Ritiro d’Avvento per il presbiterio diocesano
(Zelarino / Centro pastorale card. Urbani, 28 novembre 2024)
Meditazione del Patriarca Francesco Moraglia
Carissimi,
il ritiro d’Avvento di quest’anno ci vede coinvolti in modo particolare in quanto il nostro ministero di pastori, oltre ad accompagnare le nostre comunità al Santo Natale e prepararle alla ormai prossima apertura della Porta Santa dell’Anno Giubilare, ci introduce anche nell’ultima fase del Cammino sinodale delle Chiese che sono in Italia (la fase profetica).
Iniziamo con la lettura di un passo della lettera agli Ebrei in cui ci è indicato Colui al quale dobbiamo guardare: il Signore Gesù. Anzi, con grande realismo, si usa l’espressione: “per mezzo del sangue di Gesù” (Eb 10,19).
Da questo passo risulta come, già nei primi anni dell’era cristiana, vi fossero sofferenze e cedimenti nella vita ecclesiale; non deve stupire quindi che anche oggi, a duemila anni di distanza, tale situazione si ripresenti nelle nostre comunità.
L’autore della lettera agli Ebrei parla, poi, di “cuori purificati da ogni cattiva coscienza“, di “professione della nostra speranza” (Eb 10,22-23) e, infine, rivolge un invito esplicito: “Non disertiamo le nostre riunioni come alcuni hanno l’abitudine di fare…” (Eb 10,25).
Ecco il testo: “Fratelli, poiché abbiamo piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne, e poiché abbiamo un sacerdote grande nella casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero, nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura. Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è degno di fede colui che ha promesso.
Prestiamo attenzione gli uni agli altri, per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone. Non disertiamo le nostre riunioni, come alcuni hanno l’abitudine di fare, ma esortiamoci a vicenda, tanto più che vedete avvicinarsi il giorno del Signore” (Eb 10,19-25).
Certamente si potevano scegliere anche altri testi ma questo, mi pare, introduca bene ai tre eventi ecclesiali in parte già richiamati:
1) l’Anno Giubilare, con la Bolla d’indizione di Papa Francesco che ce lo presenta come una vera rinascita nella speranza (“Spes non confundit”);
2) la recente lettera enciclica di Papa Francesco (“Dilexit nos”) sull’amore umano e divino del Cuore di Gesù Cristo, con l’invito a riflettere non genericamente sull’amore ma sull’Amore di Cristo;
3) il Cammino sinodale delle Chiese che sono in Italia; dopo la fase di ascolto e quella “sapienziale” siamo entrati in quella “profetica” che richiede una conversione pastorale ma, prima di tutto, quella del cuore.
Ciò che ci aiuta ad entrare e a vivere questi tre eventi ecclesiali è il tema del nostro ritiro d’Avvento, ossia il riflettere sulla realtà biblico-teologica della conversione personale che si riflette, poi, sulle nostre comunità e sulle strutture ecclesiali.
Il riferimento, per noi che siamo costituiti nel ministero ordinato, è alla responsabilità che abbiamo nei confronti della comunità che ci sono state affidate e che non ci siamo scelti da noi.
La prima lettera di Pietro sulla responsabilità dei pastori è chiara: “Esorto gli anziani che sono tra voi, quale anziano come loro, testimone delle sofferenze di Cristo e partecipe della gloria che deve manifestarsi: pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non perché costretti ma volentieri, come piace a Dio, non per vergognoso interesse, ma con animo generoso, non come padroni delle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge” (1Pt 5,1-3).
Vediamo come in questa lettera agli Ebrei – siamo verso la fine del primo secolo – si manifesti una certa fatica di alcuni membri della comunità che si rifrange nella vita ecclesiale. Altri testi nel Nuovo Testamento dicono tale difficoltà. Alcuni esempi sono offerti, per esempio, dalle lettere ai Corinti o dal libro dell’Apocalisse con lettere alle Chiese (cfr. Ap, 2,1-3,22).
