Convegno nell’ambito del progetto “Una Bibbia a cielo aperto” sul tema “Ricostruire la speranza nella famiglia, nel conflitto e nella Chiesa”
(Cercivento – Udine, 19 luglio 2025)
Intervento del Patriarca di Venezia Francesco Moraglia
Buongiorno a tutti!
Un particolare saluto all’Arcivescovo di Udine, S.E. Mons. Riccardo Lamba, ai relatori – Costanza Miriano e Padre Benedikt – e a tutti i presenti. Ringrazio dell’invito il Servizio diocesano per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso dell’arcidiocesi di Udine e l’associazione “Cercivento, una Bibbia a cielo aperto” che, insieme alla parrocchia di Cercivento e all’amministrazione comunale, hanno organizzato il convegno “Ricostruire la speranza nella famiglia, nel conflitto e nella Chiesa”; questo è l’argomento sul quale siamo invitati a confrontarci e a riflettere.
Ricostruire la speranza non è solo opportuno ma è necessario: ricostruire la speranza là dove si dà conflitto e in un tempo di guerre; ricostruire la speranza nella Chiesa in un tempo di tensioni e spinte centrifughe; ricostruire la speranza in famiglia ovvero in un’istituzione che da molti è considerata superata.
Ci soffermiamo, allora, inizialmente sul ricostruire la speranza nella Chiesa a partire proprio dalla famiglia. Infatti, se Gesù Cristo è – per la Chiesa, l’annuncio primo ed irrinunciabile, la famiglia è il luogo dove tale annuncio deve risuonare perché la famiglia è il luogo in cui avviene sia la trasmissione della vita sia la trasmissione della fede.
Riflettere sulla famiglia in modo concreto e reale, non idilliaco, ci porta subito a guardare alla famiglia di Nazareth. In essa vi è concretezza, realismo, verità. Va superata una visione retorica in cui tutto trasuda di soprannaturale e miracolistico; la realtà è ben diversa.
Nazareth non è un luogo idilliaco; a Nazareth non si è al riparo dai colpi quotidiani della vita e non si conduce una vita protetta; a Nazareth, piuttosto, si vive nel modo più alto la storia della salvezza.
Matteo e Luca – nel nuovo Testamento – ci trasmettono eventi in netta opposizione al quadro idilliaco sopramenzionato e attestano una situazione “drammatica”. Il termine greco “dramma” indica “azione” e ci aiuta a comprendere quanto si vuol dire.
Dio è entrato in modo sconvolgente nella vita di Maria e di Giuseppe; il contrasto, la conflittualità e gli imprevisti appartengono alla loro vita. L’annunciazione (cfr. Lc 1,26-38) cambia, alla radice, il progetto di vita di Maria e anche la parola di Dio rivolta a Giuseppe, in sogno, sconvolge la vita di questo giovane uomo (cfr. Mt 1,18-25). Maria poi intraprende un viaggio lungo e rischioso, da Nazareth ad Ain Karim, per far visita alla cugina Elisabetta che, a sua volta, col marito Zaccaria, si trova a vivere una vicenda prodigiosa e del tutto inattesa (cfr. Lc 1,5-25.39-80). “Ain Karim”, in arabo, significa “sorgente del vigneto” o “fonte del giardino”; un nome significativo.
La nascita di Gesù avviene in un contesto di emergenza: manca tutto e il poco che c’è dice povertà (cfr. Lc 2,1-14). Nello stesso tempo, però, il bambino viene adorato dai pastori (cfr. Lc 2,15-20) e da misteriosi saggi venuti dall’Oriente: i Magi (cfr. Mt 2,1-12). E quando il bambino – secondo la legge – è portato al tempio per essere offerto a Dio, Maria e Giuseppe incontrano il vecchio Simeone e la profetessa Anna (cfr. Lc 2,22-40). Le parole di Simeone per il bambino sono luminose e, insieme, intrise di sofferenza: è la profezia della croce.
La Santa Famiglia, inoltre, deve fuggire in Egitto per evitare la furia di Erode (cfr. Mt 2,13-23) e poi ritorna in Galilea perché in Giudea regna Archelao. Infine, quando Gesù, ormai dodicenne, con i genitori si reca in pellegrinaggio a Gerusalemme per la Pasqua (cfr. Lc 2,41-52), rimane lì con i dottori al tempio. Maria e Giuseppe vivono giorni di angoscia per aver perso Gesù ed è un momento drammatico per la loro fede; essi, infatti, si trovano dinanzi a tutta l’esigenza della loro vocazione che è dono grandissimo ma anche continua e sempre nuova rinuncia di sé (“«Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo» (…) «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro” – Lc 2,48-50).
