronto a ravvedersi riguardo al male”; sono le parole che Dio affida al profeta Gioele nel brano che ritroviamo ogni anno nel mercoledì delle Ceneri (Gl, 2,12-13).
Insomma, con Gesù tutto va “convertito” e vissuto a partire dal suo rapporto filiale col Padre, perché il centro della cristologia è proprio l’io filiale di Cristo; è Lui che ci introduce nel mistero di Dio, il Padre, e lo mostra in particolar modo nella preghiera.
Sì, l’origine della cristologia è la preghiera di Gesù che esprime chi è Gesù Cristo, il Figlio unigenito del Padre. E Gesù è lo stesso fine di ogni digiuno e sacrificio.
Concludo ricordando un pensiero di Romano Guardini secondo il quale, per il cristiano, si tratta di ritenere vero tutto ciò che per la Sacra Scrittura è vero, giusto e buono. “La verità rivelata – dice Guardini – sarà riconoscibile esclusivamente da colui che, rinunciato a giudicare la nuova realtà in base a criteri di mondo, sia pronto a ricavarla integralmente tale quale è nella rivelazione… L’invito di Gesù alla conversione non impegna soltanto la volontà, impegna anche il pensiero… cristianamente reale è ciò che si manifesta reale nella rivelazione; cristianamente vero è ciò che ci si mostra nello spirito e nella parola di Dio; cristianamente possibile, ciò che si rivela possibile in Cristo” (Romano Guardini, I Novissimi, Vita e Pensiero 1951, pp.41-42).
In un senso vero, il digiuno è la preghiera del corpo; avvertire la fame ed evitare la sazietà fisica vuol dire cogliere, attraverso il corpo, la dimensione creaturale e, quindi, contingente della nostra persona.
Circa il rigetto del corporeo, un inizio l’abbiamo avuto in Marcione (85-160 d.C.) che ha generato una prima grande rivoluzione dell’uomo; sì, perché in Marcione abbiamo una vera ribellione contro il creato e contro Dio creatore. La creazione, la materia in genere e il corpo in specie sono considerati “male”. Siamo di fronte ad un’autentica ribellione contro Dio e la sua creazione. Oggi è ritornata di moda (gender e non solo).
Da ciò consegue una visione “libertaria” per cui il corpo non conta nulla ed è considerato alla stregua di un puro oggetto e, di conseguenza, ne posso fare ciò che voglio. O, invece, ne consegue una visione ascetica ma del tutto negativa, con il corpo inteso come realtà da punire. In entrambe le visioni il corpo è solo oggetto, non più realtà personale.
Invece secondo l’insegnamento della Chiesa (Scrittura, Tradizione, Catechismo della Chiesa Cattolica), il “biologico” entra a far parte dell’umano e l’umano del teologico. Tutto ciò diventa realtà viva in Maria che nel sì dell’Annunciazione è coinvolta con spirito, anima e corpo (cfr. 1Ts 5,23).
La Vergine Maria, nel sì detto a Dio, non prescinde dalla sua realtà biologica (la sua femminilità) che è sempre costitutiva dell’umano e ciò avviene, in Maria, interpellandola a partire dalla fede e, quindi, a partire dalla dimensione teologica.
Ecco, allora, che anche il digiuno – nel suo significato pieno e compiuto – va inteso a partire dalla compresenza di biologico, umano e teologico, poiché quando si tratta dell’umano e della storia della salvezza tutto si coglie in pienezza solo in rapporto a Dio e alla sua chiamata.