Il testo della lettera agli Ebrei ci avvisa, senza reticenze, che il cammino della Chiesa e dei suoi membri è segnato da difficoltà, tentazioni, prove, cedimenti e che essere discepoli del Signore non consiste solo nella fedeltà al passato ma in uno sguardo rivolto al futuro, verso il giorno del Signore, accettando di camminare in un presente da costruire giorno per giorno senza pretendere impossibili garanzie.
Così il tempo d’Avvento, l’Anno Giubilare, l’enciclica “Dilexit nos” sull’amore di Cristo e il Cammino sinodale vanno tutte intese come grazie che ci interpellano circa la vera riforma della Chiesa, il vero cambiamento da perseguire.
Quando si parla di riforma della Chiesa, prima di tutto va ricordato che la Chiesa: 1) non è una istituzione umana tra le tante; 2) in essa non si dà nulla di individuale ma tutto è personale e comunitario e che 3) tutto nasce dalla persona che è l’inizio e il centro di ogni riforma che, nell’Antico e nel Nuovo Testamento, significa: 4) perdono, conversione, penitenza espiazione, tutto all’interno della Misericordia se vogliamo rimanere fedeli al quadro biblico.
Il rischio per gli uomini e le donne di Chiesa (per le nostre comunità) è rimanere chiusi nelle proprie opinioni, nei propri gusti, nelle proprie storie, nella propria autoreferenzialità o in quella del “proprio” gruppo che si confonde con la Chiesa. Si tratta, allora, di andare all’essenziale del Vangelo e risalire all’origine, a Gesù, per cogliere il cuore del Vangelo. In proposito l’’evangelista Marco ci aiuta consegnandoci il primo annuncio di Gesù: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo”. (Mc 1,15).
La vera riforma, in tal modo, non consiste nel modellarsi la propria Chiesa così come più piace; si tratta, invece, di rimuovere le proprie costruzioni umane (mondane) per lasciare spazio alla luce che vien dall’alto.
Riforma, allora, vuol dire mettere a fuoco il progetto di Chiesa di Gesù. Per fare un solo esempio, il Nuovo Testamento non parla genericamente di popolo di Dio che, come è avvenuto, potrebbe essere inteso in modo politico. Lo è stato per i cristiani tedeschi durante il Terzo Reich, ma sono possibili sempre nuove commistioni fra Vangelo e determinate visioni politiche e culturali; pensiamo ad una Chiesa che si lasci plasmare dal politicamente corretto.
Il popolo di Dio non è il risultato di una scelta politica e nemmeno culturale o etnica; va oltre gli orientamenti politici, le culture, le etnie. Pensiamo alla Madonna di Guadalupe: nella futura Città del Messico Maria appare, nel 1531 ossia in pieno periodo coloniale e sotto la dominazione spagnola, come una giovane indigena con la pelle scura, la “Vergine Morenita”.
Il popolo di Dio – se rimaniamo fedeli al Nuovo Testamento – è legato al concetto paolino di Corpo di Cristo: “Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? (…) I due – è detto – diventeranno una sola carne. Ma chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito” (1Cor 6,15-17). E quindi si fonda sulla fede, sul battesimo e su una vita coerente ad essi.
In altre parole: essere popolo di Dio è credere (la fede) in Gesù Cristo e, concretamente, rimanda alla vera e piena partecipazione all’Eucaristia che vuol dire essere comunità che pensano, parlano e agiscono come Gesù.
Sì, la Chiesa è la sposa che sta di fronte a Cristo, lo sposo, e quindi la Chiesa va intesa come realtà personale e non come struttura o attività. La Chiesa non guarda a Maria come ad un esempio da imitare che sta al di fuori di Lei perché la Chiesa stessa è intrinsecamente mariana, non si limita a guardare a Maria perché la Chiesa è in sé mistero mariano; Maria poi è il membro più riuscito della Chiesa. Da qui deriva qualcosa di fondamentale sul piano della spiritualità ecclesiale e dell’azione pastorale.
Nell’epoca dei Padri, Maria e la Chiesa costituivano un “unicum”, un’unità. Ora, se nelle nostre comunità prendessero il sopravvento una ecclesiologia e una pastorale prive della dimensione mariana (il femminile), allora nella Chiesa tutto si ridurrebbe al ministero ordinato, alla lotta per esso e ad un puro fare. La Chiesa diventerebbe un manufatto umano fatto e rifatto a partire dai propri gusti; qualcosa di troppo umano, l’opera frenetica delle nostre mani.