Quel Bambino ha una madre, Maria di Nazareth, e ha un Padre, Dio che abita nei cieli. Ma ha pure un padre legale – Giuseppe, il carpentiere di Nazareth, della stirpe di Davide – da cui riceve la legittimazione storico-legale. Gesù vive così in una famiglia che, come abbiamo visto, è irripetibile perché partecipa in modo unico al mistero dell’incarnazione. Ma è anche vero che, per molti aspetti, è una famiglia che s’inserisce nella vita normale di tute le famiglie e, allo stesso tempo, produce in coloro che hanno detto il loro “sì” – Maria e Giuseppe – a Dio le vertigini di una chiamata che è “innalzamento” inaudito.
Il sì di Maria e Giuseppe non è né scontato né a buon mercato. Maria, infatti, risponde all’angelo dicendo: “Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?” (Lc 1,34). E il sì di Giuseppe giunge dopo un profondo tormento esistenziale e un doloroso conflitto interiore (cfr. Mt 1,18-21). Giuseppe si trova dinanzi ad una realtà nuova, mai prima accaduta e del tutto inspiegabile dal punto di vista umano. Lui, comunque, sarà il garante della nuova famiglia e, in particolare, del bambino; dovrà difenderlo dalle parole e dai gesti di chi, di fatto, non capisce o, addirittura, si oppone al piano di Dio. Il sì di Maria e Giuseppe, alla fine, realizza il progetto di Dio.
Alla luce di ciò, la devozione alla famiglia di Nazareth non può caratterizzarsi per lirismo fiabesco o tratti idilliaci; al contrario, è una famiglia provata che vive la quotidianità portando a compimento il piano di Dio in un mondo difficile e che, spesso, si oppone anche apertamente. Alla luce di quanto detto, vorrei tentare di rispondere alla domanda: quale strada la Chiesa oggi può percorrere per aiutare gli uomini del nostro tempo?
Prendo spunto dalla vita di un santo poco conosciuto; si tratta del vescovo François de Laval. Come egli fece, nella sua epoca, anche noi, oggi, possiamo, anzi, dobbiamo rilanciare l’azione pastorale della Chiesa privilegiando un ambito in profonda crisi, ossia la famiglia che è realtà antropologica fondamentale e luogo di trasmissione della fede alle nuove generazioni.
Il vescovo de Laval (1623-1708), beatificato da san Giovanni Paolo II nel 1980, e canonizzato da papa Francesco nel 2014, nasce nella diocesi di Chartres – in Francia – da una famiglia all’epoca nota ed influente. Viene ordinato sacerdote ed è nominato vicario apostolico del Canada; arriva in Québec e subito deve farsi carico di quella colonia, allora denominata “Nuova Francia”. Di fatto è lui che pone le basi della Chiesa Cattolica in Canada; allora si contavano solo 5 parrocchie abitate da 2.500 persone e senza collaboratori su cui contare.
Devotissimo alla Santa Famiglia di Nazareth, François de Laval comincia ad occuparsi delle questioni concrete e strutturali della Chiesa nascente del Canada. E cosa fa? Da dove inizia? Inizia dalla famiglia. Gli sta a cuore la questione educativa, fonda scuole e comunità religiose (e istituisce il Seminario), si occupa in prima persona dei poveri, dei bambini bisognosi e dei malati tanto da essere definito “il vescovo di tutti” (indigeni, poveri e sofferenti).
Sempre fedele alla Chiesa di Roma si oppone ad ogni tipo di deriva localistica (la tendenza gallicana), sempre alla ricerca della giustizia in ambito sociale s’impegna in un’opera di mediazione per giungere alla pacificazione fra indigeni e coloni europei.
In pochi decenni il numero delle parrocchie passa da 5 a 35, i sacerdoti da 25 a 102, le religiose da 35 a 97. Vengono ordinati i primi sacerdoti “locali” e fanno la loro “professione” le prime religiose “native”. Il vescovo de Laval, insomma, fu pastore e missionario instancabile e, una volta date le dimissioni e da “emerito”, continuerà – fino alla fine della vita – a spendersi con tutte le sue forze. È una figura di vescovo oggi da riscoprire, sotto tanti aspetti, perché ha molto da dire alla nostra Chiesa che vive un cambiamento d’epoca.
Ritengo che figure di pastori come François de Laval rappresentino, con la loro vita, quei veri segni di speranza di cui oggi la Chiesa necessita. Ogni vera riforma della Chiesa, infatti, nasce non dalle strutture, non dai piani pastorali, non da progetti fatti a tavolino, ma dalle persone e, più esattamente, dai santi.
Quando Papa Leone XIV ricorda alla Chiesa d’esser sempre più “città posta sul monte, arca di salvezza che naviga attraverso i flutti della storia, faro che illumina le notti del mondo” (Leone XIV, Omelia del Santo Padre nella Messa Pro Ecclesia con i Cardinali, 9 maggio 2025), penso che abbia in mente figure di cristiani e pastori come quella di François de Laval.