La Chiesa, invece, è seme vivente di Dio, è grembo materno che accoglie la Parola di Dio e si lascia plasmare da essa. La “Lumen gentium” così s’esprime: “…la Chiesa è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano… Le presenti condizioni del mondo rendono più urgente questo dovere della Chiesa…” (Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen gentium, n. 1)
Inoltre, l’impostazione maschilista del fare (quella della nostra cultura) prima o poi si riduce al ministero ordinato (clericalismo), al “manageriale” o decade nel sociologico anche quando pensa di fare la carità. A ciò si contrappone la Chiesa come realtà femminile che non fa ma accoglie, che non produce ma genera, lasciandosi fecondare da Cristo, suo sposo. Dobbiamo promuovere tale visione di Chiesa mariana e tradurla in stile pastorale.
La Chiesa è più di una struttura, è più di un’attività perché, in essa, vive il mistero della maternità, ossia l’amore sponsale; la Chiesa, quindi, non deve decadere ad “organizzazione”, una Ong in occasione di Gesù Cristo per cui, ogni tanto, se ne cita il nome che però rimane qualcosa di estrinseco, come se si operasse “in occasione” di Gesù” e non “a partire” da Gesù e “in” Gesù, come dice la costituzione “Lumen gentium”.
Le affermazioni su Maria sono esplicitazioni della cristologia; affermare la maternità verginale di Maria vuol dire, infatti, che Gesù è a tal punto il Figlio unico del Padre che, sulla terra, non può chiamare nessun uomo padre in senso reale. Al tempo dei Padri la mariologia, come detto, era contenuta nella ecclesiologia senza che venisse nominata la Madre del Signore; le espressioni erano ”ecclesia immaculata”, “ecclesia assumpta”, oppure “virgo ecclesia”, “mater ecclesia”.
Bisognerà arrivare a san Bernardo (XI-XII sec.) perché tale mariologia “anonima” arrivi ad esprimersi in categorie personali. D’altra parte, nel Vangelo di Luca e nel momento del fiat (cap. 1), Maria rappresenta e sintetizza il sì dell’intero Israele e di tutta la Chiesa.
Il riferimento, qui, va al capitolo secondo del Vangelo di Giovanni dove si chiarifica il rapporto Maria/sinagoga (le anfore per la purificazione), Maria/Chiesa (gli apostoli) ma, soprattutto, Cristo/Sposo e Maria/sposa. Maria non viene mai indicata per nome, ma come madre di Gesù o come “donna” (il richiamo alla prima coppia, Adamo ed Eva, è esplicito).
Rileggiamo quel testo del quarto Vangelo: “Il terzo giorno vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela». Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono. Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora». Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui” (Gv 2,1-11).
Luca, nel suo Vangelo, annota con le parole di Elisabetta: “E beata colei che ha creduto all’adempimento della Parola del Signore” (Lc 1,45). Il sì credente di Maria la costituisce prima discepola e prima evangelizzatrice che però rimane sempre sotto la Parola, come Chi la serve e che, in Lei, trova pieno ascolto. Così il Verbo diventa carne. Fermiamoci sul sì credente di Maria perché vi ritroviamo la vera riforma della Chiesa, quella fede con cui incontriamo Dio e gli facciamo posto in noi offrendogli la nostra vita.
Solo la fede ci consente d’andare oltre l’umano, oltre a quelle soluzioni che – proprio perché appartengono agli uomini – ne portano gli inevitabili limiti, finendo col rinchiudere in una prigione o in più prigioni che gli uomini stessi si costruiscono e che, di volta in volta, sono l’autoreferenzialità, l’attivismo, l’efficientismo. Sono sempre attuali le parole di Gesù dette a Betania, a Marta e a Maria (cfr. Lc 10,41-42).
Solo la fede ha la forza di infrangere le mura del finito (dei limiti umani) e di andar oltre le risposte impotenti e insufficienti. La fede, poi, non è solo uno squarcio verso il mistero di Dio ma un abbraccio che ci solleva, due mani che portano i segni dei chiodi e che ci innalzano verso Dio; la fede non è solo conoscere o riconoscere, ma è un lasciarsi portare.
La Chiesa non esiste per occuparci, di volta in volta, di qualche attività ma per introdurci nel mistero di Dio che ci rende più uomini, introducendoci nella nostra vera umanità.
La riforma della Chiesa, innanzitutto, deve rimuovere l’uomo vecchio che è in noi per far posto all’uomo nuovo, cioè a Gesù Cristo, l’uomo della croce che muore perdonando. Non vergogniamoci della croce, non nascondiamola, tanto meno nei nostri ambienti, perché la croce è la “condizione” imprescindibile per una Chiesa e per un mondo riconciliati.
Il nostro tempo, però, ha bisogno di recuperare e valorizzare il senso e il valore del perdono che va considerato in tutta la sua serietà.
Dopo aver perso il senso di Dio si è perso, anche, il senso del peccato. Queste parole di San Giovanni Paolo II ci aiutano a capire il perché di tante cose che accadono dentro e al di fuori di noi: “Insieme con la coscienza viene oscurato anche il senso di Dio, e allora, smarrito questo decisivo punto di riferimento interiore, si perde il senso del peccato. Ecco perché – continua san Giovanni Paolo II – il mio predecessore Pio XII, con una parola diventata quasi proverbiale, poté dichiarare un giorno che «il peccato del secolo è la perdita del senso del peccato» (San Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica post-sinodale Reconciliatio et paenitentia, 2 dicembre 1984).
Ma oggi, dopo il senso del peccato e il senso di Dio, si sta perdendo anche il senso del perdono e quando ciò accade è l’umanità a perderci, è l’umanità che diventa meno umana, anzi disumana; pensiamo alla guerra, al non accogliere chi fugge dalla fame, ai carcerati, ai bambini che non vengono alla luce perché abortiti (e questo diventa diritto costituzionale).
Il perdono, per essere vero, deve esprimersi nella penitenza. Se manca la penitenza, la morale – come accade nell’illuminismo – decade a mera regola che può essere osservata o meno, secondo la nostra decisione e poi tutto finisce nella pena. Ma in tal modo si dà una morale ritagliata secondo la propria misura, decidendo a priori ciò che è possibile e ciò che non lo è e si lascia a se stesso il peccatore o il criminale.
Torna alla mente l’ironica frase di Pascal: ”Ecce pater qui tollit peccata mundi”. Nella IV delle Lettres Provinciales Pascal polemizzava ironicamente contro il lassismo morale di alcuni teologi del suo tempo – i molinisti, per la precisione – e lo fa attraverso un dialogo immaginario con un gesuita che Pascal periodicamente incontrava e di cui riferisce i colloqui.
Ricordiamo come già il Pentateuco tiene uniti morale, perdono ed espiazione, a differenza dell’illuminismo che scorpora la legge dal perdono e dalla espiazione. Ma tale logica apre a una salvezza a buon mercato a cui neppure il peccatore crede, una logica che confligge con quella della salvezza cristiana che, nella croce di Cristo, ha il suo centro imprescindibile: siamo stati salvati a caro prezzo.
Nel Nuovo Testamento il perdono non è un atto magico ma un cammino di conversione. Dopo il dono gratuito del battesimo, nel sacramento della riconciliazione, il perdono viene scandito come perdono/penitenza e come grazia/conversione; sono i singoli momenti di un tutto che è la salvezza cristiana tanto che il sacramento del cristiano ricaduto nel peccato dopo il battesimo, nella chiesa antica, veniva chiamato “battesimo delle lacrime” o “battesimo faticoso”.
La realtà e la consistenza del peccato non si superano facendo finta che non esista o in modo indolore. E ciò è vero anche quando si passa dal piano personale a quello ecclesiale. Infatti la Chiesa, nei momenti decisivi della sua costituzione, richiama il potere di rimettere i peccati. Così avviene nel momento della consegna delle chiavi a Pietro: ”A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli” (Mt 16,19); dell’istituzione dell’Eucaristia, nell’ultima cena: ”perché questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti per il perdono dei peccati” (Mt 26,28); nell’incontro di Gesù risorto con i discepoli la sera del giorno di Pasqua: ”Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati” (Gv 20,19-23).