Ma ritorniamo, ora, al Nuovo Testamento e notiamo, soprattutto nel Vangelo di Luca, come Gesù conosca bene e risulti essere ben inserito nella vita quotidiana di Nazareth, nella spiritualità e nella cultura del suo tempo, ossia la teocrazia ebraica. Tutte queste cose le aveva apprese in famiglia poiché il suo io umano, in nessun modo, era soffocato dall’io divino ma sempre era libero, indipendente e, anzi, valorizzato e portato a pienezza. L’io umano di Cristo è stato, quindi, plasmato dal contesto storico e sociale in cui Gesù ha vissuto, ossia in primis dalla Santa Famiglia.
Gesù, lo si vede già all’inizio della vita pubblica – la predicazione nella sinagoga di Nazareth (cfr. Lc 4,14-30) –, mostra di avere molta confidenza con le Scritture e la liturgia sinagogale, oltre che un legame con gli abitanti di Nazareth da cui era conosciuto come il figlio del carpentiere (cfr. Mt 13,55).
Come disse san Paolo VI nel discorso pronunciato durante il viaggio in Terra Santa nel gennaio del 1964 (e che oggi è entrato a far parte dell’Ufficio delle letture della festa della Santa Famiglia): “… la casa di Nazareth è la scuola dove si è iniziati a comprendere la vita di Gesù, cioè la scuola del Vangelo. Qui si impara ad osservare, ad ascoltare, a meditare, a penetrare il significato così profondo e così misterioso di questa manifestazione del Figlio di Dio tanto semplice, umile e bella. Forse anche impariamo, quasi senza accorgercene, ad imitare. Qui impariamo il metodo che ci permetterà di conoscere chi è il Cristo…” (Paolo VI, Discorso tenuto a Nazareth, 5 gennaio 1964).
Il crescere umano e spirituale di Gesù dipende dall’azione genitoriale di Maria e Giuseppe, dal clima che Gesù respirava in famiglia. La sua formazione umana e spirituale, al di là dell’eccezionalità connessa alla “persona divina”, unita (seppur distinta) alla natura umana, crebbe giorno dopo giorno grazie a quel contesto familiare.
Il vescovo François de Laval, lo ripeto, quando fondò le prime comunità cattoliche in Canada, privo dell’aiuto di sacerdoti, guardò alla famiglia di Nazareth, iniziando dalle famiglie sia dei coloni sia degli indigeni, per creare “comunità eucaristiche” fondate sulla persona di Gesù e, quindi, sul Vangelo; i momenti di preghiera erano guidati dal capofamiglia alla cui responsabilità era affidata la vita di fede dei membri.
Bisogna, insomma, ritornare alla casa di Nazareth nella quale visse Gesù e in cui fu bambino, adolescente, giovane. Nazareth, lo sappiamo, fa parte di quella Galilea presentata nei Vangeli come terra pagana e rozza. Il Vangelo è chiaro: cosa può venire di buono da Nazareth? È questa la domanda di chi pur attende il Messia (cfr. Gv 1,45-49); la Galilea poi viene esplicitamente indicata come pagana (cfr. Mt 4,12-16).
Per costruire la Chiesa nell’attuale Canada il vescovo de Laval decise, dunque, di partire da “chiese domestiche” che si appellavano e si fondavano sulla responsabilità “sacerdotale” del capofamiglia; qui si fa riferimento, ovviamente, al sacerdozio comune – il sacerdozio battesimale – e al sacramento del matrimonio.
Oggi viviamo un’epoca di radicale secolarizzazione, siamo tornati ad un paganesimo diffuso e avvertiamo la crescente mancanza di preti. E così la prima cosa da fare è, secondo la parola di Gesù, pregare: «Vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore. Allora disse ai suoi discepoli: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!». (Mt 9,36-38).
È necessario, allora, riscoprire la vera spiritualità della famiglia di Nazareth superando quella visione che la presenta come realtà idilliaca; la narrazione del Nuovo Testamento, come abbiamo visto, va in tutt’altra direzione. Riscopriamo, anche noi, oggi, nelle nostre città e nei nostri paesi ciò che, con vero senso pastorale, il vescovo de Laval aveva compreso e posto al centro della sua coraggiosa azione.
La Chiesa già presente nella famiglia di Nazareth si pone come Chiesa dei poveri e non viceversa. La povertà spirituale si esprime nel sì della fede e diventa, poi, povertà materiale; il punto è che la povertà spirituale sia veramente tale. Ora, il Vangelo della famiglia che la Chiesa annuncia, attraverso la sua dottrina sociale, offre un insegnamento valida per tutti gli uomini.
E, qui vedo il secondo segno di speranza, una strada da percorrere perché la Chiesa sia sempre più “città posta sul monte, arca di salvezza che naviga attraverso i flutti della storia, faro che illumina le notti del mondo” (Leone XIV, Omelia del Santo Padre nella Messa Pro Ecclesia con i Cardinali, 9 maggio 2025).
La dottrina sociale è invito rivolto ad ogni uomo. Torniamo alle parole di san Giovanni Paolo II nella Centesimus Annus quando, dopo aver ricordato che è strumento di evangelizzazione con cui la Chiesa annuncia Dio e la salvezza, rivelando l’uomo a se stesso, continua così: “In questa luce, e solo in questa luce, si occupa del resto: dei diritti umani di ciascuno e, in particolare, del «proletariato», della famiglia e dell’educazione, dei doveri dello Stato, dell’ordinamento della società nazionale e internazionale, della vita economica, della cultura, della guerra e della pace, del rispetto alla vita dal momento del concepimento fino alla morte” (Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Centesimus annus, n.54).
Così la dottrina sociale della Chiesa diventa proposta autorevole offerta a tutti che va ben al di là della ristretta cerchia ecclesiale. Anche per questo, a pieno titolo, è uno di quei segni di speranza o strada buona da percorrere affinché la Chiesa sia sempre città sul monte, arca di salvezza tra i flutti della storia, faro che illumina le notti del mondo. Il nostro tempo, più che mai, ha bisogno di riflessioni su temi fondamentali di antropologia e validi per tutti, come l’inizio e la fine della vita e il valore della famiglia.
La famiglia, infatti, è “la prima e vitale cellula della società”, secondo il Concilio Ecumenico Vaticano II (Decreto Apostolicam actuositatem, n. 11); essa è intesa come la prima società naturale, come “un’istituzione divina che sta a fondamento della vita delle persone, come prototipo di ogni ordinamento sociale” (Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, n.211) e quindi “il bene della persona e della società umana e cristiana è strettamente connesso con una felice situazione della comunità coniugale e familiare” (Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione Gaudium et spes, n. 47).
Ancora il Concilio Vaticano II, nella costituzione Gaudium et spes, riserva espressioni importanti sulla dignità e il valore della famiglia per l’intero consesso umano: “L’intima comunità di vita e d’amore coniugale, fondata dal Creatore e strutturata con leggi proprie, è stabilita dall’alleanza dei coniugi, vale a dire dall’irrevocabile consenso personale. E così, è dall’atto umano col quale i coniugi mutuamente si danno e si ricevono, che nasce, anche davanti alla società, l’istituzione del matrimonio, che ha stabilità per ordinamento divino. In vista del bene dei coniugi, della prole e anche della società, questo legame sacro non dipende dall’arbitrio dell’uomo. Perché è Dio stesso l’autore del matrimonio, dotato di molteplici valori e fini: tutto ciò è di somma importanza per la continuità del genere umano, il progresso personale e la sorte eterna di ciascuno dei membri della famiglia, per la dignità, la stabilità, la pace e la prosperità della stessa famiglia e di tutta la società umana” (Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione Gaudium et spes, n. 48).
Ecco perché, per la Chiesa, oggi, il matrimonio costituisce il bene iniziale di tante realtà successive. Si tratta, come scrive Gaudium et spes, di un sacramento che, a proposito della sua realtà (materia e forma), coincide col donarsi e nel riceversi della persona con finalità sponsali; è un’alleanza “per sempre”, aperta ai figli e alla loro educazione.
Il matrimonio non fa riferimento – come avviene per altri sacramenti – ad elementi aggiuntivi (ad es. pane, vino, olio) in quanto rimanda ad atti propriamente umani posti secondo la forma indicata dalla Chiesa e, così, la struttura portante del sacramento è costituita dalla donazione “sponsale”.
Sappiamo bene, infine, come la preparazione e l’educazione al matrimonio cristiano non possano essere rimandate all’ultimo momento ma inizino già in famiglia (da bambini), coinvolgendo la stessa famiglia d’origine, la parrocchia, la scuola. E successivamente prosegua nell’età dell’adolescenza e poi, in modo prolungato, nel tempo del fidanzamento; si tratta di un cammino lungo, intenso e coinvolgente che, già in se stesso, è un valore e in sé dischiude ai coniugi la pienezza di persona nella sponsalità e nella genitorialità.
“Dalle famiglie viene generato il futuro dei popoli”: sono parole che Papa Leone XIV ha pronunciato durante il Giubileo delle famiglie. E in quella stessa occasione, rivolgendosi direttamente agli sposi, ha detto: “Il matrimonio non è un ideale, ma il canone del vero amore tra l’uomo e la donna: amore totale, fedele, fecondo. Mentre vi trasforma in una carne sola, questo stesso amore vi rende capaci, a immagine di Dio, di donare la vita” (Leone XIV, Omelia durante il Giubileo delle famiglie, dei nonni e degli anziani, 1 giugno 2025).