Per il cristiano morale, perdono ed espiazione trovano la loro sintesi e possibilità nella cristologia e solo in essa. Cristo Gesù non è solo Colui che rivela il Padre ma Colui che “porta” al Padre, conducendoci a noi stessi e ai fratelli. La fede non è solo lo squarcio verso l’Oltre a cui l’uomo non potrebbe accedere con le sole sue forze, ma sono le mani ferite dai chiodi che sollevano in un abbraccio amoroso e doloroso fino a ricostituire i lineamenti dell’uomo nuovo in cui Cristo vive (cfr. Gal 2,20).
Può aiutarci a capire tutto questo il capolavoro di Fëdor Michajlovič Dostoevskij. Dopo aver precisato che Sonja è la figura più nobile del romanzo, Divo Barsotti scrive: ”La religione di Sonja è sentimento di adesione di tutto il suo essere a Cristo. Essa crede in Dio, nel Dio vivente, e vive un rapporto con Dio di umile e confidente abbandono… Quando sa che Raskol’nikov ha compiuto il delitto, allora sa anche che è più disgraziato di lei e più di lei merita pietà. Allora si priva della croce che portava per darla a Raskol’nikov. La croce la faceva misticamente associata alla passione di Cristo, ma ora doveva portarla un altro, più giustamente di lei. Dopo il delitto Raskol’nikov non poteva rinunziare a una sua espiazione e la croce del Cristo l’avrebbe aiutato a portare la sua croce, a espiare il suo debito per cominciare una vita nuova” (Divo Barsotti, Dostoevskij, San Paolo 2018, pagg. 48-49).
Alla luce di quanto detto, possiamo ribadire che in una cultura secolarizzata e post-cristiana la riforma che viene prima di ogni altra è la conversione, poiché il nostro mondo ha bisogno di imparare a perdonare; un perdono non a buon mercato ma che contempli la penitenza, l’espiazione, all’interno della grazia e della Misericordia, per dare vera speranza all’uomo e all’umanità (non vendere illusioni), riscostruendo l’uomo e l’umanità.
Il criterio principe della riforma allora è la conversione personale per arrivare ad una riforma della comunità e delle strutture. La conversione è ricentrarci su Cristo che ci costituisce nuove creature.
La Chiesa, per vivere nel mondo, abbisogna di strutture capaci di ricevere e dare perdono, non di banalizzarlo o, ancor più, di rimuovere la colpa. Tutte le strutture di consultazione e partecipazione aiutino a incontrarsi nel perdono che apre alla speranza di una novità che il mondo non possiede perché non possiede Cristo.
Circa le celebrazioni, i momenti di catechesi e l’azione caritativa, la Chiesa deve interrogarsi su tali strutture e sulla loro capacità di ricevere e dare perdono, nella serietà e nella pace di una penitenza che sa espiare, trasformare e rigenerare l’umano e il cristiano che è in ogni uomo, anche nel più peccatore.
Carissimi, l’ormai imminente Anno Giubilare che il Papa ha voluto incentrare sulla speranza (“Spes non confundit”), la lettera enciclica “Dilexit nos” sull’amore umano e divino del Cuore di Gesù Cristo che chiama a rinnovare tutti i cuori rendendoli capaci d’amore, il Cammino sinodale – giunto alla fase “profetica” – delle Chiese che sono in Italia richiedono non “una” riforma ma “la” riforma per eccellenza; è la nostra conversione e quella delle nostre comunità, a partire dalla preghiera che Gesù ci ha insegnato: “…rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori” (Mt 6,12).
Morale (non regola astratta), perdono ed espiazione sono possibili in Cristo e per la nostra appartenenza a Cristo, il solo che ci permette di vivere questi momenti e ci consegna una Chiesa rinnovata proprio perché più di Cristo e meno del mondo e nella quale palpita il cuore di Cristo, unica speranza.